Commissione Tributaria Regionale per il Friuli Venezia-Giulia sez. 3 sentenza n. 28 depositata il 5 febbraio 2018
La cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente e la conseguente iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) non costituisce elemento determinante per escludere il domicilio o la residenza nello Stato, ben potendo questi essere dimostrati con ogni mezzo di prova. In base a tale principio, a più riprese ribadito anche dalla Suprema Corte (sentt. nn. 14434/2010, 24246/20117, 29455/2008), i giudici della CTR triestina hanno affermato che l’iscrizione all’AIRE costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato fiscalmente non residente in Italia. Nel caso in esame i giudici hanno ritenuto che la presenza di familiari in Italia, la disponibilità di un’abitazione, la frequenza di scuole italiane da parte dei figli, i legami amministrativi con le autorità pubbliche e sociali siano tutti elementi idonei a provare che il “centro” degli interessi familiari e sociali del contribuente fosse l’Italia.
RGA 116/17
All’esito di una indagine finanziaria avviata dall’Agenzia delle Entrate Ufficio di Trieste, veniva notificato al sig. XXXXXX un invito con la richiesta di chiarimenti in relazione alle movimentazioni rinvenute, sul conto corrente aperto presso la Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia, per le annualità 2008, 2009 e 2010.
Seguivano tre contraddittori ed all’esito giustificazioni fomite dal contribuente, rispetto l’ammontare degli elementi originariamente riscontrato pari ad ? 342.107,54, l’Ufficio riteneva sforniti di idonea giustificazione movimentazioni per complessivi ? 162.173,91.
Conseguentemente l’Ufficio notificava al contribuente avviso di accertamento per il recupero a tassazione dell’anzidetta somma oltre accessori di legge.
Avverso tale atto il contribuente presentava ricorso avanti la Commissione tributaria Provinciale di Trieste.
Il ricorrente ribadiva le contestazioni mosse in ordine alla correttezza e alla rilevanza degli “indizi offerti dall’Ufficio” per disconoscere la sua residenza estera in Libia (Tripoli) e forniva documentazione attinente il merito dei recuperi.
Con memoria l’Ufficio replicava eccependo preliminarmente l’intervenuta violazione dell’art. 32, comma 3, del DPR n. 600/1972 e disconoscendo comunque la valenza probatoria dei nuovi elementi addotti, fatta eccezione per l’eccezione inerente l’irrilevanza reddituale del movimento in entrata di data 02/07/2008 per ? 34.250,00.
In relazione a tale movimento il contribuente aveva infatti chiarito che l’entrata si riferiva ad un regolamento avvenuto tra la sig.ra XXXXXX e la sig.ra XXXXXX.
Con la sentenza n. 145/2014, depositata in data 12/07/2016, la CTP di Trieste accoglieva parzialmente il ricorso con riferimento alla movimentazione di ? 34.250,00, respingendolo nel resto e compensando le spese di giudizio.
Avverso detta sentenza il contribuente ha presentato l’appello concludendo per la riforma della pronuncia di primo grado con vittoria di spese di lite.
Resiste l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Trieste costituendosi nel presente giudizio e concludendo per il rigetto dell’appello con vittoria di spese.
La vertenza è trattata in pubblica udienza.
Motivi della decisione.
Va preliminarmente evidenziato che si è formato il giudicato sul capo della sentenza inerente il movimento di ? 34.250,00 annullato dai primi giudici come riconosciuto dallo stesso Ufficio.
Va ora affrontato l’appello del Contribuente che risulta parzialmente fondato.
Il Contribuente lamenta l’erroneità della sentenza per non aver riconosciuto l’illegittimità dell’avviso di accertamento per omessa redazione del processo verbale di constatazione, in violazione degli articoli 24 della L. n. 4 del 1929, art. 12, co. 4 e 7, della legge n. 212/2000.
Sul punto i giudici di prime cure hanno correttamente accertato come non vi fosse stata alcuna violazione del diritto di difesa in fase pre-accertativa trattandosi di un controllo documentale effettuato dall’Agenzia in ufficio, sulla base di elementi acquisiti in risposta ad un invito ed a seguito della regolare instaurazione di un contraddittorio con il contribuente.
