Commissione Tributaria Regionale per il Piemonte, sezione n. 1, sentenza n. 290 depositata il 12 marzo 2020
“Culpa in vigilando” del contribuente
Omessa dichiarazione – Ricostruzione redditi – Accertamento con adesione – Accordo non raggiunto – Validità metodologia accertativa
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
Si premette che, a seguito di verifiche della Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale II di Torino in capo alla S. SRL veniva rilevato che la stessa si avvaleva della ditta individuale I.. (CF ) per attività edilizie e che quest’ultima, per l’anno di imposta 2010, non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi. Dai successivi controlli veniva rilevata l’omessa dichiarazione di reddito imponibile coi conseguenti effetti ai fini IVA. Seguiva comunicazione all’interessato.
Il signor I., a seguito della segnalazione ricevuta, rilevava che il professionista incaricato aveva omesso di procedere agli adempimenti fiscali e che tutta la documentazione contabile di riferimento era stata smarrita.
L’Ufficio provvedeva, in collaborazione col contribuente, a ricostruire la situazione e, in base ai dati raccolti, notificava allo stesso 1″avviso di accertamento n. T7G /2015 con cui, ex artt. 39 co 2 e 41 DPR 600/1973, accertava il reddito di impresa di euro 1.964.448,00 e recuperava euro 837.883,00 di IRPEF, euro 76.613,00 di IRAP ed euro 93.299,00 di IVA, oltre addizionali, sanzioni (determinate in misura minima) e oneri accessori.
Le pretese si basavano sulle rilevazioni svolte derivanti dai dati comunicati dai clienti del contribuente e dalle movimentazioni bancarie (prelievi e versamenti).
Dopo un fallito tentativo di accertamento con adesione il ricorrente, difeso dai dr. F., S. e P., ricorreva tempestivamente avverso il provvedimento, contestando i fondamenti e la legittimità della pretesa in relazione alle motivazioni espresse qui di seguito:
1) Illegittimità dell’atto per omessa allegazione dell’autorizzazione a procedere ex art. 32 co. 1 n. 7 DPR 600/1973.
2) In subordine e nel merito proponeva una diversa determinazione dell’imponibile sollevando ulteriori questioni di illegittimità: violazione e falsa applicazione dell’art. 32 co. 1 n. 2 DPR 600/1973 e omessa considerazione di componenti negative di reddito per euro 1.414.178,11.
3) Illegittimità delle sanzioni irrogate in assenza di elementi soggettivi, ex art. 5 D.Lgs 472/1997.
Chiedevano l’annullamento del provvedimene e in subordine la riduzione della pretesa e la non applicazione delle sanzioni. Con favore delle spese. Contestualmente presentava istanza di sospensione, sussistendone i requisiti.
Si costituiva l’Agenzia delle Entrate sostenendo la correttezza del proprio operato e controdeducendo sui motivi di impugnazione. In particolare, per quanto riguardava la determinazione del reddito imponibile ai fini IVA, sosteneva di essersi attenuto alle disposizioni dell’art. 32 DPR 633/1972.
Chiedeva di respingere il ricorso e l’istanza cautelare e ai fini deflattivi si dichiarava disposto a conciliare, proponendo di attestarsi su quanto offerto al contribuente in fase di accertamento con adesione.
Seguiva deposito documenti da parte del ricorrente.
Dopo un rinvio richiesto dall’Ufficio per addivenire a una conclusione conciliata (che non dava esito positivo), la Commissione Tributaria Provinciale di Torino sez. II accoglieva l’istanza di sospensione e, con sentenza n. 715/2/2018 depositata il 17/08/2018, superava motivando le questioni di illegittimità e nel merito determinava in euro 836.321,756 il reddito imponibile della ditta individuale, in relazione alla somma proposta dall’Ufficio in fase di accertamento con adesione.
In punto sanzioni, rilevata l’assenza di un comportamento doloso, annullava le stesse.
In conclusione respingeva parzialmente il ricorso, rideterminando il reddito imponibile nella misura sopra indicata e compensava le spese.
Appella l’Ufficio con atto Prot. 12971/2019 inviato telematicamente. Nel censurare la sentenza impugnata, rileva la carenza di motivazione della medesima, non potendo essere legittimo l’utilizzo della proposta di mediazione effettuata dall’Amministrazione (non accolta dal ricorrente) ai fini di ridurre l’imponibile accertato e richiama sul punto la pronuncia n. 9659/2017 della Suprema Corte.
Analogamente contesta l’annullamento delle sanzioni. Ribadisce le proprie ragioni in opposizione ai motivi espressi nel ricorso introduttivo.
Chiede la riforma della sentenza di primo grado, con la conferma integrale del provvedimento impugnato.
In subordine chiede venga esperito tentativo di conciliazione giudiziale nei termini proposti, ma con l’applicazione delle sanzioni in misura piena.
