Commissione Tributaria Regionale per la Calabria, sezione n. 2, sentenza n. 835 depositata il 5 marzo 2020
illegittimo l’accertamento per mancata esibizione, in via preventiva o successiva, dell’autorizzazione ad effettuare indagini bancarie
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO FATTO
La Commissione Tributaria Regionale di Catanzaro, con sentenza n. 1061/1/15, pronunciata in data 24.06.2015, depositata in segreteria il 25.06.2016, dichiarava inammissibile l’appello proposto in data 15.04.2013 dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Catanzaro, contro la sentenza della CTP di Cosenza n. 415/Xll/12, depositata il 15.10.2012, che aveva accolto il ricorso del sig. C.A. contro l’avviso di accertamento emesso per IRPEF, IRAP e altro per l’anno 2006.
La Commissione aveva rilevato il mancato “tempestivo deposito (entro 30 giorni dalla data di spedizione alla controparte) della ricevuta di spedizione dell’atto di appello a mezzo posta”.
Pertanto con la sentenza indicata in epigrafe dichiarava inammissibile l’appello e compensava le spese.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso presso la Corte di Cassazione, la quale con ordinanza n. 22242/17, depositata il 25.09.2017, annullava la sentenza impugnata e rinviava alla CTR diCatanzaro, in diversa composizione, con la motivazione che “la tempestività dell’appello della sentenza di primo grado – depositata il 15/10/2012 e non notificata – risulta tuttavia attestata dal timbro postale apposto sulla distinta di spedizione del 15/04/2013 recante la menzione specifica della raccomandata in questione n. 13835040419 (cfr. punti 5.9 e 5.10 di Cass. Sez. U. n. 13452/17)”.
DIRITTO
Con ricorso notificato in data 22.03.2018, il contribuente, rappresentato e difeso dall’avv. N. C., riassumeva, ex art. 63, D.lgs. n. 546/92, la causa davanti alla Commissione Tributaria Regina le riproponendo tutte le difese già svolte e richiamando la documentazione prodotta in primo grado.
Rilevava che l’atto di appello era del tutto parziale e mancava dei motivi specifici dell’impugnazione previsti dall’art. 53, D.lgs. n. 546/92. Di conseguenza, “le parti della sentenza non specificamente impugnate dovevano considerarsi coperte da giudicato e, attesone il carattere preliminare e/o assorbente, è la sentenza tutta che è divenuta cosa giudicata”.
In particolare sull’eccepito “Vizio di ultrapetizione, in violazione dell’art. 112 cpc – Falsa interpretazione e violazione da parte dei Giudici di prime cure dell’art. 32 D.P.R. n. 600/1973” rilevava quanto segue.
Le censure sollevate sull’applicazione dell’art. 32, DPR n. 600/73, già di per sé infondate, erano state travolte dall’emanazione in corso di causa della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, che aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/73, per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione per l’obbiettiva diversità dell’imprenditore rispetto al lavoratore autonomo, con la conseguente “inapplicabilità al lavoro autonomo delle presunzioni che governano fondamentali profili degli accertamenti fondati su indagini bancarie”.
Stabilendo, così, definitivamente l’invalidità dell’accertamento fondato su tale norma.
Nel merito evidenziava che la sentenza appellata, con un primo motivo, aveva ritenuto nullo l’accertamento per la “mancata allegazione dell’autorizzazione del Direttore centrale de/l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate e del Direttore Regionale” della stessa.
L’Ufficio non aveva contestato la fondatezza del motivo, bensì la violazione dell’art. 112 c.p.c. da parte del giudice, poiché “argomento mai eccepito dal ricorrente”.
Evidenziava il contribuente che l’argomento della mancata autorizzazione alle indagini bancarie non era stato sollevato perché, al momento, non poteva sapere se l’Ufficio vi avrebbe provveduto in sede di costituzione in giudizio o in un momento successivo.
