Commissione Tributaria Regionale per il Lazio sezione VII sentenza n. 4341 depositata il 16 luglio 2019
Accertamento – Accertamento tributario – Verbale di constatazione – Notifica – Raddoppio dei termini – Presupposto – Riscontro di fatti che obbligano alla denuncia penale – Ammissibilità
La DP 1 di Roma, sulla scorta delle risultanze contenute nel processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza in data 21 febbraio 2013 nei confronti del contribuente, viste le osservazioni al PVC presentate dalla parte ai sensi dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 in data 22/04/2013, considerata la risposta alla richiesta di chiarimenti dell’Ufficio (ex art. 37 bis, comma 4, D.P.R. n. 600/1973) prodotta dalla parte in data 23/05/2014, ha proceduto con avviso di accertamento n. (omissis/2007) alla rettifica della dichiarazione Mod. Unico 2008 presentata dal contribuente per l’anno d’imposta 2007.
Nello specifico, l’Ufficio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 37 bis e 41 bis del D.P.R. n. 600/1973, dell’art. 67 del D.P.R. n. 917/1986 e dell’art. 5 del decreto legislativo 21 novembre 1997, n. 461, ha accertato a carico del contribuente, ai fini dell’imposta sostitutiva prevista nell’ambito del regime dichiarativo disciplinato dall’art. 5 del decreto legislativo 21 novembre 1997, n. 461, un reddito da plusvalenze non dichiarato pari ad € 13.216.730,00 irrogando la relativa sanzione ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 471/97, stante la presentazione di dichiarazione infedele.
L’attività istruttoria posta in essere dai verificatori – scaturente da una segnalazione trasmessa della Guardia di Finanza di Chieti in data 14/03/2012, relativa a presunte violazioni emerse a conclusione della verifica fiscale nei confronti della società S. S.P.A. – ha evidenziato la realizzazione di una tipica operazione di “International tax planning”, da parte del Gruppo S.
Nell’ambito di tale operazione, attraverso una serie molteplice di atti, i soci di controllo (tra cui il Sig. H.V. ed il Sig. R.R.) ottimizzavano” il carico fiscale complessivo sulle plusvalenze che si sarebbero generate a loro carico ed evitavano la tassazione dei dividendi in caso di eventuali distribuzioni di utili. In particolare, gli ideatori della pianificazione fiscale internazionale miravano a raggiungere i seguenti molteplici obiettivi:
– eliminare il carico fiscale complessivo sulle plusvalenze che si sarebbero generate in capo ai soci di controllo, in caso di un eventuale scambio diretto delle azioni della S. S.p.a. con la holding lussemburghese S. S.A. (le persone fisiche proprietarie, direttamente e/o indirettamente, dell’intero GRUPPO S. risultavano il Sig. R.R. ed il Sig. V.H.);
– evitare l’applicabilità dell’art. 73, comma 5-bis, del TUIR (di cui al D.P.R. n. 917/1986) nei confronti delle due holding lussemburghesi, ovvero la S. s.A. e la S. S.A. Infatti, a seguito della realizzazione del processo di riorganizzazione del gruppo societario inquadrato dai verbalizzanti nell’ambito dell’IT, attuato contestualmente al predetto scambio di partecipazioni, le predette holding:
a) si sono affrancate dal controllo diretto dei soci di controllo;
b) hanno perso il controllo di diritto (ex art. 2359, comma 1, n. 1 codice civile) della S. S.P.A. e delle altre società operative del Gruppo S.
c) evitare la tassazione dei dividendi in capo ai soci di controllo in caso di eventuali distribuzioni di utili da parte della S. S.p.a., usufruendo, nel contempo, del regime fiscale di vantaggio previsto dalla legislazione lussemburghese per le società di capitali.
I verbalizzanti, in sede di redazione del PVC, facevano presente di aver inoltrato informativa di reato alla competente Autorità giudiziaria per la fattispecie delittuosa di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, stante la constatazione della presentazione di dichiarazione infedele per redditi non dichiarati pari ad € 13.216.730,00.
Avverso il predetto avviso di accertamento il Sig. V.H. ha presentato ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma formulando le seguenti eccezioni:
1. infondatezza della pretesa, in quanto l’operazione contestata manca dei requisiti previsti dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 affinché possa essere considerata “elusiva” (mancanza di valide ragioni economiche, aggiramento di obblighi e divieti previsti dall’Ordinamento, ottenimento di risparmi fiscali); ed ancora, illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione degli artt. 178, comma 1, lett. e) e 179, comma 4, del D.P.R. n. 917/86 e dell’art. 73, comma 5-bis del D.P.R. n. 917/86;
2. illegittimità delle sanzioni contestate nel caso di operazioni contestate ai sensi dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/73, anche in forza dello ius superveniens;
3. illegittimità dell’avviso di accertamento per omessa motivazione circa il raddoppio dei termini in conseguenza della mancata allegazione della denuncia penale;
4. violazione dell’art. 42 del DPR 600/73 per difetto di sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte del capo dell’Ufficio.
L’Ufficio, in sede di costituzione in giudizio, rilevava l’assoluta infondatezza delle eccezioni sollevate dal ricorrente e confermava la piena legittimità del proprio operato.