Con vittoria delle spese di giudizio di entrambi i gradi.
Si costituisce parte contribuente con atto presentato 1’1/04/2019. Nel controdedurre sui motivi esposti dalla controparte propone appello incidentale in cui contesta la decisione di primo grado per omessa considerazione di alcuni costi deducibili. Chiede, in via principale, il rigetto del gravame, fatto salvo quanto richiesto in via incidentale.
In subordine, in accoglimento dell’appello incidentale, la riduzione del reddito imponibile.
In ulteriore subordine la non applicazione delle sanzioni.
Con favore delle spese.
Nell’udienza dell’11/07/2019 il contribuente esibisce la sentenza del Tribunale Ordinario di Torino riguardante il processo penale che ha rilevato le responsabilità del professionista (la signora V..). Su richiesta dell’Ufficio il Collegio rinvia la decisione per consentire la conclusione conciliata tra le parti.
Nell’udienza del 14/11/2019 la Commissione, su istanza delle parti, rinvia la trattazione alla data attuale.
Con memorie illustrative Prot. n. 2020/8823 depositate il 22/01/2020 l’Ufficio, nel richiamare le vicende attinenti la vertenza, svolge una propria valutazione della sentenza emessa dal Giudice Penale e rileva la negligenza con cui la controparte ha assegnato alla presunta professionista la gestione della propria posizione fiscale. Ribadisce in conclusione le domande esposte nel proprio appello.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Rilevata la mancata adesione di parte resistente alla proposta di conciliazione dell’Amministrazione, questa Commissione procede nella trattazione della vertenza e osserva che l’appello dell’Ufficio merita un parziale accoglimento, mentre l’appello incidentale del contribuente va respinto.
Come si evince degli eventi esposti in precedenza (e non contestati) l’attuale controversia trae origine dal comportamento omissivo della signora V.. alla quale il contribuente aveva affidato la gestione degli adempimenti fiscali relativi alla propria attività imprenditoriale. La vertenza pertanto, in base alle argomentazioni proposte dalle parti, non pone in discussione l’esistenza di un debito erariale, ma riguarda unicamente la legittimità dell’operato dell’Agenzia delle Entrate, la determinazione del quantum costituente il reddito imponibile e la debenza delle sanzioni ad esso riferibili.
Sulle questioni poste i primi giudici, nel ritenere pienamente legittimo il provvedimento impugnato, sulla determinazione dell’ imponibile, ritenute infondate le richieste del ricorrente di tenere in considerazione alcuni costi non documentati, faceva proprio l’importo proposto dall’Ufficio in fase di mediazione e riteneva comunque non dovute le sanzioni in assenza di una responsabilità da parte del contribuente nelle inadempienze attribuite al professionista.
Nell’attuale vertenza, nulla avendo opposto il contribuente in punto legittimità dell’operato dell’Ufficio, la trattazione deve riguardare la determinazione del reddito imponibile e la componente sanzionatoria del gravame.
Sul primo punto l’appellante contesta la decisione di primo grado per la violazione dell’art. 32 DPR 600/1973 e dell’art. 36 D.Lgs 546/1992. Sostiene infatti l’Ufficio che la proposta formulata in fase di adesione non poteva essere utilizzata in via strumentale per ritenere infondata la pretesa tributaria nella sua completezza e richiama in tal senso la pronuncia n. 9659/2017 della Suprema Corte. Non solo, nel sostenere la correttezza del reddito, l’appellante censura la carenza di motivazione e l’utilizzo, da parte dei primi giudici, della documentazione tardivamente presentata dal ricorrente (in fase di adesione).
Il Collegio non ritiene fondata nessuna delle due doglianze. Per quanto riguarda la carenza di motivazione della sentenza impugnata si rileva che, seppure in forma sintetica, la Commissione Tributaria Provinciale ha espressamente indicato, col richiama alle singole voci di costo chiaramente esplicitate, la ragione per cui ha ritenuto di determinare in euro 836.321,76 il reddito della ditta individuale, nel pieno rispetto del citato articolo 36 (tanto più che l’appellante, proprio in corrispondenza delle motivazioni addotte, ha potuto svolgere pienamente la propria opposizione). Quindi, non potendosi porre in discussione la legittimità della motivazione, la questione attiene alla fondatezza della motivazione medesima.
