Commissione Tributaria Regionale per il Lazio, sezione n. 2, sentenza n. 1633 depositata l’ 11 maggio 2020
Varie – Contributo AGCM – Natura tributaria – Sussiste – Contrasto dell’art. l.287/90 con il diritto dell’Unione Europea – Non sussiste – Mero atto di riscossione – Emissione cartella di pagamento – Sufficienza – Previo accertamento – Non necessita.
Massima:
Non è rinvenibile alcun contrasto tra la normativa nazionale che prevede l’obbligo di contribuzione in favore dell’AGCM, Autorità garante della concorrenza e del mercato, a carico delle società aventi ricavi totali superiori a 50 milioni di euro e le norme di diritto europeo e segnatamente l’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea, le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, gli art. 101 e 102 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, né sussiste contrasto con i principi comunitari di uguaglianza e non discriminazione. In materia di Riscossione non vi è luogo ad accertamenti atteso che la prestazione patrimoniale imposta, avente natura tributaria, trova diretta fonte nella legge e la determinazione della somma dovuta dal contribuente è stabilita sulla base di mere operazioni aritmetiche, come previste dai commi 7-ter e 7-quater dell’art. 10 della legge n. 287 del 1990. (G.T.). Riferimenti normativi: l. 287/1990, art. 10, commi 7-ter e 7-quater.
Con l’appello principale in epigrafe, la Società XXXXXXX ha impugnato, per l’annullamento, la sentenza n. 8324/2018, del 16 aprile 2018, con cui la CTP di Roma ha respinto il ricorso della appellante avverso la cartella di pagamento n. 02220160026299531, notificata a mezzo PEC il 17 novembre 2016, avente ad oggetto “contributo AGCM 2013”, “contributo AGCM 2014” e “contributo AGCM 2015”.
Con la predetta sentenza, la CTP di Roma, riconosciuta la natura tributaria del contributo portato dalla cartella di pagamento gravata e richiamando la decisione della Corte Costituzionale n. 269 del 2017 – che ha riconosciuto la conformità a Costituzione dei commi 7-ter e 7-quater dell’art. 10 della legge n. 287 del 1990 – ha respinto il ricorso della società contribuente, giudicando legittima la cartella censurata.
Instando per la integrale riforma della decisione di prime cure, con l’appello principale l’appellante censura la decisione di primo grado nella parte in cui ha omesso di rilevare il contrasto dei commi 7, 7-ter e 7-quater della legge n. 287 del 1990 con l’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea, con gli artt. 16, 17, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, con gli artt. 101 e 102 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, con il Regolamento europeo n. 1/2003 e con i principi comunitari di proporzionalità e di ragionevolezze oltre che con i diritti fondamentali di uguaglianza, non discriminazione, proprietà e libertà di impresa. Di qui l’istanza, riproposta con l’atto di appello (già motivo sub 2 del ricorso di primo grado), di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Con il medesimo atto di appello principale, l’appellante propone un secondo motivo (già motivo sub 3 del ricorso di primo grado), eccependo il difetto di notifica dell’atto presupposto della cartella di pagamento.
Con atto di controdeduzioni e appello incidentale depositato in data 14 gennaio 2019, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, deduce l’integrale infondatezza dell’appello principale e, per la denegata ipotesi di suo eventuale accoglimento, propone appello incidentale, denunciando il difetto di giurisdizione del giudice tributario nonché l’inammissibilità del ricorso di primo grado in quanto teso a contestare vizi non afferenti alla cartella impugnata.
All’udienza dell’ 11 febbraio 2020, la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
L’appello principale è integralmente infondato, nei termini appresso precisati.
Occorre preliminarmente evidenziare che, per espressa dichiarazione della società appellante principale (pag. 3 dell’atto di appello) il presente gravame è stato proposto esclusivamente per due motivi, entrambi integranti censure già formulate dinanzi al Giudice di primo grado. E segnatamente, per far valere il presunto contrasto delle norme legislative contenute nell’art. 10 della legge n. 287 del 1990 (commi 7, 7-ter e 7-quater) con il diritto europeo e sollecitare il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia UE nonché per denunciare il profilo di illegittimità della cartella di pagamento impugnata derivante dalla mancata notifica dell’atto presupposto di accertamento della pretesa tributaria nelle specie azionata.
Così delimitato il perimetro dell’oggetto del presente giudizio, può passarsi all’esame del primo motivo dell’appello principale.
Con esso l’appellante denuncia un presunto contrasto della normativa nazionale che disciplina il finanziamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 10, commi 7, 7-ter e 7-quater, della legge n. 287 del 1990) con il diritto dell’Unione Europea, segnatamente con Part. 5 del Trattato sull’Unione Europea, con gli artt. 16, 17, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, con gli artt. 101 e 102 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, con il Regolamento europeo n. 1/2003 e con i principi comunitari di proporzionalità e di ragionevolezze oltre che con i diritti fondamentali di uguaglianza, non discriminazione, proprietà e libertà di impresa.
Il motivo è privo di pregio.