Giova in proposito richiamare la pronuncia n. 24823/2015 resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite in materia di indagini “a tavolino” ossia quelle verifiche eseguite presso la sede dell’Ufficio in base alle notizie acquisite da altre pubbliche amministrazioni o presso terzi o fornite direttamente dal contribuente mediante la compilazione di questionari o in sede di colloquio presso l’Ufficio, sentenza nella quale la Corte, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, ha ritenuto non sussistente per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini dei tributi non armonizzati, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale mentre per i tributi armonizzati come l’Iva, la Corte ha precisato che “l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione tuttavia comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa”.
Come correttamente rilevato dai giudici di prime cure dunque, in merito all’indefettibilità del contraddittorio endoprocedimentale assume rilievo dirimente l’origine dell’accertamento, che deve conseguire ad un accesso presso i locali dell’impresa oltre alla natura armonizzata del tributo oggetto di accertamento, ipotesi non verificatasi nella fattispecie in esame, nella quale, peraltro, il contraddittorio preventivo risulta regolarmente instaurato.
Nel caso di specie, infatti, come chiaramente precisato nella motivazione dell’atto impugnato e puntualmente verificato dai giudici della CTP le rettifiche operate derivano sia dall’esame della documentazione esibita dal contribuente in relazione alle risultanze delle indagini finanziarie svolte dall’Ufficio, sia dal vaglio delle giustificazioni offerte riassunte in tre memorie, nel corso dei contraddittori susseguitisi dopo la notificazione dell’invito a comparire: esame e vaglio conclusosi con l’emissione dell’atto impugnato senza che si rendesse necessaria l’emissione di alcun processo verbale riguardante l’attività istruttoria compiuta.
Va inoltre osservato come, sulla scorta della documentazione complessivamente esibita, l’Ufficio avesse ritenuto giustificata una parte delle movimentazioni bancarie contestate, recuperando a tassazione l’importo ? 162.173,91, a fronte di movimentazioni originariamente analizzate per un totale di ? 342.107,54.
Con ulteriore motivo di appello il contribuente contesta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto l’illegittimità dell’avviso per carenza di soggettività passiva del sig. XXXXXX, soggetto iscritto AIRE a far data dal 13/02/2007, in quanto tale, non tenuto a dichiarare in Italia i redditi prodotti all’estero.
Va preliminarmente evidenziato come l’art. 2 del DPR 917/1986 stabilisca che “Soggetti passivi dell’imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato.
Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile (comma 2)”.
Dal dettato della norma emerge chiaramente che i predetti requisiti sono tra loro alternativi e non concorrenti: sarà pertanto sufficiente il verificarsi di uno solo di essi affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia.
Del resto è principio pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che alcuna rilevanza è rappresentata dalla cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente e dalla conseguente iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), che quindi non costituisce elemento determinante per escludere il domicilio o la residenza nello Stato, ben potendo questi ultimi essere desunti con ogni mezzo di prova, anche in contrasto con le risultanze dei registri anagrafici.
Sul punto, Cass. 15/6/2010 n. 14434, secondo cui “l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è, elemento di per sé determinante al fine di escludere la residenza fiscale in Italia qualora il soggetto ivi abbia il domicilio, da intendersi quale sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali”.
Identico principio è espresso anche in: Cass. 18/11/2011, n. 24246; Cass. 17/12/2008, n. 29455; Cass. 26/2/2007, n. 4303; Cass. 7/11/2001, n. 13803.
Ne consegue che l’iscrizione all’AIRE costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente, per poter essere considerato non residente fiscalmente in Italia, a differenza di quanto previsto per l’iscrizione nell’ anagrafe della popolazione residente, iscrizione che, da sola, costituisce invece presupposto sufficiente per l’individuazione della residenza fiscale in Italia.