Con sentenza n. 1096/48/2018 depositata in data 15.01.2018, la CTP di Roma rigettava il ricorso confermando integralmente l’avviso di accertamento impugnato e condannando il contribuente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in € 10.000,00.
Avverso detta sentenza la parte presenta ricorso in appello, nel quale ripropone i medesimi identici motivi di impugnazione già dedotti nel ricorso introduttivo del presente giudizio, fatta eccezione per la censura relativa alla violazione dell’art. 42 del DPR 600/73 per difetto di sottoscrizione dell’avviso di accertamento, che, ai sensi dell’art. 56 del D.Lgs. n. 546/1992 deve intendersi rinunciata.
La Direzione Provinciale I di Roma, si costituisce nel giudizio chiedendo il rigetto dell’appello e la condanna del ricorrente alle spese di giudizio.
Al fine di un corretto inquadramento della fattispecie in esame, è necessario far riferimento all’analitico lavoro svolto dalla Guardia di Finanza, la quale ha ripercorso le vicende legate ai mutamenti della compagine societaria della S. SPA e ha altresì contestualmente esaminato gli avvenimenti e le operazioni straordinarie, anche quelle realizzate nell’arco di alcuni anni, relative al Gruppo S., interessato da una profonda riorganizzazione che ha coinvolto diverse società italiane e lussemburghesi.
Per riassumere brevemente, i signori H.V. e R.R. detengono in maniera diretta, complessivamente, il 5,55% del capitale sociale della S. Spa, ma attraverso altre società, indirettamente, controllano le holding lussemburghesi che, insieme, detengono il restante capitale delle S. Spa. Ciò si è realizzato mediante la costituzione delle seguenti società, utilizzate secondo i verbalizzanti quali meri contenitori:
– la S. SRL, società italiana controllata da V.H., la quale possiede una partecipazione totalitaria nella S. S.A., società lussemburghese che, a sua volta, detiene il 66,1% del capitale sociale sia della S. S.A. sia della S. S.A.
– la P. SRL, società italiana controllata da R.R., la quale possiede una partecipazione totalitaria nella P. S.A., società lussemburghese che, a sua volta, detiene il restante 33,9%, 66,1% del capitale sociale sia della S. S.A. sia della S. S.A.
Le conclusioni a cui sono pervenuti i militari della Guardia di Finanza, pienamente condivisi dall’ufficio impositore, sono il frutto di una puntuale disamina delle numerose operazioni, della loro concatenazione, dettagliatamente descritta nel processo verbale di constatazione a cui necessariamente si rimanda, data la estrema complessità della vicenda.
Vanno qui evidenziati gli aspetti salienti dei numerosi passaggi in relazione ai risultati, che il ricorrente ha inteso raggiungere.
Il seguente prospetto illustra in maniera semplificata, il passaggio “indiretto” delle n. 28.340 azioni della S. S.P.A. dai soci di controllo, persone fisiche, alla società di diritto lussemburghese S. S.A., realizzato con lo scopo di evitare plusvalenze tassabili in capo ai soci:
Omissis
Le operazioni così schematizzate sono avvenute a scadenze molto ravvicinate tra di esse: invero, dall’aumento del capitale sociale della S. S.R.L. (con contestuale sottoscrizione da parte dei signori H. e R.) alla costituzione della S. S.A. da parte della S. S.A. sono trascorsi appena 4 giorni.
Il conferimento delle azioni da parte della S. S.R.L. alla controllata S. S.A. e la costituzione della S. S.A. sono avvenute addirittura lo stesso giorno, vale a dire il 29/06/2007.
Pertanto, i signori V.H. e R.R. che, precedentemente, possedevano, in modo diretto (ovvero senza il tramite delle holding lussemburghesi), complessivamente il 59% dell’intero capitale sociale della S. S.P.A., al termine delle operazioni illustrate nel suddetto schema, sono arrivati a possedere in maniera diretta, rispettivamente, l’1,88% ed il 3,67% del capitale sociale della S. S.P.A. (complessivamente il 5,55%).
Così operando, i due soci hanno ceduto il pacchetto azionario senza realizzare alcuna plusvalenza tassabile, attraverso l’applicazione a parere dell’Ufficio ma anche dei Giudici di primo grado e, anche di questo Collegio (artificiosa) del regime fiscale previsto dall’art. 177, comma 2, del Tuir.
Nello stesso lasso di tempo, oltre ai suddetti passaggi societari, sono state realizzate altre e distinte operazioni straordinarie, anch’esse oggetto di capillare disamina della Guardia di Finanza, tramite le quali è stato raggiunto il secondo obiettivo, ovvero l’inapplicabilità dell’art. 73, comma 5-bis, del T.U.I.R. nei confronti della S. S.A., destinataria finale, del pacchetto azionario della S. S.P.A.
In relazione al risultato che la parte ha inteso perseguire, si riporta il grafico rinvenuto dai militari della Guardia di Finanza di Chieti nel personal computer ubicato nell’ufficio dell’amministratore delegato, e riportava in calce dicitura “Si conferma la correttezza dell’organigramma del Gruppo S.”.