Ed invero, come correttamente dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato nell’atto di controdeduzioni depositato il 14 gennaio 2019, non è rinvenibile alcun contrasto della normativa nazionale che prevede un obbligo di contribuzione a carico delle società di capitali aventi ricavi totali superiori a 50 milioni di euro in favore dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, e segnatamente con le norme di diritto europeo indicate dall’appellante, in quanto:
l’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea è norma non indirizzata agli Stati membri, ma diretta a delimitare le competenze dell’Unione, pertanto nessuna rilevanza può assumere nella materia oggetto del presente giudizio;
le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sono pacificamente applicabili alle norme europee ed a quelle nazionali derivate da norme europee (cfr. C. giust. UE 12 novembre 2010, causa C-339/10; Id., 1° marzo 2011, causa C-457/09), di talché il loro richiamo da parte dell’appellante principale si palesa inconferente, venendo nella specie in evidenza norme legislative nazionali che non costituiscono attuazione di fonti sovranazionali;
gli artt. 101 e 102 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, alla medesima stregua del Regolamento europeo n. 1/2003, genericamente richiamati dall’appellante, disciplinano le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante, pertanto nessuna attinenza sembrano avere con la previsione introdotta dal legislatore nazionale, in assenza di disciplina europea, di una metodologia di finanziamento fondata sulla contribuzione di determinate imprese societarie, secondo parametri rispettosi dell’art. 23 della Carta costituzionale (cfr. C. cost. n. 269 del 2017).
Quanto all’invocato contrasto con i principi comunitari di uguaglianza e non discriminazione, è qui sufficiente rievocare le parole della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla conformità alla Carta fondamentale dei commi 7-ter e 7-quater dell’art. 10 della legge n. 287 del 1990: “…nonpuò ritenersi costituzionalmente illegittima la scelta del legislatore di imporre la contribuzione in esame esclusivamente a carico delle imprese che si contraddistinguono per una presenza significativa sui mercati, perché dotate di una particolare struttura e perché caratterizzate da una rilevante dimensione economica: tali imprese, infatti, in base all’id quod plerumque accidit, sono le destinatarie prevalenti dell’attività dell’Autorità medesima e, quindi, le maggiori responsabili della relativa spesa. Alla luce di tale ratio la selezione legislativa dei soggetti tenuti alla contribuzione non appare arbitraria, né irragionevole” (cfr. C. cost. n. 269 del 2017, punto 10.1).
Quanto, infine, al denunciato contrasto con i diritti fondamentali di uguaglianza, non discriminazione, proprietà e libertà di impresa, in aggiunta agli argomenti di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017 sopra richiamati, può rammentarsi che la disciplina introdotta all’art. 10, commi 7-ter e 7-quater, della legge n. 287 del 1990 “persegue il principale obiettivo, nel quadro dei crescenti vincoli dì finanza pubblica, di riduzione della spesa, mediante il trasferimento integrale sui soggetti sottoposti alla vigilanza dell’Autorità antitrust della totalità dei costi di funzionamento della stessa, al contempo garantendone l’autonomia finanziaria e rafforzandone la posizione dì indipendenza nei confronti dell’Esecutivo” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 25 settembre 2017, n. 4458).
Tale innovativa disciplina è peraltro rispettosa della riserva di legge relativa di cui all’art. 53 della Costituzione, in quanto il comma 7-quater dell’art. 10 della legge n. 287 del 1990 predetermina il soggetto e l’oggetto della prestazione patrimoniale imposta, l’ammontare del contributo per il 2013 e gli anni successivi, la fissazione di limiti quantitativi all’esercizio del potere di variazione dell’entità del contributo, imponendo un limite massimo percentuale di variazione (dello 0,5 per mille del fatturato risultante dal bilancio approvato precedentemente all’adozione della delibera); mantiene, inoltre, fermo il tetto massimo stabilito direttamente dal legislatore (cfr. C. cost. n. 269 del 2017, punto 11).
Ne consegue che il potere di variazione nella specie attribuito dalla legge all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, come chiarito dalla Consulta, “è finalizzato a contenere la contribuzione nei limiti necessari alla copertura degli effettivi costi di funzionamento dell ‘ente, ricavabili dal bilancio di esercizio. A tale scopo si deve orientare – e, in concreto, risulta essersi orientata – la discrezionalità dell’amministrazione” (cfr. C. cost. n. 269 del 2017, cit.).
In sintesi, nessun contrasto è nella specie ravvisabile tra la disciplina introdotta dal legislatore nazionale all’art. 10 della legge n. 287 del 1990 e le norme, i principi ed i diritti di matrice europea invocati dall’appellante principale.
Con il secondo motivo l’appellante principale censura la decisione di primo grado, per non aver dichiarato la nullità della cartella di pagamento per la mancata notifica dell’atto presupposto costituito dall’accertamento della pretesa tributaria. Secondo la prospettazione dell’appellante, poiché la cartella di pagamento relativa ai contributi pretesi dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è un atto di riscossione che non rientra tra le ipotesi specifiche e dettagliate agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973, dovrebbe essere necessariamente preceduto dalla notifica di un avviso di accertamento.
Il motivo è privo di pregio.
Come correttamente evidenziato dal Giudice di prime cure, ogni qualvolta l’importo di cui alla pretesa tributaria trova, come nel caso di specie, diretta fonte nella legge e la determinazione della somma dovuta dal contribuente è stabilita sulla base di mere operazioni aritmetiche, non vi è luogo ad accertamenti di sorta. Peraltro, l’appellante principale omette di rammentare che l’Autorità, prima di trasmettere gli atti all’agente della riscossione, ha inviato formali richieste di pagamento, indicando l’importo, le ragioni della pretesa tributaria e l’annualità di riferimento. In particolare, con nota del 25.09.2015 è stato richiesto il pagamento del contributo dovuto per l’anno 2015; con nota del 28 dicembre 2015, il contributo per gli anni 2013 e 2014. Entrambe le note sono state prodotte nel giudizio di primo grado e costituiscono allegati alla memoria di costituzione dell’Avvocatura Generale dello Stato.
In conclusione, l’appello principale deve essere respinto.
La reiezione dell’appello principale, impone la declaratoria di inammissibilità dell’appello incidentale.
Per la novità delle questioni scrutinate, sussistono comunque giusti motivi per compensare le spese di giudizio.
La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sez. 2, respinge l’appello principale. Dichiara inammissibile l’appello incidentale. Spese compensate.
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