Nel nostro caso, pertanto, come ricavabile dal citato art. 2 TUIR, occorre rifarsi alle nozioni di domicilio e residenza desumibili dal codice civile, che, all’articolo 43, definisce la residenza come il “luogo in cui la persona ha la dimora abituale”, mentre il domicilio come il “luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi”.
In conclusione, deve considerarsi fiscalmente residente in Italia il soggetto che, pur avendo trasferito la propria residenza all’estero e svolgendo la propria attività anche al di fuori del territorio nazionale, mantenga il “centro” dei propri interessi familiari e sociali in Italia.
Pertanto, l’esistenza di legami personali con l’Italia, come la presenza dei familiari, la disponibilità di un’abitazione, il fatto che i figli frequentino effettivamente la scuola in Italia, i legami amministrativi con le autorità pubbliche e gli organismi sociali, sono tutti elementi idonei ad individuare il domicilio in·Italia anche ove il soggetto abbia i propri interessi patrimoniali in prevalenza in altri Paesi.
Gli elementi apportati dall’Ufficio sono i seguenti:
La circostanza che moglie e figli risiedessero e risiedano in Italia, nell’immobile di proprietà del coniuge del ricorrente, deve ragionevolmente indurre a ritenere che ivi fosse localizzato il “centro degli interessi ” del contribuente.
Le utenze di tale immobile risultano intestate al contribuente e continuano tuttora ad esserlo, anche dopo l’intervenuta separazione dei coniugi, omologata nel marzo 2013.
Anche negli anni successivi all’iscrizione AIRE al contribuente risultano intestate delle utenze di telefonia mobile in Italia.
Tale situazione risulta avvalorata dai dati indicati dallo stesso contribuente nella dichiarazione dei redditi presentata per l’anno di imposta 2008: la residenza è indicata a Trieste, via Campo Romano l, il domicilio fiscale a Trieste.
Dalla stessa dichiarazione risulta, inoltre, che il contribuente risulta proprietario, in Italia, di più beni immobili; la circostanza che taluni di tali immobili siano accatastati come popolari ovvero come ultrapopolari non incide sulla indiscussa titolarità; analogamente il fatto che uno degli immobili sia sito in una località montana di Sappada non incide sulla titolarità pro quota dello stesso ed anche in relazione a tale immobile, il cui ulteriore 40% è posseduto dalla sig.ra XXXXXX, le utenze risultano intestate al contribuente anche dopo l’intervenuta separazione dal coniuge.
In data 1/8/2011 il contribuente risulta aver stipulato in Italia anche un polizza infortuni.
L’appellante risulta titolare di rapporti di conto corrente, sui quali affluiscono con regolarità significativi versamenti in contanti, aperti presso istituti di credito nazionali.
Il ricorrente ricopriva e ricopre cariche sociali all’interno di società nazionali, di cui era ed è socio: il XXXXXX risulta essere, infatti, amministratore unico e legale rappresentante della XXXXXX SRL (con sede legale a Trieste, c.f. XXXXXX), di cui nel 2008 deteneva anche una quota di partecipazione al capitale sociale del 58% poi salita al 98%. I poteri incisivi legati alle cariche ricoperte nella compagine sociale mal si conciliano con la “sporadica partecipazione alle assemblee” cui il contribuente si appella per avvalorare la tesi di una sua presenza solo occasionale in Italia.
Il ricorrente risulta essere socio con una quota del 28,75% anche della società italiana XXXXXX SRL (sede legale a Pescara, c.f. XXXXXX).
Da tali elementi, come riconosciuto nella pronuncia di primo grado, emerge chiaramente come, nonostante l’iscrizione all’AIRE e lo svolgimento di attività lavorative anche in un paese estero, il contribuente conservasse in Italia, negli anni contestati, sia interessi familiari e sociali, sia interessi economici, dovendosi pertanto ritenere il sig. XXXXXX fiscalmente residente in Italia.