Omissis
Le operazioni straordinarie di seguito sinteticamente riportate, (effettuate, in un arco temporale ristretto e che hanno coinvolto anche altre società facenti parte del Gruppo), hanno fatto sì che, attraverso “l’allungamento della catena di controllo”, la S. S.A. – destinataria finale del pacchetto azionario della S. Spa – non fosse controllata direttamente dai signori V.H. e R.R. e, quindi, non rientrasse nel campo di applicazione dell’art. 73, comma 5-bis, del T.U.I.R.
Esattamente:
in data 29/06/2007: trasferimento di n. 5.460 azioni della S. S.P.A. da parte della S. S.A. a favore della S. S.A. La S. S.A. prima della “riorganizzazione” possedeva già n. 21.320 azioni della S. S.P.A.; in seguito alla fusione per incorporazione, deliberata in data 28/06/2007 (il giorno precedente al trasferimento), delle società C. S.R.L. e S. SPA nella S. S.P.A., l’incorporante (S. S.P.A.) ha emesso n. 18.200 nuove azioni, di cui n. 15.600 ricevute per l’appunto dalla S. S.A., con la conseguenza che, in assenza della suddetta operazione di trasferimento, quest’ultima avrebbe posseduto n. 36.920 azioni della società italiana, pari al 52,59% del capitale sociale, e quindi il controllo di diritto della stessa.
In data 31/07/2007: conferimento, da parte della S. S.A. alla C. S.R.L., del 90% delle partecipazioni della S. S.P.A..
Il capitale della S. S.P.A., prima di tale operazione, che l’ha posta sotto il controllo della società italiana, era posseduto al 90% dalla holding lussemburghese.
In data 18/12/2007: fusione per incorporazione della delle società C. S.R.L. e S. SPA nella S. S.P.A.
Con tale operazione, deliberata in data 28/06/2007, le due società, che prima erano controllate al 90% dalla S. S.A., sono divenute parte integrante della S. S.P.A., controllata da quattro soci, di cui nessuno detiene il controllo di diritto su di essa.
In data 21/12/2007: cessione delle partecipazioni della società M. R. S.R.L., da parte della S. S.A. alla S. S.P.A. Il capitale delle M. S.R.L., prima di tale operazione, che l’ha posta sotto il controllo della società italiana, era posseduto al 90% dalla holding lussemburghese.
In data 28/12/2007: cessione delle partecipazioni della società S. S.R.L., da parte della S. S.A. alla S. S.P.A.
Il capitale della S. S.R.L., prima di tale operazione, che l’ha posta sotto il controllo della società italiana, era posseduto al 90% dalla holding lussemburghese.
Orbene, proprio la complessa articolazione e concatenazione di tali passaggi rende a parere della Commissione maggiormente evidente la strategia elusiva.
Le operazioni sopradescritte rientrano tra quelle ricomprese nel terzo comma dell’art. 37-bis alla lettera b), ovvero “conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende”, ritenute potenzialmente elusive e pertanto inopponibili all’Amministrazione Finanziaria, ricorrendone i presupposti previsti dalla norma sopra richiamata.
L’applicazione dell’articolo 37-bis colpisce gli atti “diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario”: vi è elusione se si aggirano obblighi e divieti, ovvero se si conseguono risultati che il sistema disapprova, ricorrendo a stratagemmi rispetto alle varie opzioni fornite dall’ordinamento, a scappatoie che consentono al contribuente di tradire appunto i principi sottesi al sistema, ponendo in essere comportamenti di frode alla legge, l’elusione si sostanzia nell’«utilizzazione di scappatoie formalmente legittime allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici, ottenendo vantaggi che il sistema non consente e indirettamente disapprova». E ancora si legge che «le norme antielusive scattano quando l’abuso di questa libertà dà luogo a manipolazioni, scappatoie e stratagemmi, che – pur formalmente legali – finiscono per stravolgere i principi del sistema».
In particolare, tali operazioni integrano una fattispecie elusiva allorquando sussistano i seguenti requisiti, espressamente richiamati dalla norma:
– requisito dell’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario;
– requisito del risparmio d’imposta conseguito;
– requisito dell’assenza di valide ragioni economiche.
Il ricorrente lamenta la mancanza dei requisiti previsti dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 affinché l’operazione contestata possa essere considerata “elusiva”, formulando argomentazioni, già proposte nelle memorie in sede di contraddittorio.
La parte sostiene che non vi sarebbe stata violazione di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario, in quanto, anche qualora il sig. H. anziché porre in essere lo scambio di partecipazioni ai sensi dell’art. 177, comma 2, del Tuir, avesse effettuato lo scambio di partecipazioni direttamente con la società S. SA, non si sarebbe determinato alcun carico fiscale. Infatti, il conferimento sarebbe stato effettuato ai sensi dell’art. 178 e 179 del Tuir usufruendo del medesimo regime fiscale.