Constatato che l’Ufficio non aveva depositato alcunché, il motivo era stato proposto con memorie.
Comunque in precedente giudizio inter partes, passato in giudicato, su ricorso per l’annullamento dell’accertamento per l’anno d’imposta 2005, scaturente dalla stessa verifica, la sentenza, favorevole al contribuente, non era stata appellata.
Sul punto, trattandosi di argomento comune anche all’accertamento qui dedotto, relativo all’anno 2006, si può dire formato il giudicato.
Rilevava che l’Agenzia delle Entrate, nell’appello si era fermata al momento inziale del primo grado, senza tenere conto dell’evoluzione del processo nei momenti successivi.
Sul valore delle presunzioni di cui all’art. 32, DPR n. 600/73, diversamente dal quanto sostenuto dall’ufficio di una presunta acquiescenza, evidenziava che la Commissione, dopo avere rigettato le eccezioni di parte sulla legittimità della doppia presunzione, si era soffermata sulla presunzione relativa ai prelievi, cioè ai pagamenti, con argomenti anticipatori della sentenza n. 228/2014 della Corte Costituzionale. In ogni caso le considerazioni dell’Ufficio sul punto erano state confutate nei precedenti scritti difensivi, a cui rinviava.
Relativamente ai versamenti, per vincere la correlata presunzione di redditi soggetti ad imposta o che non avevano rilevanza allo stesso fine, la Commissione aveva dato atto che “il contribuente ha documentalmente provato che nel corso degli anni soggetti a verifica (2005/2007) sono transitati sui suoi conti correnti entrate eccezionali e diverse, non riconducibili alla sua attività professionale (ed in particolare euro 134.156 a titolo di liquidazione di una polizza andata a maturazione ed euro 243.500 relativa alla vendita di un immobile per Notar De Santis di Cosenza)” .
L’Ufficio non aveva mai rivolto non solo specifiche contestazioni (sugli assegni, i beneficiari, le dichiarazioni ecc.), ma non aveva neppure sollevato generiche formule di stile, inducendo i primi giudici ad applicare il principio di cui all’art. 115 c.p.c. come ipotesi residuale alla riconosciuta efficacia probatoria delle allegazioni.
Non aveva tratto le dovute conseguenze da quanto l’Ufficio stesso aveva affermato; per esempio dalla previsione dell’art. 32 DPR n. 600/73, che la presunzione dei pagamenti poteva essere vinta con l’indicazione del beneficiario (dell’assegno, del bonifico o altro), peraltro superata dalla pronuncia della Corte Costituzionale citata.
Successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado, era emerso un altro motivo di annullamento dell’accertamento relativo all’anno d’imposta 2006: l’accertamento aveva irrogato le sanzioni applicando il cumulo con quelle determinate per l’anno 2005. Tuttavia, nelle more del giudizio, tale accertamento era stato annullato con sentenza passata in giudicato, di conseguenza il cumulo delle sanzioni era illegittimo.
La sentenza gemella per l’anno 2005, non era stata impugnata, passando in giudicato.
Infine era stato denunciato un uso subdolo di argomenti, quale la sibillina affermazione che “gli accertamenti a carico del figlio (G.), indicati nel ricorso di parte, fanno riferimento ad altre annualità e cioè agli anni d’imposta 2003/2004”, con ciò volendo significare la non pertinenza dell’argomento difensivo. L’Ufficio infatti non aveva detto che l’accertamento nei confronti di C. Gaetano era stato basato sulla diversa ipotesi di cui all’art. 38, comma 5, D.P.R. n. 600/73, che, in relazione ad incrementi patrimoniali, consentiva di sottoporre a verifica l’anno di riferimento ed i quattro precedenti.
L’accertamento, peraltro, nelle more del giudizio, era stato annullato con sentenza n. 892/2017.
Ribadiva che si trattava di difesa non esplicitata in primo grado dall’appellante e, quindi, qui inammissibile.