Quanto alla dimenticanza in cui sarebbe incorso l’Ufficio nel provare la presenza in Italia del ricorrente per la maggior parte dell’anno, si evidenzia che il requisito temporale stabilito dal citato art. 2, comma 2, TUIR, mantiene appieno la sua validità con riferimento ai criteri dell’iscrizione anagrafica e della residenza, proprio perché trattasi di situazioni in cui sono ravvisabili situazioni di fatto direttamente percepibili, ma non anche con il criterio del domicilio, proprio perché il mantenimento sul territorio nazionale dei propri legami affettivi o del centro dei propri interessi deve ritenersi sufficiente a sostenere l’esistenza di un collegamento effettivo e stabile con lo Stato italiano, tale da soddisfare anche il requisito temporale. Peraltro avendo l’Ufficio apportato elementi probanti certi precisi e concordanti circa il fatto che l’Appellante conservasse in Italia il centro dei suoi interessi, competeva al Contribuente dimostrare, dimettendo copia del proprio passaporto la sua presenza all’estero per la maggior parte del periodo, e ciò in ossequi ad un corretto principio di riparto dell’onere probatorio.
Quanto agli elementi prodotti dal contribuente a sostegno della sua residenza estera, riproposti anche in questa sede, con specifico riferimento agli allegati, va osservato quanto segue:
dal contratto allegato al ricorso si evince solamente che il sig. XXXXXX, in qualità di “General Manager” della società XXXXXX, si riservava uno spazio “residenziale” nei locali locati ad uso ufficio per conto di tale società che dovrebbe coincidere, in assenza di ulteriori elementi identificativi del contraente, con la sopra citata società italiana XXXXXX SRL).
Il fatto, poi, che il passaporto sia stato rilasciato all’estero dal Consolato italiano di Tripoli nulla prova, in quanto, nel2005, il rilascio si era reso necessario a causa dell’esaurimento delle pagine del passaporto rilasciato due anni prima, circostanza che, anzi, potrebbe essere letta a contrario e deporre nel senso di un intenso utilizzo e quindi di frequenti rientri in Italia; nel 2009 il rilascio è avvenuto prima dei termini di naturale scadenza del passaporto precedentemente posseduto e quindi, probabilmente, sempre in considerazione del frequente utilizzo e dell’esaurimento delle pagine avvenuto durante un periodo di permanenza in Libia.
Quanto al contratto di consulenza datato 25/05/2008 prova unicamente il fatto che il contribuente, in qualità di manager della società XXXXXX, stipulò un accordo con XXXXXX, consulente, che, in ragione delle sue specifiche conoscenze,; avrebbe dovuto promuovere sul territorio il business della società: perché tale tipologia di accordo dovrebbe comportare la presenza continuativa in Libia del sig. XXXXXX non è chiaro.
Quanto all’accordo per il regolamento dei reciproci rapporti con XXXXXX, presumibilmente un consulente della XXXXXX S.A., stipulato in data 01/04/2012: trattasi di documento inconferente.
Quanto alla presenza del nominativo del ricorrente negli elenchi dell’ICE, la stessa prova unicamente il fatto che il sig. XXXXXX era persona nota in Libia, circostanza mai messa in dubbio.
Quanto agli elementi depositati dall’appellante in data 23/02/2016 da n. 24 a n. 53 si osserva quanto segue:
dopo aver sminuito la valenza delle proprietà immobiliari detenute in Italia (pag. 33 e ss. appello), il contribuente rimanda agli allegati da 24 a 30 per dimostrare il fatto di “trascorrere la maggior parte dell’anno in Libia”.
Al di là della già evidenziata necessità di prescindere, per l’individuazione del domicilio, dalla presenza effettiva della persona in un determinato luogo, si ribadisce come dal contratto allegato (sub n. 26) si evinca solamente che il sig. XXXXXX, in qualità di “General Manager” della società XXXXXX CO, si era riservato uno spazio “residenziale” nei locali locati ad uso ufficio per conto di tale società.
Neppure il fatto che la società abbia sostenuto delle spese per la ristrutturazione degli spazi locati ovvero per le utenze telefoniche (si vedano gli allegati 27 e 28) nulla prova in ordine alla residenza fiscale del ricorrente.