Il ricorrente altresì afferma che l’operazione non ha dato origine ad alcun realizzo di plusvalenze, in quanto anche qualora si fosse realizzato il presunto conferimento “eluso” delle azioni della S. SPA direttamente nella S. SA, in ossequio al disposto degli artt. 178, comma 1, lett. e) e 179, comma 4, del D.P.R. n. 917/1986, l’operazione non avrebbe comportato alcun realizzo di plusvalenze.
Tanto evidenziato, è necessario delineare brevemente il regime fiscale previsto dall’art. 177 del Tuir per gli scambi di partecipazioni.
Il conferimento di partecipazioni di controllo può essere definito come l’operazione in cui un soggetto, denominato “A” (soggetto conferente), possessore di partecipazioni in una società Target “C”, conferisce a “B” (società conferitaria) dette azioni, in cambio dei suoi titoli partecipativi.
Al riguardo, l’art. 177, comma 2, del TUIR dispone che i titoli partecipativi ricevuti dal Conferente “A” (azioni di “B”) in cambio dei titoli di “C” (titoli conferiti) sono valutati ai fini della determinazione del reddito del conferente, in base alla corrispondente quota delle voci di patrimonio netto formato dalla società conferitaria per effetto del conferimento”.
Il regime fiscale contenuto nella predetta norma comporta l’emersione di plusvalenze o di minusvalenze fiscalmente rilevanti per il soggetto conferente, a seconda del valore contabile di iscrizione della partecipazione ricevuta in cambio dalla società conferitaria e del conseguente aumento di capitale sociale in capo a quest’ultima.
Come chiarito anche nella circolare n. 33/E/2010, il regime fiscale previsto dai comma 2 dell’art. 177 del Tuir, per lo scambio di partecipazioni mediante conferimento, si pone come una disciplina speciale rispetto alla disciplina ordinaria di cui all’art. 9 del Tuir, in base alla quale i conferimenti in società devono essere valutati al valore normale.
Il regime impositivo contenuto nell’art. 177, comma 2, del Tuir opera però esclusivamente a condizione che vengano rispettati il requisito soggettivo ed il requisito oggettivo.
A seguito della modifica introdotta dal D.Lgs. n. 247/2005, è stato possibile estendere l’applicazione del regime fiscale per gli scambi di partecipazioni anche ai conferimenti effettuati da persone fisiche non esercenti attività d’impresa.
L’art. 177, comma 2, del Tuir impone, quale requisito oggettivo, che, attraverso l’operazione di scambio di partecipazioni, la società conferita ria debba acquisire il controllo di diritto nella società target “C”.
In sostanza, il soggetto conferente (nella fattispecie i signori H. e R.) potrà godere del favorevole regime fiscale contenuto nella citata norma (e quindi evitare la determinazione e la conseguente tassazione dell’eventuale plusvalenza finanziaria, ai sensi dell’art. 9, comma 5, del Tuir), solo se la società conferitala acquisisce, tramite l’operazione, la maggioranza dei titoli partecipativa nella società obiettivo.
Lo scambio diretto di partecipazioni (le azioni della S. S.P.A. tra predetta società estera S. S.A.) ed i citati soci di controllo (V.H. e R.R.) avrebbe comportato la realizzazione, in capo a questi ultimi di una plusvalenza tassabile, in quanto, in tale ipotesi, non sarebbe stato possibile invocare l’applicabilità del regime fiscale previsto dall’art. 177 comma 2, del Tuir per carenza del presupposto oggettivo.
Più precisamente, le azioni della S. SPA, se conferite direttamente da parte dei citati signori alla S. S.A., avrebbero dovuto essere valutate al valore normale, ex art. 9 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al D.P.R. n. 917/1986, e ciò avrebbe comportato l’insorgere di una plusvalenza.
L’ipotesi alternativa prospettata dalla parte (applicazione degli artt. 178 e 179 del TUIR) sarebbe quella del conferimento diretto delle azioni della S. SPA al capitale della costituenda società lussemburghese S. SA con contestuale trasferimento, in contropartita, delle azioni della costituenda società lussemburghese alle persone fisiche (secondo un determinato rapporto di concambio). Secondo la tesi di parte, pertanto, i soci persone fisiche avrebbero ricevuto, come contropartita delle azioni della S. S.P.A., un determinato numero di azioni della S. S.A.
La parte afferma che in tale ipotesi non ci sarebbe stata realizzazione di plusvalenza.
Tale affermazione, se avesse potuto trovare applicazione al caso in esame – ma così non è – il regime di cui al disposto degli artt. 178, comma 1, lett. e) e 179, comma 4, del D.P.R. n. 917/1986, sarebbe stata condivisibile.
In tal caso, infatti, non si sarebbe realizzato alcun salto d’imposta, per il semplice fatto che il soggetto conferente, a fronte delle partecipazioni detenute nella società italiana (conferita), trasferite per l’appunto mediante il conferimento, avrebbe ottenuto partecipazioni della società conferita aventi il medesimo valore fiscale delle prime ai sensi dell’art. 179, comma 4.
L’operazione, pertanto, nel rispetto del principio generale di simmetria tra le posizioni dei conferenti e quella della conferitaria, da un lato, e quello di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti in capo ai soggetti coinvolti, dall’altro, non sarebbe stata “realizzativa”.
