COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Veneto sez. V sentenza n. 524 depositata il 24 giugno 2019

Imposte dirette – IRPEF – Cessione di marchio da parte di privato – No reddito diverso – Intassabilità

L’Agenzia delle Entrate di Padova, in esito alla verifica fiscale eseguita nei confronti della A. srl di Padova, ha notificato in data 10 luglio 2017 avviso di accertamento n. (omissis), contestando la deducibilità di alcune consulenze tecniche, il conferimento di un marchio e la deducibilità di spese di sponsorizzazione a favore della A., accertando maggiori imposte irap ed iva per l’esercizio 2012, ritenendo non documentati i costi per consulenze, incongruo in buona parte l’importo per spese di sponsorizzazione, illegittima la mancata applicazione nei confronti dei due soci, B.A. e B.S., delle ritenute connesse alla cessione della proprietà di due marchi d’impresa misti, del valore complessivo di € 180.000,00.

Conseguentemente, avendo la società adottato il regime di tassazione per trasparenza, l’Ufficio notificava due avvisi di accertamento n. (omissis) e (omissis) nei confronti dei due soci al 50%, con i quali venivano accertati maggiori redditi diversi non dichiarati pari ad € 90.000,00 ciascuno corrispondenti al valore della cessione dei marchi; infine notificava separatamente ai due soci avvisi di accertamento n. (omissis) e (omissis) per il recupero dei redditi di partecipazione derivanti dai rilievi sui costi non documentati e quelli di sponsorizzazione accertati nei confronti della società.

Tutti gli atti notificati sono stati separatamente impugnati avanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Padova, ritenendo sia la società che i soci illegittima la pretesa, contestando tutti i tre rilievi e chiedendo l’annullamento degli avvisi impugnati.

Con sentenza n. 402/04/2018, la CTP di Padova, riuniti previamente i distinti procedimenti, confermava la legittimità dell’operato dell’Ufficio e la fondatezza dei rilievi contestati, rigettando i ricorsi riuniti con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese.

Contro la sentenza è stato interposto appello, chiedendone la riforma in quanto a) ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica dei marchi non può riconoscersi natura né di redditi di lavoro autonomo né di redditi diversi; b) i costi di sponsorizzazione sono assistiti da presunzione assoluta di deducibilità ai sensi dell’art. 90 della legge 289/2002 fino all’importo di € 200.000,00; c) la deducibilità dei costi pari ad € 38.000,00 in quanto corrispondenti a rimborsi forfettari per trasferte relative al periodo 2007/2012.

Formulava contestualmente istanza di sospensione della sentenza di primo grado, ritenendo sussistente sia il fumus boni iuris che il periculum in mora.

Si è costituito l’Ufficio, rilevando prioritariamente che non risulta impugnato l’avviso di accertamento n. (omissis) relativo ai maggiori redditi accertati nei confronti del socio B.A., che pertanto resta per tale pretesa escluso dal presente giudizio.

Per il resto, conferma le ragioni e motivazioni già apprezzate dal primo giudice, contestando le deduzioni di controparte e chiedendo conferma della sentenza, con vittoria di spese.

Per quanto riguarda l’istanza di sospensione, si oppone alla richiesta ritenendo insussistenti i necessari presupposti per l’accoglimento.

Nell’udienza del 15 marzo 2019, questa Commissione Tributaria Regionale ha respinto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Padova, fissando l’udienza per la discussione nel merito.

In data 15 maggio 2019 la vertenza è stata chiamata in discussione e decisa come segue.

Preliminarmente, va rilevato che la mancata impugnazione della sentenza relativamente all’avviso di accertamento n. (omissis) concernente i maggiori redditi accertati nei confronti del socio B.A. sottrae al giudizio odierno le questioni ad esso inerenti.

Per quanto riguarda il merito delle questioni oggetto del contenzioso, il Collegio, esaminate le deduzioni e controdeduzioni presentate dalle parti, ritiene di pronunciarsi come segue.