Né è significativo il fatto che lo stesso avesse dei veicoli a disposizione in Libia e che avesse titolo per condurli (cfr. all. nn. 29, 30; gli allegati nn. 31 e 32 risultano redatti in lingua araba e dunque incomprensibili).
L’appellante insiste sull’irrilevanza e comunque sulla neutralità della circostanza rappresentata dalla presenza in Italia del coniuge e dei figli (cfr. pagg. 36 e ss. appello); con particolare riferimento alla sig.ra XXXXXX, il contribuente ribadisce di avere formalmente divorziato dalla stessa; agli atti risulta l’omologazione della separazione intervenuta appena nel 2013, circostanza che non può rilevare in relazione all’anno 2008 (si consideri che, pur dichiarando di aver “interrotto il rapporto di coniugio dalla moglie da molti anni”, al contribuente risultano a tutt’oggi intestate le utenze dell’immobile sito in Trieste, Campo Romano n. l e di quello sito a Sappada); quanto alla frequentazione delle scuole libiche da parte della figlia, deve rilevarsi come tale frequentazione, trattandosi di scuole elementari, risalga agli anni novanta. Del resto, non si contesta il fatto che, “per un certo periodo”, il centro di interesse familiare del contribuente sia stato “addirittura interamente spostato in Libia”: ciò che rileva è che tale stato di fatto non sussistesse nelle annualità contestate.
L’appellante sottolinea quindi la “neutralità” tanto della sua appartenenza a compagini societarie italiane quanto della circostanza che, all’interno delle stesse, egli rivestisse cariche societarie.
In realtà, il bilancio al 31/12/2011 della società XXXXXX SRL con sede legale a Trieste, cui l’appellante rinvia richiamando il documento 53, nulla dimostra in ordine all’impegno dallo stesso profuso in tale società, di cui egli risulta essere amministratore unico e legale rappresentante e di cui, nel 2008, deteneva anche una quota di partecipazione al capitale sociale del 58% (quota salita poi al 98%).
Quanto ai “numerosi impegni contrattuali assunti dal Sig. XXXXXX per la fornitura di servizi stipulati con la propria clientela operante in Libia, che necessariamente presupponevano la sua presenza continuativa in quel paese e che individuano la sede principale dei suoi affari ed interessi”, si ribadisce come il contratto di consulenza datato 25/05/2008 (all. 11 al ricorso) provi unicamente il fatto che il contribuente, in qualità di manager della società XXXXXX S.A., abbia stipulato un accordo con XXXXXX, consulente, che, in ragione delle sue specifiche conoscenze, avrebbe dovuto promuovere sul territorio il business della società.
Anche l’accordo per il regolamento dei reciproci rapporti con tale XXXXXX (allegato 11 al ricorso cit.), presumibilmente un consulente della XXXXXX S.A., stipulato in data 01/04/2012, risulta inconferente.
Il documento n. 33 non è un “contratto di assistenza fiscale in Tripoli” , ma una copia di un passaporto (risalente) della figlia del ricorrente.
Il documento 34 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. 39) non è un “conto corrente presso la Libyan Foreign Bank:”, ma una copia delle pagelle della scuola elementare (periodo 1997/2001) della figlia del ricorrente. Il documento 35 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. n. 40) non è un “certificato dell’Associazione Libia Libera”, ma l’attestato della Prima Comunione della figlia del ricorrente.
Il documento 36 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. n. 41) non è una “nota spese” e non è chiaro cosa rappresenti.
Il documento 37 (che ora viene citato, ma non allegato come doc. n. 42) non è una “lettera di licenziamento”, ma il documento già allegato sub n. 11 al ricorso introduttivo, di cui si è già detto.
Il documento 38 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. n. 43) dovrebbe essere costituito da “documentazione (stralcio) attestante l’attività lavorativa svolta in Libia dal Sig. XXXXXX per conto della XXXXXX”: al di là del contenuto non chiaro di tale documentazione, preme rilevare come non si metta in discussione l’effettivo esercizio di un’attività lavorativa in Libia da parte del ricorrente, quanto il mancato assoggettamento ad imposte in Italia dei redditi derivanti da tale attività.