Pertanto, in una fattispecie rispondente alle statuizioni delle norme citate ma, lo si ribadisce, non è il caso di specie, non ci sarebbe stata la realizzazione di alcuna plusvalenza, per il semplice fatto che la “potenziale plusvalenza” sarebbe comunque rimasta in mano al soggetto conferente che non avrebbe versato imposte all’atto del conferimento soltanto perché destinatario, in contropartita, delle azioni della conferitaria, alle quali sarebbe stato attribuito l’identico valore fiscale prima attribuito alle azioni conferite. In sostanza, la “potenzialità fiscale” sarebbe rimasta “in mano” al soggetto conferente, e, soprattutto, sarebbe stata facilmente individuabile grazie alla trasparenza dell’operazione (ci sarebbe stato, infatti, un unico scambio di partecipazioni tra conferente da un lato e conferitario dall’altro).
A ben vedere, proprio l’alternativa invocata dalla parte, e quindi la differenza tra le due ipotesi (prospettata e reale), fa emergere la strategia elusiva, che va ricercata proprio nella capacità delle operazioni compiute di allontanare la plusvalenza finanziaria dalle persone fisiche tanto nel presente, quanto, soprattutto, nel futuro, attraverso la creazione di uno schema di rapporti tra società lussemburghesi ed italiane che costituisce un vero e proprio “scudo fiscale” a protezione delle persone fisiche.
Appare evidente che attraverso il comportamento su esposto, la parte ha aggirato le disposizioni vigenti in materia di plusvalenze finanziarie, ponendo in essere delle operazioni che hanno consentito di evitare la realizzazione della plusvalenza tassabile in capo alle persone fisiche, e, contestualmente, di evitare che la plusvalenza potesse emergere in futuro.
Il regime invocato dalla parte come alternativo a quello di fatto seguito, previsto dagli artt. 178, comma 1, lett. e) e 179, comma 4, del D.P.R. n. 917/1986, non può in realtà trovare applicazione nel caso in esame.
Dalla lettura congiunta della lettera e) e della lettera a) dell’art. 178 discende che le disposizioni in commento si applicano alle operazioni (fusioni, scissioni, conferimenti di attivo, scambi di azioni) tra soggetti residenti nel territorio dello Stato e soggetti residenti in altri Stati membri della Comunità economica europea, purché questi ultimi (gli altri Stati comunitari):
1. non si considerino, per convenzione in materia di doppia imposizione con Stati terzi, residenti fuori della Comunità,
2. appartengano alle categorie indicate nella tabella A allegata al testo unico, da considerare automaticamente aggiornata in conformità con eventuali modifiche dell’allegato alla direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 90/434 del 23 luglio 1990,
3. siano sottoposti a una delle imposte indicate nella tabella B allegata al testo unico o ad altra che in futuro la sostituisca, senza possibilità di opzione.
La ragione delle esclusioni appena elencate è quella di evitare che, attraverso il regime di cui alla norma in commento, si possa realizzare un “salto d’imposta”, ovvero una situazione tale per cui, sia il soggetto residente (nel caso di specie il conferente), sia il soggetto comunitario non residente (nel caso di specie il conferitario), dopo l’operazione straordinaria (nel caso di specie il conferimento), abbiano eliminato, definitivamente, la possibilità di emersione del capital gain (plusvalenza finanziaria) insito nella partecipazione scambiata.
Orbene, l’ipotesi del conferimento diretto, richiamata dalla parte come alternativa rispetto a quella concretamente seguita e considerata dalla GDF e dall’Ufficio come elusiva, dove sarebbero stati i soci, persone fisiche, H. e R., a conferire direttamente le azioni della S. SPA (definita, per stessa ammissione di parte, come la società operativa del Gruppo S.) nel capitale della costituenda S. SA, sarebbe stata in realtà realizzativa dal punto di vista fiscale (con conseguente emersione della plusvalenza tassabile), a causa dell’impossibilità di applicare il regime di cui agli artt. 178, comma 1, lett. e) e 179, comma 4, del D.P.R. n. 917/1986 prospettato dalla parte, poiché:
1. la S. SA riveste la funzione di holding di controllo della S. Spa (società operativa del Gruppo S., per stessa ammissione di parte), e non avrebbe avuto quindi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;
2. la S. SA, in qualità di holding di controllo della S. Spa, avrebbe beneficiato della legge speciale lussemburghese che prevede, per l’appunto, un trattamento speciale per le società madri e le loro controllate, conosciuto come S. o “privilegio di affiliazione” (art. 166 LIR), tale per cui, sia i dividendi percepiti, sia le plusvalenze da cessione di partecipazione, a determinate condizioni, sarebbero state esenti.
In merito alla volontà di evitare l’applicabilità dell’art. 73, comma 5-bis, dei Tuir, la parte contesta che, anche qualora si fosse proceduto, come sostenuto dall’Ufficio, tramite il “conferimento” (cessione) diretto delle azioni da parte dei sig. R. alla S. SA, l’effetto sarebbe stato il medesimo. Infatti, lo scambio di partecipazioni iniziale da parte dei signori H. e R. va considerato come un atto isolato e svincolato dagli altri che lo hanno seguito a distanza di pochi giorni. La struttura del Gruppo è dipesa da successive operazioni poste in essere dal Gruppo S. che hanno seguito precise logiche imprenditoriali e sono state poste in essere da soggetti giuridici diversi.