In relazione al contestato utilizzo della documentazione presentata solo in fase di accertamento con adesione, non si può ignorare il fatto che lo stesso Ufficio ha preso atto di tali documenti e li ha utilizzati per la propria proposta. Pertanto, non potendosi riconoscere nell’operato propositivo dell’Amministrazione una componente “aleatoria”, deve ritenersi che l’importo reddituale prospettato, così come rilevato dai primi giudici, fosse da ritenere fondato. Tanto più che, come
(La norma riguarda i versamenti e i prelievi bancari che, come l’art. 51 DPR 633/1972, salvo prova contraria presentata dal contribuente, dispone che siano considerati ricavi ai fini della determinazione del reddito. )
risulta evidente dagli eventi successivi, non è in discussione il fatto che la professionista incaricata avesse perso la documentazione di riferimento e che coerentemente il contribuente ha posto in essere, in un ragionevole lasso di tempo, la ricostruzione (parziale) di quanto smarrito (costi di cui non è contestata la veridicità, ma solo la tardività della loro presentazione). In tale ambito, senza stravolgere l’indirizzo espresso dalla Corte di Cassazione, correttamente la Commissione Tributaria adita, in corrispondenza della natura sostanziale del processo tributario, ha legittimamente determinato l’imponibile, reddito che qui viene confermato. Per le medesime ragioni non possono concorrere alla determinazione dell’imponibile gli ulteriori costi presentati dal contribuente, in quanto non documentati.
La sentenza impugnata va confermata sul punto.
Diversa è invece la seconda questione in discussione, ovvero la componente sanzionatoria della pretesa. La Commissione Tributaria Provinciale, nel considerare la legittimità del suddetto gravame, ha ritenuto che le violazioni accertate fossero riferibili unicamente al professionista infedele e non sussistessero le condizioni previste dall’art. 5 D.Lgs 472/1997 (riconoscendo quindi implicitamente di doversi applicare quanto previsto dall’art. 6 co. 3 D.Lgs 472/1997).
La motivazione non può essere condivisa. La Corte di Cassazione (n. 19422/2018), per i casi in cui l’inadempienza sia attribuibile al professionista intermediario con l’Erario, ha ritenuto che l’assenza soggettiva di responsabilità debba essere confermata da una adeguata attività di controllo del contribuente. Ovvero lo stesso doveva verificare l’effettuazione corretta della dichiarazione dei redditi. Fatto questo non avvenuto nel caso in esame. La scarsa vigilanza è dimostrata anche dal fatto che la denuncia querela presentata dal contribuente (RGNR n. 20181/2016) verso la professionista è intervenuta solo dopo che gli era stato notificato il provvedimento (redditi 2010 da dichiararsi nel 2011) qui impugnato. Ciò determina la soggettività della violazione, anche se potrebbe rilevarsi l’assenza di dolo. In tale contesto la proclamata diligenza effettuata dal resistente non può essere ricondotta alla semplice delega rilasciata (in buona fede) alla professionista, né tantomeno alla regolare documentazione alla stessa consegnata, nulla incidendo l’idoneità formale della commercialista.
In tale contesto il richiamo alle sentenze del Tribunale di Torino effettuato dal resistente non può ritenersi sufficiente per rilevare l’assenza di soggettività ai fini sanzionatori. Infatti, come rilevato dall’Ufficio, il Giudice penale non ha ravvisato alcun comportamento fraudolento da parte della V.., in quanto la stessa ha sostenuto di aver operato in accordo col cliente (e non solo per l’anno 2010), tanto è vero che il Giudice non ha accolto le richieste di parte civile.
Il Collegio ritiene quindi fondato il presupposto della “culpa in vigilando” per l’applicazione delle sanzioni in capo al contribuente.
Per quanto riguarda l’appello incidentale, le ragioni espresse dal ricorrente sulla deducibilità dei costi non correttamente registrati non possono essere condivise, non potendo il criterio di verosomiglianza, come osservato dalla Commissione Tributaria Provinciale (che già ha riconosciuto l’efficacia della documentazione tardivamente presentata), trovare applicazione nell’accertamento tributario effettuato ex artt. 39 co. 2 e 41 DPR 600/1973. Infatti, pur volendo riconoscere la valenza presuntiva degli elementi forniti, resta nella potestà degli accertatori prima e del Giudice poi, rilevarne i requisiti previsti dalla norma. Nel caso in esame non sussistono le informazioni adeguate per ammettere la deducibilità di costi occulti, né tantomeno i medesimi possono concorrere alla formazione del principio della capacità contributiva sollevato dall’interessato.
In conclusione la Commissione, in accoglimento parziale dell’appello principale, riforma la sentenza di primo grado riconoscendo dovute le sanzioni, rimandando all’Ufficio il relativo calcolo in funzione dell’imponibile deciso dai primi giudici. Conferma nel resto la decisione impugnata. Inoltre, in applicazione dell’art. 15 D.Lgs 546/1992, condanna il contribuente alle spese del grado, mitigate dalla parziale soccombenza, che liquida in euro 10.000,00 (diecimila,00), donde il dispositivo.
P.Q.M.
La Commissione rigetta l’appello incidentale e, in parziale accoglimento dell’appello dell’Ufficio dichiara dovute le sanzioni nella misura dovuta in ordine al reddito come determinato in primo grado. Conferma nel resto e condanna il contribuente al pagamento delle spese del grado, liquidate in euro 10.000,00.
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