Commissione Tributaria Regionale per la Toscana sezione I sentenza n. 1107 depositata il 10 luglio 2019
Accertamento – Società in accomandita semplice – Imputazione reddito ai soci – Responsabilità per infedele dichiarazione – Anche per socio accomandante – Dovere di vigilanza
Fatto e motivi della decisione
La sentenza impugnata (n. 241/2017 della C.T.P. di Pistoia) decidendo sui ricorsi proposti soci della T. di G.G. & C. s.a.s. ha accolto (parzialmente) le istanze dei contribuenti.
Si trattava di ricorsi proposti avverso avvisi di accertamento nei confronti dei soci conseguenti ai maggior redditi loro derivanti dalla partecipazione societaria.
Rilevava la Commissione che l’accertamento nei confronti della società era divenuto “definitivo” per effetto dell’adesione della società contribuente e pertanto i maggiori redditi accertati dovevano ritenersi per i soci (ed in ragione delle rispettive quote) quelli stabiliti per effetto dell’adesione tra società ed Erario.
In questo senso accoglieva i ricorsi ritenendo, sostanzialmente, anche se non del tutto chiaramente espresso che per effetto del principio di “trasparenza” ex art. 5 t.u.i.r. per i ricorrenti doveva considerarsi come maggior reddito quello che era risultato da quanto ormai consolidato per la società.
Accoglieva poi il ricorso quanto alla debenza delle sanzioni pure irrogate, poiché essendo i soci in questione tutti accomandanti non poteva ritenersi la volontarietà del comportamento omissivo riferibile all’amministratore accomandatario.
Avverso la sentenza ha interposto appello l’Ufficio deducendo l’erroneità della decisione richiamandosi ai principi elaborati anche in sede giurisprudenziale sulla posizione del socio accomandante in punto di imputabilità a lui delle sanzioni tributarie da omessa o infedele dichiarazione.
Si sono costituiti i contribuenti che hanno chiesto il rigetto dell’appello.
Osserva il Collegio che è passata in cosa giudicata (per mancata impugnazione ed anzi espressa acquiescenza dell’Ufficio, vedi atto di appello) la definizione e quantificazione dei maggior redditi da partecipazione degli appellati. Di fatto il giudice di primo grado ha rimodulato tali accertamenti alla luce ed in ragione dell’accertamento per adesione da parte della società (e quindi ridotto in funzione del valore di quota dei singoli soci quanto inizialmente accertato con il verbale oggetto di ricorso).
La questione attiene unicamente alla debenza da parte dei soci (accomandanti) delle sanzioni loro irrogate (ora da commisurare all’imposta dovuta ed accertata a seguito dell’adesione).
Il giudice di primo grado ha ritenuto che stante la posizione non gestoria dei soci accomandanti non può ravvisarsi in capo a loro quel momento soggettivo che deve presiedere – per le sanzioni – le infedeltà di dichiarazione che, quindi, dovrebbero gravare solo su chi amministra la società (in concreto al socio accomandatario).
L’appello è fondato.
La S.C. ha da tempo affermato che il maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di persone, ed imputato al socio ai fini II.DD. giusta l’art. 5 del d.P.R. n. 597 del 1973 (poi sostituito dall’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986), in proporzione della relativa quota di partecipazione, comporta anche l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dall’art. 46 del d.P.R. n. 600 del 1973, la cui irrogazione, non fondandosi solo sull’elemento della volontarietà ma anche su quello della colpevolezza, non si pone in contrasto con l’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, consistendo la colpa, per i soci non amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sullo svolgimento degli affari sociali e di consultazione dei documenti contabili nonché del diritto ad ottenere il rendiconto dell’attività sociale, e, per i soci amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio dei poteri di gestione, direzione e controllo dell’attività sociale.» (Cass. 13/04/2017, n. 9637; in senso conforme: Cass. 28/06/2017, n. 16116 e da ultimo Cass. 2018/20099).
Il ragionamento seguito dal giudice di primo grado che, di fatto, finisce con l’assimilare il socio accomandante ad un puro socio di capitali, non trova riscontro nella disciplina civilistica della società in accomandita, che permane come società di persone con la conseguente maggior incidenza dei poteri di verifica e controllo che anche l’accomandante (per quanto escluso dall’amministrazione) ha sulla vita sociale e quindi sulla sua possibilità di verifica e controllo.
Compete in questi caso, semmai, al contribuente dimostrare che per positivi comportamenti altrui gli è stato reso impossibile l’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo. Prova che qui non è stata data.
Resta salvo, ovviamente, la facoltà del socio accomandante di rivalersi contro l’amministratore (accomandatario) qualora dal suo comportamento positivo siano derivati per lui danni risarcibili.
La sentenza deve essere quindi riformata dichiarandosi dovute le sanzioni (in proporzione e da commisurarsi ai maggiori redditi non dichiarati come accertati dal giudice di primo grado).
Gli appellanti sono anche tenuti al rimborso in favore di parte appellata delle spese di lite che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie l’appello come proposto dall’Ufficio e pertanto in riforma della impugnata sentenza dichiara dovute le sanzioni irrigate ai contribuenti appellati da commisurarsi all’accertamento di maggior reddito da partecipazione secondo quanto deriva dalla sentenza di primo grado.
Condanna gli appellanti al rimborso in favore dell’Ufficio appellante delle spese per questo solo grado di giudizio che liquida in Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.
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