Le doglianze di parte appaiono prive di pregio.
A parere della Commissione, lo scambio di partecipazioni iniziale da parte dei signori H. e R. costituisce il primo e propedeutico atto di una serie di atti strettamente legati fra di loro e miranti a raggiungere un determinato scopo finale.
Infatti, le divèrse operazioni straordinarie poste in essere nell’ambito del gruppo, tutte nell’arco di tempo compreso tra il 25/06/2007 ed il 28/12/2007 e la considerazione degli effetti che le stesse hanno avuto sulla struttura organizzativa pone in evidenza, in maniera inconfutabile, il legame di interdipendenza sussistente tra di esse in vista del raggiungimento dello scopo finale.
Dispone il comma 5-bis dell’art. 73 del Tuir: “Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.
Proprio in relazione alla corretta applicazione della richiamata norma, va evidenziato che, nel caso in cui il controllo della S. SA e della S. SA (controllanti a loro volta della società italiana S. SFA) fosse stato riconducibile (anche indirettamente) ad un soggetto residente nel territorio dello Stato, le stesse, ai sensi dello stesso art. 73, comma 5-bis, salvo prova contraria, sarebbero state considerate residenti in Italia.
Dal grafico riportato in precedenza si desume con chiarezza che l’interposizione di “ulteriori livelli di controllo”, tra le controllanti della S. SPA e i soggetti italiani residenti, è stata funzionale all’elusione dell’applicazione della norma in commento. Ha evitato che la destinataria finale delle partecipazioni, ovvero la S. S.A., potesse essere individuata, ai sensi del più volte citato art. 73, comma 5 bis del TUIR, quale controllante estera residente nel territorio dello stato.
La parte eccepisce che l’operazione contestata avrebbe ragioni economiche “valide”, in quanto rientrerebbe nell’ambito della più ampia riorganizzazione che ha interessato il Gruppo S. ed è stata attuata al fine di conseguire alcuni precisi obiettivi imprenditoriali e di management della S. SPA (società operativa del Gruppo), di garantire maggior tutela dell’integrità patrimoniale e gestionale della S. SPA, avrebbe dovuto essere funzionale al raggiungimento di una maggiore facilità nell’accesso al credito nonché al reperimento di nuovi finanziatori.
Nella fattispecie in esame, dai controlli è emerso che entrambe le conferitane, S. S.R.L. e la sua controllata lussemburghese, S. S.A., nell’ambito del progetto di ri-organizzazione in atto, erano destinate entrambe a scomparire dopo essere state svuotate completamente del loro patrimonio. Al riguardo, la Guardia di Finanza ha costo in evidenza che, dalla cessione della partecipazione della S. S.A., ha pure realizzato una rilevante minusvalenza che non avrebbe conseguito in assenza dei conferimenti delle azioni della S. S.P.A.
In tale scenario, secondo il parere dei verbalizzanti, condiviso dall’ufficio e da questo Collegio, non sussiste alcuna ragione economica a sostegno della decisione di procedere ad un loro aumento di capitale sociale se non quello di servire da veicoli per far transitare le azioni della S. S.P.A. alla effettiva beneficiaria S. S.A., destinataria, fin dall’inizio, nelle intenzioni del Gruppo, delle predette azioni. Emerge chiaramente che lo scopo perseguito dal Gruppo sia stato esclusivamente quello di godere degli indiscutibili e rilevanti vantaggi fiscali in precedenza descritti.
Si può facilmente concludere che, al di là delle numerose società interposte, il 100% delle azioni della S. SPA è sostanzialmente riconducibile ai signori H. e R.
Certamente, la “riorganizzazione” del gruppo ha unicamente comportato un pesantissimo allungamento della catena di controllo, con conseguente duplicazione dei costi di gestione.
Preme evidenziare che l’allungamento della catena di controllo, attraverso (lo si ribadisce) l’interposizione di ben sei società, è stato realizzato sfruttando una norma fiscale, l’art. 177, comma 2, del Tuir, che prevede un regime volutamente agevolativo al fine di favorire le aggregazioni aziendali.
In conclusione, ciò che si deve ben considerare, è il disegno elusivo che è sotteso ai singoli atti, e che, nella sua architettura complessiva, illumina di una luce nuova e diversa i singoli atti, appunto, rendendo evidente come gli stessi si prestino ad essere quegli stratagemmi, quelle scappatoie, quelle manipolazioni, volti a sfruttare le pieghe della normativa per conseguire risultati disapprovati dal sistema.
Appare evidente che attraverso la serie di comportamenti suesposti, la parte ha aggirato le disposizioni vigenti in materia di plusvalenze finanziarie, ponendo in essere delle operazioni che hanno consentito:
1) di evitare la realizzazione della plusvalenza tassabile in capo alle persone fisiche;
2) di evitare la possibile manifestazione futura della plusvalenza tassabile in capo alle persone fisiche;
3) di evitare che la destinataria finale delle partecipazioni, ovvero la S. S.A., potesse essere individuata quale controllante estera residente nel territorio dello Stato.