Le novità intervenute in corso di causa (sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione; passaggio in giudicato della sentenza di annullamento, ecc.), e il mancato rispetto delle stesse da parte dell’Ufficio, promotore di un appello temerario, inducevano a ripete la richiede l’applicazione 96 c.p.c.
Evidenziava che le spese di giudizio della Cassazione dovevano essere compensate tra le parti, avendo la Suprema Corte deciso su una questione preliminare sollevabile d’ufficio.
Chiedeva la conferma della sentenza di primo grado e, compensate le spese di Cassazione, la condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese, con statuizione ex art. 96 c.p.c. per i motivi sopra esposti.
Si costituiva l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Cosenza, facendo presente di avere effettuato un accesso presso la società “C.M. S.r.l.”, con sede in Rossano (CS), di cui il dott. C. risultava rappresentante legale, amministratore unico, nonché socio di maggioranza della società, presso cui esercitava, in modo esclusivo, la professione di odontoiatra.
Per l’anno 2006 il professionista aveva dichiarato compensi per? 48. 226,00. Importo dello stesso tenore dichiarato per gli anni 203, 2004, 2005, 2007 e 2008.
Dal raffronto dei dati reddituali con la posizione patrimoniale del contribuente (compravendita di immobili, possesso di autoveicoli, motociclette di grossa cilindrata e spese per il recupero del patrimonio edilizio), in relazione agli anni di imposta interessati, l’Ufficio aveva presunto un giro di affari di gran lunga superiore al reddito dichiarato. Partendo da tale elemento aveva attivato un’indagine finanziaria, regolarmente autorizzata dalla Direzione Regionale delle Entrate della Calabria, sui conti correnti intestati al contribuente o comunque nella sua disponibilità per il periodo 1.01.2005/31.12.2007.
Dopo attento esame delle movimentazioni bancarie, aveva emesso avviso di accertamento, debitamente motivato, oggetto della presente controversia, contestando maggiori componenti positivi di reddito per ? 254.706,06 e reddito professionale da assoggettare a tassazione pari ad? 301.093,00.
La Commissione Tributaria Provinciale di Cosenza, con sentenza n. 415/12/12, accoglieva il ricorso introduttivo, annullando l’avviso di accertamento e condannando l’Ufficio al pagamento delle spese di lite.
Con appello del 15.04.2013, l’Agenzia delle Entrate impugnava tale decisione, eccependo che la sentenza era viziata da ultrapetizione, in violazione dell’art. 112 c.p.c., e falsa interpretazione dell’art. 32, D.P.R. n. 600/73. I giudici di prime cure, più che soffermarsi sull’operato dell’Ufficio e sulle risultanze dello stesso, sembravano giudicarlo a vantaggio del ricorrente e fondavano la propria decisione su un’eccezione non sollevata dal ricorrente.
Essi si soffermavano sull’eccepita disponibilità di denaro derivante da entrate non riconducibili ad attività professionale, trascurando la circostanza che le disponibilità finanziarie relative all’anno 2006 non trovavano alcun riscontro nella liquidazione di una polizza assicurativa e nelle vendite di un immobile.
Probabilmente i primi giudici confondevano l’accertamento sintetico ex art. 38, DPR n. 600/73, con l’accertamento relativo alle indagini finanziarie di cui si trattava, dove ogni operazione andava precisamente giustificata, a prescindere dalle disponibilità finanziarie. Quindi la ritenuta mancata contestazione di tali avvenimenti da parte dell’Ufficio era frutto proprio della irrilevanza di tale eccezione.
Alcune operazioni, sia in dare che in avere, presso la Banca Popolare Italiana e presso Banca Intesa, non erano state giustificate. Tuttavia i giudici di prime cure avevano ritenuto giustificati tutti gli addebiti e, addirittura, condannato l’Ufficio al pagamento delle spese.