Il documento 39 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. n. 44) non è una “relata di notifica del Consolato Generale d’Italia in Tripoli” e non è chiaro cosa rappresenti.
Il documento 40 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. n. 45) non è costituito da “transazioni della XXXXXX sottoscritte in Libia dal sig. XXXXXX nell’anno 2008” pare trattarsi del certificato richiamato sub. n. 35, che nulla prova in relazione alla residenza fiscale del contribuente.
Il documento 41 (che ora viene citato, ma non allegato, come doc. n. 46) dovrebbe attestare “spese varie sostenute dal sig. XXXXXX in Tripoli”.
Quanto alla presenza del nominativo del ricorrente negli elenchi dell’ICE, la stessa prova unicamente il fatto che il sig. XXXXXX era persona nota in Libia, circostanza mai messa in dubbio.
In ordine all’avvenuto assolvimento di imposte nello stato estero, circostanza che esimerebbe il ricorrente dal dichiarare tali redditi in Italia, si osserva come le eventuali imposte pagate in Libia, di cui, in ogni caso, non è stata fornita prova, avrebbero semmai potuto essere riconosciute come credito di imposta.
Con ulteriore motivo di appello il Contribuente contesta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto la carenza di prova circa la rilevanza reddituale dei movimenti bancari contestati, la carenza di prova e di motivazione della pretesa impositiva in ordine alla qualificazione giuridica del reddito attribuito, l’inesistenza di presunzioni legali in ordine alle movimentazioni bancarie non giustificate, a maggior ragione se riferite a persone fisiche che non rivestono la qualifica di soggetti passivi Iva.
Sostanzialmente l’appellante ritiene che l’Amministrazione finanziaria non possa acquisire ed utilizzare i conti bancari laddove non sia in grado di provare a quali attività economiche siano da attribuire le relative movimentazioni, non potendosi riconoscere alle stesse alcuna immediata e autonoma rilevanza reddituale in assenza di ulteriori elementi di riscontro.
Occorre in proposito rilevare come l’art. 32, comma l, n. 2), del D.P.R. n. 600/73 ponga a carico del contribuente una presunzione legale relativa con riguardo ai “dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati … a norma del numero 7)”, salvo la prova contraria che dei versamenti egli abbia tenuto conto ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta ovvero che essi non abbiano rilevanza allo stesso fine.
La fonte legale di tale presunzione rende pacificamente utilizzabile dall’Amministrazione finanziaria i dati e gli elementi risultanti dai conti, anche se il carattere relativo di essa ammette la prova contraria da parte del contribuente.
Ne consegue che l’Amministrazione non deve, evidenziare i requisiti di gravita, precisione e concordanza, richiesti, invece, dalle presunzioni semplici, in quanto si deve ritenere che il legislatore, con la presunzione legale relativa di cui al citato articolo 32, sia partito dal presupposto che i movimenti presenti sui conti siano imputabili al titolare; tale presunzione, come ha precisato la Corte di Cassazione, è infatti riconducibile alla massima di esperienza che le rimesse in conto corrente sono normalmente derivate dall’attività del contribuente (Corte Cass., sent. n. 23852/2009; sent. n. 21695/2010).
Ne consegue che l’Amministrazione finanziaria non deve effettuare nessun supplemento di istruttoria, né è tenuta ad elaborare le risultanze contabili dei conti bancari del contribuente, né deve offrire elementi ulteriori di prova, neppure indiziari.
La presunzione legale di riferibilità dei movimenti bancari a operazioni imponibili, inoltre, porta in sé la qualificazione certamente reddituale di quei movimenti, avendo il legislatore posto a carico del contribuente la prova anche della eventuale irrilevanza fiscale degli stessi (Cass. sent., n. 767/2011).