Quanto al punto a) dell’appello, l’obbligo di assoggettamento ad imposizione fiscale dell’incremento di ricchezza derivante, come nella fattispecie, dalla cessione o utilizzazione economica dei marchi concessi da privati, non appare, dopo le innovazioni introdotte dal D.Lvo 480/92, espressamente disciplinato dal legislatore. Tale lacuna è stata rilevata da ambedue le parti in causa, e ritenuta colmata unicamente in via interpretativa, oscillando il pensiero a livello dottrinale tra chi sostiene, come i ricorrenti, l’irrilevanza fiscale della fattispecie, e chi invece, come l’Ufficio, la riconduce alle ipotesi generatrici di reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. l) del Tuir, basando tale assunto sulle risoluzioni 81/E del 2002 e 30/E del 2006 dell’Agenzia delle Entrate, sostenendo che si tratta sempre di reddito e quindi di fattispecie tassabile, al di là delle disposizioni di legge.

Tale tesi interpretativa è stata applicata dall’Ufficio, ma a giudizio del Collegio pare difficile adeguarsi ad essa non ritenendosi fondate le ragioni che la sostengono: se da una parte infatti la acquisizione del marchio determina a favore dell’impresa acquirente un costo deducibile – ed effettivamente dedotto – del reddito di impresa, dall’altra il corrispettivo pagato ai soci è costituito in parte come aumento di capitale ed in parte come riserva sovrapprezzo di azioni.

La riforma civilistica del regime giuridico del marchio, che ne prevede ora la libera trasferibilità anche da soggetti privati superando la disciplina che ne configurava la cessione o concessione in godimento come componente del reddito di impresa, non ha trovato corrispondente adeguamento nella normativa tributaria, ragione per la quale si è sviluppata quella duplice lettura interpretativa cui si è fatto cenno.

Ma anche a voler accettare la tesi dell’Ufficio, ritiene il Collegio che la cessione dei marchi non possa essere equiparata all’assunzione di un obbligo di fare, non fare e permettere, che è presupposto necessario e sufficiente per ricomprendere il relativo corrispettivo tra i redditi diversi indicati dall’art. 67 del TUIR, che ne prevede l’assoggettamento a tassazione.

Tale presupposto, infatti, non sussiste nella fattispecie, per due ordini di ragioni.

L’assoggettamento a tassazione presuppone che l’operazione di cessione dei marchi abbia prodotto un reddito tassabile come incremento di ricchezza, ma di tale incremento l’Ufficio non da alcuna prova, perché da una parte l’operazione appare come un mero scambio tra il valore dei marchi ed il valore corrispondente all’aumento di capitale ed alla riserva di sovrapprezzo di azioni, dall’altra non è stato evidenziato alcun elemento che attesti un incremento di valore dei marchi, ad esempio indicandone un precedente valore commerciale di acquisto o una stima risultante da documenti fiscalmente rilevanti (bilanci sociali, dichiarazioni reddituali, etc.)

Ancor più decisiva appare la seconda ragione, in quanto la cessione del marchio non può in alcun modo essere assimilata alla concessione d’uso, che ne consentirebbe l’inserimento dei proventi tra i redditi diversi indicati all’art. 67, perché il diritto – o l’obbligo – di concedere in uso presuppone che il concedente abbia la proprietà del bene, mentre nella fattispecie, trattandosi di cessione del marchio ad un soggetto diverso, il cedente si spoglia della proprietà e quindi di ogni diritto sul bene stesso, ivi compreso anche il potere di concedere in uso.

Appare evidente che sussiste, sul punto specifico, una lacuna legislativa, non superabile per via interpretativa, a prescindere dalla consistenza delle ragioni addotte a supporto, a ciò ostando la specifica disposizione dell’art. 23 della Costituzione, secondo la quale “nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

Il motivo di appello sul punto è fondato e va pertanto accolto.