L’ordinanza n. 11650 del 26.05.2011 della Corte di Cassazione chiariva che per tutte le operazioni il contribuente doveva fornire prova specifica e analitica, tale da dimostrare l’estraneità a fatti impositivi.
Inoltre con sentenza n. 18339/2009, la stessa Corte aveva stabilito che “Nell’ambito di un accertamento bancario, avente ad oggetto la contestazione di movimentazioni di denaro sul conto corrente del contribuente, l’Amministrazione finanziaria non è onerata a fornire alcuna prova circa la sua pretesa. Al contrario, spetta al contribuente provare, con giustificazioni precise ed analitiche, l’irrilevanza, ai fini reddituali, delle movimentazioni contestate“.
La Suprema Corte, con le pronunce n. 767 e n. 802 del 14.01.2011, aveva stabilito i seguenti principi di diritto: 1) i versamenti e i prelevamenti bancari non risultanti dalla contabilità e per i quali il contribuente non ne indichi i beneficiari (limitatamente ai prelievi) sono legittimamente posti a base degli accertamenti fiscali se il soggetto accertato non dimostri di averne tenuto conto nella determinazione del reddito o che tali operazioni bancarie siano estranee all’attività da questi svolta; 2) l’ A. f. non è tenuta a svolgere alcuna altra attività istruttoria, giacché le stesse da sole integrano una presunzione legale relativa di maggiori ricavi o compensi, a cui il contribuente si può opporre solo fornendo una dimostrazione rigorosa del contrario.
Infine, riguardo agli alle eccezioni di parte circa le operazioni relative al conto di del figlio C. Gaetano, osservava che tali accertamenti riguardavano altre annualità, cioè gli anni 2003/2004.
Evidenziava che le indagini finanziarie costituivano presunzione legale, relativa e rafforzata (la prova contraria che poteva fornire il contribuente non era libera, ma predeterminata dal legislatore stesso, come indicato negli artt. 32, DPR n. 600/73 e 51DPR n. 633/72).
La violazione dell’art. 32 era palese.
A seguito dell’ordinanza n. 22242/2017 della Suprema Corte, che aveva cassato con rinvio la sentenza della Commissione Regionale, il contribuente aveva riassunto la causa.
In questa sede l’Ufficio ribadiva quanto già ampiamente rilevato nei precedenti gradi del giudizio.
Il contribuente nella riassunzione sosteneva la validità della statuizione dei primi giudici circa la mancata allegazione dell’autorizzazione alle indagini bancarie e cercava di far rientrare l’eccezione nel thema decidendum benché avesse sollevato l’eccezione solo con memorie.
Sull’autorizzazione alle indagini bancarie, disciplinata dall’art. 32, DPR n. 600/73, in materia di II.DD. e dall’art. 51, DPR n. 633/72, in materia di IVA, vi era consolidata giurisprudenza. Per tutte, la più recente Cass. n. 17457 del 14.07.2017 statuiva che la mancata allegazione non comportava l’illegittimità dell’avviso di accertamento, fondato sulle relative risultanze, potendo l’illegittimità essere dichiarata soltanto in caso di materiale mancanza e sempre che tale mancanza abbia prodotto un materiale pregiudizio per il contribuente (Cass. nn. 14023/07, 16874/09, 20420/14 e, da ultimo 3628/2017).
Inoltre l’autorizzazione non doveva essere motivata, perché non era qualificabile come atto impositivo a cui si poteva applicare l’art. 3, comma 1, L. n. 241/90 e l’art. 7, L. n. 212/2000, avendo natura di atto meramente preparatorio.
In merito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, sopravvenuta sia all’emissione dell’avviso di accertamento che alla proposizione dell’appello, l’Ufficio rilevava che, in ossequio a tale decisione, aveva provveduto a ricalcolare la pretesa tributaria riducendo la maggiore imposta IRPEF da Euro 108.431,00 ad Euro 74.549,00; la maggiore imposta IRAP da Euro 11.165,00 ad Euro 7.816,25, l’Addizionale regionale da Euro 3.608,00 ad Euro 2.505,17.