2. Sulla eccepita illegittimità delle sanzioni contestate nel esso di operazioni contestate ai sensi dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/73, anche in forza dello ius superveniens.
Quanto alle doglianze di parte relative alla pretesa illegittimità della irrogazione delle sanzioni nel caso di operazioni contestate ai sensi dell’art. 37 bis del DPR 600/73 ed in forza dello ius superveniens, queste sono destituite di fondamento.
In sintesi, secondo la tesi di parte, l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1793 avrebbe natura meramente procedimentale e non sostanziale. Da tale lettura normativa discende che la dichiarazione dei redditi del soggetto che pone in essere operazioni elusive non può considerarsi infedele, per cui l’unica conseguenza prevista dall’art. 37-bis sarebbe il disconoscimento del vantaggio fiscale cui consegue la tassazione “determinata in base alle disposizioni eluse” (art. 37 bis, comma 2 cit.) e non l’applicazione di sanzioni, per le quali, sarebbe necessaria una norma che espressamente la preveda.
A tal proposito, la parte menziona la sentenza “H.”, laddove dichiara espressamente che “la constatazione della esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre ad una sanzione per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco”.
Orbene, su tale questione si è espressa molto chiaramente la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25537/2011, nella quale è statuito quanto segue: “L’art. 37 bis più volte citato prevede che l’Amministrazione, in applicazione del disconoscimento del vantaggio fiscale ritenuto frutto di operazioni elusive, emetta avviso di accertamento, per cui prevede una speciale procedura ed un preciso obbligo motivazionale in relazione al criterio di calcolo delle maggiori imposte.
Quanto alle conseguenze di tale atto, il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, recita: “se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o dalla differenza del credito. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d’imposta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alle fonte“.
Da tale disposizione si evince che la legge non considera per l’applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano “indebite” aggettivo espressamente menzionato nell’art. 37 bis, comma 1 cit.
In sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all’accertamento. Tale conclusione è rafforzata dal testo del comma 6 della stessa disposizione, che prevede che le maggiori imposte accertate siano iscritte a ruolo “secondo i criteri di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in corso di giudizio” rendendo così evidente che il legislatore ritiene la applicazione di sanzioni come effetto naturale dell’esito dell’accertamento in materia di atti elusivi. Presupposto di detta applicazione è il dato non contestato della diretta applicabilità alla fattispecie dell’art. 37 bis in relazione all’oggetto dell’accertamento (fusioni societarie, cessioni di quote, minusvalenze e plusvalenze).
Le conclusioni ora riportate appaiono pienamente condivisibili.
Inoltre, si fa presente che, com’è noto, l’art. 37 bis è stato abrogato dall’art. 20 del D.Lgs. 128/2015; con l’art. 1 del medesimo D.Lgs. 128/2015 è stato inserito l’art. 10 bis – rubricato disciplina dell’abuso di diritto o elusione fiscale – entrato in vigore il primo gennaio 2016.
Comunque, lo stesso comma 13 del citato art. 10 bis della L. 212/2000 stabilisce espressamente che “Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”, in tal modo confermando la corretta applicazione della sanzione di cui all’art. 1 del D.Lgs n. 471/97, anche secondo la normativa vigente ratione temporis.
3. Sulla eccepita illegittimità dell’avviso di accertamento per omessa motivazione circa il raddoppio dei termini in conseguenza della mancata allegazione della denuncia penale.
L’avviso di accertamento impugnato è pienamente legittimo anche sotto il profilo del rispetto dei termini di decadenza.
In primo luogo, lo scrivente fa presente che la Guardia di Finanza, I Gruppo Roma ha provveduto ad inoltrare, in data 18/12/2012 la comunicazione di notizia di reato ex art. 347 c.p.c., redatta nei confronti di R.R. e H.V. alla Procura della Repubblica di Roma.
Solo per completezza, preme sottolineare che, in tema di rapporto esistente tra il raddoppio dei termini e la denuncia all’autorità giudiziaria, con la sentenza 247/2011, la Corte costituzionale ha precisato che “il raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia o dall’inizio dell’azione penale”.
In altri termini, per la Consulta, unica condizione affinché operi la normativa sul raddoppio dei termini è la constatazione dell’esistenza di una violazione per la quale sussiste l’obbligo di denuncia di reato tributario ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., indipendentemente dalla circostanza che tale obbligo sia stato, o meno, adempiuto.
Dalle affermazioni della Corte costituzionale consegue che non assumono rilievo, ai fini dell’operatività del raddoppio dei termini:
– l’effettiva presentazione della denuncia di reato tributario al Pubblico ministero
– l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico ministero, ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione
– la successiva emanazione di una sentenza penale di condanna o di assoluzione da parte dell’Autorità giudiziaria.
Alla luce dei principi esaminati, si comprende che il dovere del Giudice tributario di vagliare autonomamente (o su richiesta del contribuente) la presenza dell’obbligo di denuncia consiste in una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) in ordine alla sola sussistenza dell’obbligo di denuncia (ex articolo 331 c.p.p.) e non in merito all’effettiva presentazione della stessa.
