Commissione Tributaria Regionale per la Calabria sez. 2 sentenza n. 98 depositata il 23 gennaio 2019
MASSIMA
In tema di accertamento spetta al contribuente offrire la prova della non rispondenza dei dati extracontabili alla realtà aziendale, infatti, secondo il 1° comma, lett. c), dell’art. 39 del D.P.R. 600/1973, è consentito procedere alla rettifica del reddito anche quando l’incompletezza della dichiarazione risulti dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei riguardi di altri contribuenti, da cui derivino presunzioni semplici, desumibili anche da documentazione extracontabile, ed in particolare da contabilità “in nero”, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore.
Ritenuto in fatto
1. La vicenda processuale può essere così riassunta: La società contribuente ha proposto opposizione all’avviso di accertamento meglio descritto in epigrafe e basato su PVC, eccependo la violazione dell’art. 12 della L. n. 212/2000 perché la verifica si era protratta oltre i trenta giorni lavorativi previsti per legge, la violazione dell’art. 52, comma 6, D.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 33 D.P.R. n. 600/19873 per il rinvenimento di files relativi alle giacenze della ditta A G , mai sottoscritto dal l.r.p.t. della società né consegnato alla stessa, che, pertanto, ne aveva avuto conoscenza solo a seguito del PVC. Aggiungeva che l’Ufficio non aveva considerato il rischio insito al fatto che la merce non venisse venduta, con conseguente accumulo della stessa.
L’Agenzia, nel costituirsi in giudizio, spiegava che erano stati rinvenuti dei files dai quali emergeva che l’ammontare del valore delle rimanenze era pari a euro 1.149.337,00, mentre la società aveva esposto rimanenze per euro
1.820.747,00 che, conseguentemente, era stato individuato il costo del venduto e a esso era stato applicato il ricarico dichiarato dalla stessa società, pari al 12,7%, con conseguente quantificazione del ricavo in ? 1.333.849,76, con con un reddito d’impresa pari a euro 100.230,00 contro quello dichiarato, pari a euro 13.145,00.
2. La CTP ha accolto il ricorso osservando che la contribuente aveva eccepito la vendita a stock di beni e aveva allegato le relative fatture, mentre l’Agenzia non aveva verificato se la mancanza di beni dal magazzino fosse reale o apparente.
3. La decisione è stata impugnata dall’Agenzia.
Considerato in diritto
1. L’appello è fondato.
1.1. L’Agenzia eccepisce, in primo luogo e fondatamente, come la mera esibizione delle fatture non costituiscano prova della vendita a stock.
Tanto discende dalla semplice osservazione che la fattura è un documento formato dalla stessa parte che intende avvalersene, mentre le scritture possono avere valore di prova solo nel caso opposto, ossia quando siano state formate dalla stessa parte contro cui vengono fatte valere.
Tale vendita a stock, dunque, per essere provata doveva essere provata con documentazione proveniente da soggetti terzi o, comunque, di maggiore pregnanza e oggettività come, ad esempio, il documento di trasporto progressivamente numerato dal quale risulti la natura e la quantità dei beni, nonché la sottoscrizione del cessionario che attesti la ricezione dei beni stessi. Il cedente, inoltre, avrebbe dovuto indicare nel documento di trasporto l’ammontare complessivo del costo sostenuto per l’acquisto dei beni.
Nel caso in esame non si ha nessun documento di trasporto, né la prova delle somme di denaro ricevute per la vendita a stock, né la merce interessata a questa vendita a stock e, segnatamente, se avesse riguardato la merce presente in magazzino gli anni precedenti.
La CTP, dunque, erra quando ritiene provata la vendita a stock, mentre di tale vendita non si ha la benché minima prova.
1.2. La CTP erra, inoltre, quando afferma che il file extracontabile non abbia alcun valore, essendo vero, invece, che una volta rinvenuta detta documentazione, spetta al contribuente l’onere di provare che i dati in essa contenuti non siano rispondenti al vero, per come insegna la Corte di cassazione che, sul punto, ha osservato che «In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 39, primo comma, lett. c), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 consente di procedere alla rettifica del reddito anche quando l’incompletezza della dichiarazione risulta “dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti”, da cui derivino presunzioni semplici, desumibili anche da documentazione extracontabile ed in particolare da “contabilità in nero”, costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagliartt. 2709 e ss. cod. civ. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, l singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta. (In applicazione di tale principio la s.e. ha cassato la sentenza di merito che aveva annullato l’avviso di accertamento fondato sulla documentazione extracontabile di altro contribuente, reperita in sede di verifica nei confronti di quest’ultimo)», (Sez. 5, Sentenza n. 20094 del 24/09/2014, Rv. 632341).
L’Ufficio, dunque, ha correttamente elaborato i redditi sulla base dei dati contabili reperiti, mentre la società contribuente (comprensiva dei soci) non ha offerto la prova della non rispondenza dei dati extracontabili alla realtà aziendale né, in particolare, ha offerto prova adeguata della vendita a stock.
L’appello va, dunque, accolto.
Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Commissione Tributaria Regionale della Calabria, definitivamente decidendo, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, così provvede:
Accoglie l’appello e, in riforma della decisione impugnata, rigetta il ricorso;
condanna la società e i soci appellati, in solido, alla rifusione, in favore dell’Agenzia appellante, delle spese del doppio grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori come per legge.
Catanzaro, 22 gennaio 2019