Quanto alle sanzioni, sia per il subentrato D.lgs. n. 156/2015, sia per il fatto che per l’anno d’imposta 2005
l’Ufficio non aveva impugnato la decisione, avrebbe effettuato il ricalcolo delle sanzioni, tenendo conto anche della nuova normativa e applicato la sanzione più favorevole (cumulo materiale o giuridico), in considerazione degli esiti relativi agli anni d’imposta 2006 e 2007 (quest’ultima annualità attualmente pendente in Cassazione).
Quanto all’annualità 2005, diversamente da quanto sostenuto dalla parte, non si trattava di annualità gemella, in quanto per la peculiarità dell’accertamento derivante dalle indagini finanziarie, ogni anno d’imposta si doveva considerare autonomo e non poteva costituire “giudicato esterno” (lo stesso avviso aveva manifestato la CTP di Cosenza nel giudicare la controversia relativa all’anno di imposta 2007).
Per ultimo, riguardo agli accertamenti sintetici relativi al figlio C. Gaetano, le controversie non erano definitive, ma risultavano pendenti presso questa CTR.
Insisteva, quindi, sulla legittimità dell’avviso di accertamento come modificato negli importi. Insisteva, inoltre, affinché il thema decidendum venisse circoscritto a quanto eccepito nel ricorso introduttivo.
All’udienza sono comparsi: per il contribuente, l’avv. N. C.; per l’Ufficio, il dott. Morelli.
I procuratori delle parti si riportano alle conclusioni rispettivamente rassegnate.
L’avv. C. chiede che venga rigettato l’originario appello e che si tenga conto delle nuove prospettazioni difensive dell’Agenzia formulate nel giudizio riassunto e chiede pertanto il rigetto integrale dell’appello.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La Commissione si riservava la decisione.
Era quindi tenuta, il giorno 28.01.2020, la Camera di Consiglio, per la decisione.
La Commissione, preliminarmente, rileva che l’autorizzazione alle indagini bancarie da parte della D.R.E. Calabria non è stata mai prodotta dall’Agenzia delle Entrate.
È pur vero che per l’avvio delle indagini non è necessaria l’esibizione del documento di autorizzazione, ma per la legittimità delle stesse è necessario che l’autorizzazione esista.
L’Ufficio non ha dato prova di tale esistenza né in primo grado di giudizio, né in appello.
Questo comportamento omissivo induce a ritenere che tale autorizzazione o non sia stata richiesta o non sia stata concessa.
Osserva, inoltre, che l’eccezione viene sollevata dal contribuente solo con memorie e non con il ricorso introduttivo; ma vista la possibilità dell’Ufficio di produrre tale documento in qualsiasi momento e fase del giudizio, l’eccezione di parte non si può considerare tardiva.
Né va sottaciuto il fatto che la stessa eccezione di omessa produzione dell’autorizzazione era stata già sollevata con il ricorso introduttivo riguardante l’anno d’imposta 2005, deciso con sentenza n. 123/12/2012 della CTP di Cosenza, passata in giudicato per mancata impugnazione.
Anche in quella occasione tale autorizzazione non è stata prodotta.
Questo giudice tiene conto del fatto che la Corte di Cassazione ha ripetutamente enunciato il principio, ultimamente con le sentenze n. 3628/2017 e n. 17457 del 14/07/2017, che è legittimo l’accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie anche quando l’autorizzazione all’espletamento delle indagini medesime non sia stata esibita al contribuente e non contenga alcuna motivazione. L’accertamento è illegittimo soltanto nel caso in cui dette movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza dell’autorizzazione, e sempre che tale mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente.