Quanto al motivo sub b), relativo ai costi sostenuti per sponsorizzazione, spetta a chi li ha sostenuti dimostrarne l’inerenza e la effettività. La società ha documentato, ma la questione non pare contestata dall’Ufficio, che a favore della A. è stato erogato l’importo nella misura posta in deduzione, essendosi l’Ufficio espresso negativamente al riguardo ritenendo tali spese abnormi e prive di giustificazione economica.

La Suprema Corte, con una serie di sentenze, puntualmente citate nella memoria della società, ha affermato che le spese di sponsorizzazione sono assistiti da presunzione assoluta di deducibilità ai sensi dell’art. 90 della legge 289/2002 fino all’importo di € 200.000,00, a condizione che il soggetto sponsorizzato sia una compagine sportiva dilettantistica, la sponsorizzazione miri a promuovere l’immagine ed i prodotti dello sponsor e il soggetto sponsorizzato abbia posto in essere una attività promozionale.

Sussistendo tali requisiti, come in effetti risulta documentato dalla società, la stessa Corte ha affermato (sent. 21405/2017) che la verifica oggettiva circa la necessità o l’opportunità di sostenere i costi di sponsorizzazione non possono essere oggetto di sindacato da parte dell’Ufficio, ma attengono alla libera e responsabile scelta di strategia commerciale, riservata all’imprenditore.

In questo contesto, appare da una parte irrilevante l’esistenza di benefici derivanti alla società dalla sponsorizzazione, che comunque sono esposti dalla società ricorrenti mediante il raffronto con il recupero di fatturato negli esercizi successivi, dall’altra appari invece provato che la società dilettantistica abbia svolto attività promozionali a favore della società che ha corrisposto il contributo di sponsorizzazione, essendo ininfluente il rapporto del contributo corrisposto e l’ammontare effettivo dei costi di promozione effettivamente sostenuti dalla società sportiva.

In assenza pertanto di elementi che facciano supporre l’esistenza di accordi illeciti tra le parti, quali l’emissione di documenti fiscali fittizi da parte della società ricorrente o operazioni di restituzione di parte dei contributi erogati, elementi del resto neppure ipotizzati dall’Ufficio, non pare possa negarsi la legittima deducibilità dei costi di sponsorizzazione nella misura esposta in contabilità dalla A. srl.

Il motivo d’appello concernente tale ripresa è fondato.

Quanto al motivo sub c), che riguarda la deducibilità dei costi pari ad € 38.000,00 corrispondenti a rimborsi forfettari per trasferte relative al periodo 2007/2012, la ripresa va confermata, non avendo neppure in sede di appello i ricorrenti presentato alcuna documentazione comprovante adeguata giustificazione dei costi di trasferta dichiaratamente sostenuti.

L’infondatezza del motivo d’appello, oltre che per omessa e carente documentazione, risulta anche dalla violazione del principio di competenza dei costi sostenuti, che riguardano il quinquennio 2007/2012 e che quindi solo in parte porrebbero riferirsi all’esercizio fiscale in esame, cioè l’anno 2012.

In definitiva, per quanto sopra esposto, la sentenza di primo grado va riformata limitatamente ai motivi d’appello sub a), relativo all’imposizione fiscale del presunto incremento di ricchezza derivante dalla cessione dei marchi concessi da privati e b), concernente la deducibilità dei costi di sponsorizzazione, conseguendone il ricalcolo del reddito di impresa e della quota attribuita al socio appellante relativamente alla quota di partecipazione.

Stante la parziale reciproca soccombenza e l’assenza di giurisprudenza in merito al motivo a), si dispone la compensazione tra le parti delle spese del giudizio.

P.Q.M.

la Commissione Tributaria Regionale, sez. n. 5,

accoglie

l’appello limitatamente ai punti a) e b) e conseguentemente riforma parzialmente la sentenza di primo grado, confermando quanto deciso per il punto c), con compensazione integrale tra le parti delle spese del giudizio, ivi comprese quelle per la fase cautelare.