Quanto all’eccepita “inapplicabilità delle presunzioni bancarie nei confronti di una persona in relazione alla quale non è stato dimostrato lo svolgimento di una distinta attività imprenditoriale o professionale”, si osserva come la Corte di Cassazione, con la sentenza 19692 del 27 settembre 2011, abbia confermato la legittimità dell’applicazione della presunzione legale di cui all’articolo 32, comma l, n. 2, del Dpr 600/1973 anche nel caso in cui il soggetto accertato non sia né un lavoratore autonomo né un imprenditore.
Di qui anche il recupero avvenuto in termini di redditi diversi, tipologia reddituale contestata dall’appellante, ma legittimamente utilizzata dall’Ufficio nelle ipotesi in cui il contribuente sottoposto ad indagini non sia titolare di partita Iva.
Nel caso di specie il contribuente, pur lamentando l’erroneità di tale qualificazione, nulla ha dimostrato circa la diversa natura di tali redditi e l’eventuale assolvimento di imposte sugli stessi né in Italia né in Libia.
Quanto ai dubbi mossi dall’appellante sulla irrilevanza reddituale dei prelevamenti dai conti correnti l’appello è fondato. A tal proposito va osservato che in tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta l’art. 32, comma l, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma l, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti. ( Cass. Sent. 1519/2017).
Con ulteriore motivo di appello il contribuente lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto l’illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato per manifesto contrasto con il principio dell’effettività della capacità contributiva stante il mancato riconoscimento in deduzione di una quota di costi, “perlomeno secondo parametri obiettivi quali indici di redditività, percentuali di incidenza dei costi ecc.”.
Premesso che le pronunce citate nell’appello fanno riferimento ad ipotesi di ricostruzione induttiva del reddito di impresa e che l’avviso di accertamento si riferisce ad una ricostruzione reddituale basata su verifiche bancarie non è chiara la natura dei costi di cui il contribuente chiede il riconoscimento, di cui, in ogni caso, mancherebbe la prova.
Come precisato dalla stessa Suprema Corte, attraverso l’applicazione di una riduzione forfetaria all’imponibile accertato ai sensi dell’articolo 32 del Dpr 600/1973, si finirebbe per contrapporre ad una presunzione legale seppure relativa un’altra presunzione e non un fatto specifico provato.
Tale operazione, precisa l’ordinanza n. 23873/2010, non è ammissibile in quanto contrasta con il consolidato orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, a fronte di un accertamento fondato sulle risultanze di indagini finanziarie, spetta al contribuente, in virtù del principio di inversione dell’onere della prova, offrire la dimostrazione che gli elementi acquisiti dall’Ufficio non sono riferibili a operazioni imponibili.
Date queste premesse, precisa l’ordinanza, non è consentito, come invece vorrebbe sostenere l’appellante, che si sarebbe dovuto tener conto in misura forfetaria di oneri deducibili, relativamente ai quali, mancherebbe la prova.
Con ulteriore motivo di appello il contribuente lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto l’illegittimità dell’avviso per tardività della notifica e conseguente intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento.
Sostanzialmente il contribuente ritiene che, avendo provveduto a ritirare gli atti presso il Consolato
italiano a Tripoli in data 07/01/2014, la notifica dell’atto si sarebbe perfezionata oltre termini per l’accertamento di cui all’art. 43 del DPR n. 600/1973.
Giova in proposito ricordare come l’Ufficio, in data 03/12/2013, abbia spedito al contribuente per il tramite del Consolato Generale d’Italia a Tripoli la raccomandata contenente l’atto impugnato e come la stessa sia stata ritirata dal Consolato in data 19/12/2013; ai fini della decadenza dal potere accertativo, la notifica risulta quindi perfezionato entro il 31/12 del quarto anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione dei redditi.
In base al principio di “anticipazione”, gli effetti di ogni tipo di notifica devono, infatti, essere ricollegati, per quanto riguarda il notificante, al solo compimento delle formalità fissate dalla legge a suo carico, vale a dire alla consegna dell’atto all’agente notificatore (ufficiale giudiziario, messo comunale, ufficio postale, ecc..), essendo la successiva attività di quest’ultimo sottratta al controllo e alla sfera di disponibilità dello stesso notificante.