Tuttavia, considerata l’invasività delle indagini, relative a tre anni, nella sfera giuridica ed economica del contribuente, ritiene necessaria l’esistenza dell’autorizzazione, non provata, per la legittimità delle stesse.
Il pregiudizio al contribuente deriva dalla consistenza stessa dell’accertamento e dalla persistenza dell’Ufficio in detta omissione nei diversi anni accertati.
Inoltre, diversamente da quanto affermato dall’Ufficio, il giudice di primo grado, nel decidere la controversia n. 123/12/12, è entrato nel merito della stessa, facendo una propria valutazione sull’utilizzo da parte dell’Ufficio, dei versamenti e prelevamenti ai fini della determinazione del reddito dei professionisti, ritenendo illegittimo, a tali fini, il calcolo dei prelevamenti: in sostanza anticipando, nelle conclusioni, il contenuto della sentenza n. 228/2014 della Corte Costituzionale.
Pertanto, la controversia conclusasi con la sentenza n. 123/12/2012, pur riguardando l’anno d’imposta 2005, può considerarsi “gemella” alla presente, in quanto riguarda le stesse parti ed è nata dalle medesime indagini bancarie per il periodo 2005/2007.
Nella decisione del presente giudizio, questa Commissione non può prescindere da due considerazioni:
a) in primo luogo, della intervenuta sentenza della Corte Costituzionale che ha considerato illegittimo l’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/73, per violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione per l’obbiettiva diversità dell’attività dell’imprenditore rispetto a quella del lavoratore autonomo.
La Corte ha sancito che la prima è caratterizzata dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi; la seconda dalla preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo. Ne consegue la “inapplicabilità al lavoro autonomo delle presunzioni che governano fondamentali profili degli accertamenti fondati su indagini bancarie”.
La statuizione ha stravolto completamente tutta l’impostazione dell’accertamento impugnato, basato sulle indagini bancarie che hanno incluso nei redditi sia i versamenti che i prelevamenti.
b) In secondo luogo, essendo passata in cosa giudicata la sentenza n. 123/12/2012 relativa all’anno 2005, la circostanza rende illegittimo il cumulo delle sanzioni così come è stato applicato dall’Ufficio.
Le considerazioni finali dell’Ufficio in merito alla sopravvenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, il quale ha affermato che, in ossequio a tale decisione, aveva provveduto a ricalcolare la pretesa tributaria con la riduzione delle maggiori imposte, e che, sia per il subentrato D.lgs. n. 156/2015, sia per il fatto che per l’anno d’imposta 2005 non aveva impugnato la decisione, avrebbe effettuato il ricalcolo delle sanzioni, applicando la sanzione più favorevole, confermano l’insostenibilità dell’accertamento impugnato.
Per i motivi esposti, questo Collegio rigetta l’appello dell’Agenzia delle Entrate di Cosenza e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza; condanna l’Agenzia delle Entrate di Cosenza al pagamento delle spese del precedente giudizio di appello, del giudizio di Cassazione e del presente giudizio di rinvio, che liquida cumulativamente in euro 8.000,00 oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
La Commissione
definitivamente decidendo in sede di rinvio dalla Corte Suprema di Cassazione (giusta ordinanza del 20.7/25.9.2017) dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate di Cosenza con atto del 15.4.2013, nei confronti di C. A., nel giudizio riassunto dal C. con atto notificato in data 20.3.2018 nei confronti della predetta Agenzia, avverso la sentenza resa in causa tra le stesse parti dalla Commissione Tributaria Provinciale di Cosenza n. 415/12/12, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, così provvede:
1) rigetta l’appello dell’Agenzia delle Entrate di Cosenza e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza;
2) condanna l’Agenzia delle Entrate di Cosenza al pagamento delle spese del precedente giudizio di appello, del giudizio di Cassazione e del presente giudizio di rinvio, che liquida cumulativamente in euro 8.000,00 oltre accessori come per legge.
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