In ogni caso, sulla normativa vigente ratione temporis non può ritenersi che sortisca alcun effetto la recente disposizione inserita che introduce limiti più rigorosi all’applicabilità del termine per l’accertamento raddoppiato.
La parte in particolare lamenta la mancata allegazione della denunzia penale inoltrata dalla Guardia di Finanza, che non consentirebbe alla CTP la c.d. prognosi postuma. Orbene è evidente che i presupposti per la notizia di reato ed il loro riscontro sono ampiamente riportati nell’avviso di accertamento impugnato emesso sulla scorta del PVC redatto a conclusione dei controlli effettuati.
Solo per mero scrupolo difensivo, lo scrivente sottolinea che, l’avviso impugnato è pienamente legittimo anche in relazione al comma 2 dell’art. 42 del DPR 600/73, alla luce del consolidato orientamento della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 22118/2010, n. 7654/2012, n. 26683/2009). In base al quale, in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la legge n. 241/1990, art. 3, comma 3 con la conseguenza che detto obbligo deve intendersi delimitato ai soli atti di riferimento che siano necessari per sostenere quelle ragioni.
E’ appena il caso di accennare che la motivazione deve definire la materia del contendere e far capire al destinatario le ragioni della pretesa erariale; ad è proprio in questo che si diversifica dalla prova, che serve a convincere il giudice. Pertanto, una volta che la materia del contendere sia, adeguatamente, descritta nella motivazione, qualsiasi mezzo probatorio – che può essere fornito successivamente, nel corso del giudizio (in tal senso, la Corte di Cassazione, Sent. n. 5924 del 21/04/2001; Sent. n. 15234 del 03/12/2001) – può essere idoneo al raggiungimento dello scopo, cioè, al convincimento del giudice.
Infine, in ordine alla richiesta di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.
All’accoglimento della stessa osta il difetto degli essenziali requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Le argomentazioni svolte nel ricorso non sono tali da far supporre la presenza del c.d. fumus boni iuris ossia l’apparenza del buon diritto della contribuente; viceversa, per le ragioni ampiamente sopra esposte, se ne è palesata l’inconferenza e la caducità.
Il pregiudizio lamentato dall’attuale appellante, infatti, in relazione all’esecuzione dell’atto impugnato non è stato, come già argomentato, concretato con rilievi puntuali e specifici, posto che il medesimo si è limitato alla genetica prospettazione di un paventato danno grave ed irreparabile derivante dall’adempimento richiesto. Relativamente al “periculum in mora” ossia il citato pericolo di danno grave ed irreparabile si osserva che l’esecuzione del provvedimento può essere sospesa qualora lo stesso sia idoneo a cagionare concretamente all’istante un danno grave ed irreparabile.
Il danno è grave laddove l’esecuzione dell’atto pregiudica la condizione economica del contribuente, anche in virtù dell’entità della pretesa erariale.
Il danno è irreparabile laddove l’esecuzione dell’atto impugnato pregiudica irrimediabilmente la situazione soggettiva del contribuente ad esempio in considerazione del tempo intercorrente fino alla discussione nel merito della vicenda per effetto dell’iscrizione a ruolo e quindi della conseguente pretesa del pagamento delle maggiori imposte dovute oppure per effetto del tempo per la restituzione delle somme nel caso in cui il ricorso fosse accolto con decisione definitiva favorevole all’istante. Infatti, in questo lasso di tempo il contribuente potrebbe trovarsi con una forte esposizione debitoria, ovvero essere assoggettato a pignoramento. L’istanza di sospensione deve, perciò, essere motivata dal contribuente in modo da offrire la prova della sussistenza dei sopra citati requisiti. Si osserva altresì che nella valutazione dei presupposti di concedibilità della sospensione della esecutività dell’atto impugnato bisogna tener conto non solo dell’interesse del contribuente, ma anche di quello dell’ente impositore circa la perdita delle garanzie patrimoniali nelle more della definizione del giudizio principale od anche la maggiore difficoltà della esazione futura del credito erariale. In proposito Suprema Corte con sentenza n. 2845/2012 afferma che “La specialità della materia tributaria e l’esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte impone una rigorosa valutazione dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora dell’istanza cautelare”. Nella fattispecie, relativamente alla motivazione della sussistenza del periculum in mora, si evidenzia che il contribuente non fornisce alcuna prova concreta circa il fatto che non ha liquidità necessaria per far fronte al pagamento della pretesa erariale. La giurisprudenza, infatti, concordemente ritiene che il periculum in mora vada documentalmente provato con adeguate allegazioni non essendo sufficienti apodittiche affermazioni quali quelle usate dall’attuale ricorrente a dimostrare la gravità e l’irreparabilità del danno di cui all’art. 47, comma 1, del D.lgs. n. 546/92.
P.Q.M.
La CRT di Roma, sez. 7, come in motivazione e condanna il contribuente al pagamento delle spese che liquida in € 10.000,00 (Diecimila/00). Raddoppio del C.U.
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