Va richiamata la sentenza 477/2002, con la quale la Corte costituzionale ebbe modo di ricordare che, in tema di notificazioni, le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario debbono coordinarsi con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso.
Per questo motivo, all’epoca venne enunciato il principio per il quale deve ritenersi sufficiente, ai fini del rispetto di un termine incombente sul notificante, il compimento da parte di questi delle sole formalità che non sfuggono alla sua disponibilità.
Con ulteriore motivo di appello il contribuente lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto l’illegittimità dell’atto impugnato per difetto di sottoscrizione in quanto sottoscritto da funzionario privo della qualifica dirigenziale.
In allegato all’atto di controdeduzioni depositato dall’Ufficio in primo grado sono stati depositati gli stralci delle disposizioni di servizio n. 18/2013 e 11/2012, all’epoca vigenti, inerenti la delega di firma.
l. I vizi di nullità degli atti tributari nelle diverse discipline d’imposta devono essere fatti valere tempestivamente dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui all’art. 21 D.lgs. n. 546/1992 (cfr Cass. Civ., Sez. V, sent., nn. 18448/2015 e 20984/2015).
2. Per la nullità degli atti tributari disposta dall’art 42, comma l, del D.P.R. 600/1973, non assume rilievo l’eventuale illegittimità del conferimento d’incarico al capo dell’ufficio siccome avvenuto in dipendenza di una norma regolamentare illegittima o, per quanto rileva, di una norma di legge dichiarata incostituzionale; ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio (ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati) e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24° comma, del d.l. n. 16 del 2012 (cfr Cass. Civ.,”Sez. V, sent., nn. 22800/20151 e 22810).
Con ulteriore motivo di appello il Contribuente lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui a riconosciuto l’illegittimità dell’irrogazione delle sanzioni, illegittimità contestata nel ricorso introduttivo sotto vari profili che in questa sede vengono riproposti.
In primo luogo viene posta in evidenza la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza circa la portata e il significato delle norme da applicare.
Tale incertezza deriverebbe dal fatto che la materia del diritto tributario internazionale pone gli operatori in notevoli difficoltà interpretative, vuoi per le insormontabili differenze linguistiche, vuoi per la complessità delle questioni, vuoi per inevitabili sovrapposizioni e antinomie che vengono ad emergere”.
Posto che, nel caso di specie, il contribuente era stato chiamato a giustificare delle movimentazioni bancarie relative ad un conto corrente aperto presso un istituto di credito italiano, in conformità a quanto disposto dalla normativa italiana sull’accertamento bancario, non si comprende in cosa consistano le “insormontabili differenze linguistiche” segnalate.
L’appellante sottolinea, inoltre, la mancata ricostruzione del profilo soggettivo della condotta ascrittagli.
Tale rilievo non può essere ritenuto meritevole di accoglimento, posto che concorrono tutti gli elementi richiesti dalla norma per l’irrogazione della sanzione.
Con l’ultimo motivo di appello la parte lamenta “l’illegittimità, la nullità e l’infondatezza del provvedimento impugnato sia quanto alle imposte, sia quanto agli interessi e sia, infine, quanto alle
sanzioni, alla luce di tutte le disposizioni di legge attualmente in vigore e di quelle che verranno emanate successivamente alla proposizione del ricorso”.
Non si coglie il senso di tale motivo di gravame, che non è teso a mettere in luce alcuna criticità dell’impugnata sentenza e che, in quanto tale, risulta inammissibile.
In conclusione l’appello del Contribuente risulta parzialmente fondato. La reciproca soccombenza impone anche per il presente grado di giudizio l ‘integrale compensazione delle spese di lite fra le Parti.
Accoglie parzialmente l’appello del Contribuente e in parziale riforma dell’impugnata decisione riduce l’avviso di accertamento non dovendosi ritenere concorrere alla formazione del reddito i prelevamenti di somme dai conti correnti.
Compensa integralmente fra le Parti le spese del presente grado di giudizio.
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