Commissione Tributaria Regionale per la Sicilia sentenza n. 988 depositata il 7 marzo 2018
TRIBUTI – CONTENZIOSO TRIBUTARIO – PROCEDIMENTO – APPELLO – MOTIVI DI IMPUGNAZIONE MANCANTI O ASSOLUTAMENTE INCERTI – INAMMISSIBILITA’ DEL RICORSO
Svolgimento del processo
C.F., imprenditore appaltatore, ha proposto separati ricorsi, poi riuniti, avverso due distinti avvisi di accertamento, n. (omissis) per l’anno 2011 per € 53.200,53 e n. (omissis) per l’anno 2010 per € 243.289,65, relativi ad imposte Irpef, Irap, Addizionale regionale e comunale, e conseguenti sanzioni e interessi, scaturiti da un PVC della AE di Ragusa, che aveva rilevato l’omessa indicazione di rimanenze finali e altre irregolarità.
Il ricorrente ha lamentato: il difetto della notifica postale per mancata consegna del plico all’interessato, non seguita dalla raccomandata di conferma e non effettuata da soggetto abilitato, la decadenza dell’azione dell’autorità finanziaria, per decorrenza del termine quadriennale ex art. 43 del Dpr n. 600/1973, il difetto di motivazione e la mancata allegazione del presupposto p.v.c., la “omessa redazione di un prospetto di calcolo dell’aggio di riscossione e degli interessi pretesi”; il difetto di delega ed ancora la “impropria e confusa indicazione delle norme applicate nell’accertamento e illegittimo utilizzo delle presunzioni a catena”; infine la infondatezza, nel merito, della pretesa fiscale e la violazione dell’art. 24 legge n. 4/1929 e del D.Lgs. n. 218/1997.
L’Agenzia delle Entrate ha replicato ai singoli motivi del ricorso e ne ha chiesto il rigetto.
La CTP di Ragusa, rigettate tutte le eccezioni, ha solo parzialmente accolto i ricorsi riuniti, riducendo di €. 500,00 le rimanenze finali per l’anno 2010, ed indicandole in €. 191.640,00. Contro questa decisione ha proposto appello C.F. il quale ha riproposto tutti i motivi esposti nel ricorso di 1° grado, avverso gli accertamenti.
Previa sospensione della efficacia esecutiva, all’udienza del 14-11-2017, la causa è stata posta in decisione.
Motivi della decisione
L’appello è inammissibile per violazione dell’art. 53 d.lgs. 546/92.
In vero l’art. 53 D.Lgs. 546/92 stabilisce che il ricorso in appello è inammissibile se mancano o sono assolutamente incerti, tra l’altro, i motivi specifici dell’impugnazione. Perché questi si concretizzino è tuttavia imprescindibile che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano indicati, oltre ai punti e ai cap. formulati, anche le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure (Cassazione civile, sez. III, 11 ottobre 2006, n. 21745). La indicazione di specifici motivi di impugnazione costituisce quindi un requisito essenziale dell’atto di appello, atteso che la sua funzione consiste esattamente nell’indicare i limiti della devoluzione, così consentendo al giudice di secondo grado di individuare l’oggetto e l’ambito del riesame, attraverso la specifica evidenziazione degli errori asseritamente commessi dal primo giudice e la relativa connessione causale con il provvedimento impugnato di cui è chiesta la riforma. Detta indicazione specifica è totalmente carente qualora l’appellante si limiti, come nella specie, a riproporre i motivi d’impugnazione esposti nel ricorso introduttivo, senza alcun riferimento a supposti vizi della sentenza (Cass. 09/08/2006, n. 18006).
I motivi addotti nel ricorso di primo grado, infatti, non possono coincidere con quelli dell’appello, atteso che nel primo caso l’impugnazione attiene ai vizi dell’atto impositivo mentre, nel secondo caso, l’impugnazione deve attenere ai vizi della sentenza.
Nella specie le condizioni volute dalla legge non sono state rispettate perché l’appellante ripropone i motivi di ricorso, che però non contengono alcun aggancio alla sentenza censurata.
Come correttamente eccepito dall’Ufficio infatti la Commissione di primo grado ha fondato la propria decisione indicando specificamente il percorso logico-giuridico seguito per ritenere legittimo l’accertamento e per disattendere, di contro, i singoli motivi di ricorso. Orbene, a fronte di tale motivazione della sentenza di primo grado, non è dato cogliere nell’atto di appello alcuna censura specifica.
L’appellante in sostanza non indica specificamente, nell’atto di appello, perché questo Giudice del gravame dovrebbe disattendere le argomentazioni poste dal primo giudice a fondamento della sua decisione, e dove la CTP avrebbe sbagliato, o fatto cattiva applicazione della legge. O infine dove avrebbe travisato gli atti e i fatti di causa. L’appellante si limita solo a riproporre i motivi di ricorso, lasciandoli slegati rispetto alle motivazioni della sentenza.
In tali condizioni, poiché l’impugnazione non supera la soglia dell’assoluta genericità e risulta inidonea a scalfire la ratio decidendi della sentenza impugnata, l’atto di appello va dichiarato inammissibile.
L’art. 13 del TU DPR 30.5.2002 n. 115, come modificato a seguito dell’introduzione, a mezzo dell’art. 17 della legge 24.12.2012 n. 228, del comma 1 quater, in vigore per i procedimenti di impugnazione, tra i quali l’art. 323 c.p.c. annovera anche la revocazione, iniziati dal 31.1.2013 (cfr. art. 18 l. n. 228 cit.), stabilisce che “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dell’art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
Tale disposizione di legge non pare dare adito ad una valutazione discrezionale in ordine alla natura e causa dell’improcedibilità, inammissibilità o rigetto integrale delle impugnazioni principali o incidentali.
Occorre pertanto dare atto che sussiste il presupposto per l’applicazione di tale obbligo di pagamento a carico della soccombente parte ricorrente.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile l’appello proposto avverso la sentenza della CTP n. 1128/02/16 dep. il 19-7-2016 che conferma. Condanna l’appellante alle spese del grado che liquida in €. 5.500,00 oltre accessori se dovuti. Dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13 comma 1 quater del DPR 115/2002, con riferimento alla parte ricorrente.
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