Commissione Tributaria Regionale per l’Abruzzo, sezione 6, sentenza n. 668 depositata l’ 11 luglio 2019
Convenzione Italia-Regno Unito: il credito di imposta si matura se si dimostra la buona fede – sussite
Massima:
Ai sensi dell’art. 10, § 5, della Convenzione Italia-Regno Unito, una “persona” residente nel Regno Unito che riceve i dividendi da una società residente in Italia matura, in Italia, un credito di imposta se dimostra, su richiesta dell’autorità competente, che la partecipazione per la quale erano stati pagati i dividendi era stata acquistata da tale persona, in buona fede, per ragioni commerciali oppure nell’ambito dell’ordinaria attività di fare o gestire investimenti e che tale acquisizione non costituiva il fine specifico o uno dei fini specifici del conseguimento del credito d’imposta.
Testo:
1.1) Con ricorso in data 4/6/2007 la società G. (G.), con sede nel Regno Unito, ha impugnato dinanzi alla CTP di Pescara il provvedimento col quale il locale Centro Operativo (COP) aveva accolto solo per una minima parte (euro 36.353.365,85) le sue (576) istanze di rimborso (per complessivi euro 202.826.111, 71) dell’imposta ritenuta alla fonte sui dividendi che erano stati distribuiti, a G., da alcune società italiane, al cui capitale quella partecipava.
1.2) Le istanze di rimborso si fondavano sull’art. 10 della Convenzione contro le doppie imposizioni, sottoscritta da Italia e Regno Unito il 21/10/1988; ma il COP aveva negato il rimborso, sul rilievo che – per quanto era emerso da indagini svolte dalla Guardia di Finanza (GdF) – quelle azioni, in realtà, non facevano capo a G., ma ad altre società d’investimenti, per lo più del medesimo gruppo, aventi sede negli Stati Uniti.
1.3) Si trattava, quindi, di società che non avrebbero potuto godere dei benefici della Convenzione: per cui, avvicinandosi il momento del pagamento dei dividendi, quelle società avevano trasferito a G. le azioni delle società italiane da loro partecipate; e G., una volta incassato il dividendo, aveva ceduto nuovamente le azioni alla società extraeuropea che ne era l’effettivo titolare.
2.1) Col ricorso, G. ha rinunciato a gran parte del proprio credito, limitando la domanda di rimborso ad 11 operazioni soltanto: per cui ha chiesto farsi luogo alla restituzione della minor somma di euro 14.353.162,08 (oltre a quella, naturalmente, per la quale il COP aveva già espresso parere posi ti v o), da maggiorare di interessi.
2.2) A tale fine ha eccepito, preliminarmente, la decadenza del COP dal potere di negare il rimborso, per il decorso del termine di cui all’art. 43 del D.P.R. 600/1973.
2.3) E nel merito ha fatto presente d’essere una banca d’affari: per cui ha negato che i trasferimenti delle azioni avessero lo scopo elusivo ipotizzato dal COP, rientrando, invece, nell’ordinaria sua attività di “trading” in titoli.
3.1) La CTP ha respinto l’eccezione di decadenza del COP dal potere di accertamento; ma ha poi accolto il ricorso nel merito, condividendo le difese svolte da G.
3.2) Questa CTR ha respinto l’appello del COP, ritenendo che l’Ufficio non avesse fornito la prova del fatto che il trasferimento delle azioni avesse lo scopo elusivo ipotizzato dal COP; ed ha ritenuto assorbito il motivo di gravame incidentale, col quale G. s’era lamentata del rigetto dell’eccezione di decadenza del COP dal potere di accertamento.
3.3) Tale decisione è stata poi cassata dalla Suprema Corte, sulla scorta delle seguenti considerazioni: “sul piano generale, occorre premettere che, ai sensi dell’art. 10, § 5, della Convenzioni Italia-Regno Unito, una “persona” residente nel Regno Unito (nella specie G.) che riceve i dividendi da una società residente in Italia matura, in Italia, un credito di imposta se dimostra, su richiesta dell’autorità competente: “che la partecipazione per la quale erano stati pagati i dividendi era stata acquistata da tale persona, in buona fede, per ragioni commerciali oppure nell’ambito dell’ordinaria attività di fare o gestire investimenti e che tale acquisizione non costituiva il fine specifico o uno dei fini specifici del conseguimento del credito d’imposta … “.
3.4) Per cui “la società inglese, per beneficiare del credito di imposta sulle cedole riscosse, a ciò richiesta dell’Autorità, avrebbe dovuto provare di avere acquistato la partecipazione azionaria nel l’ambito della sua normale attività e che tale acquisizione non avesse quale fine specifico (“main object” nel testo in lingua inglese della Convenzione) il conseguimento del credito di imposta”.
3.5) Poste queste premesse, la Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata contenesse un duplice errore: da un canto, per avere individuato nell’Ufficio la parte onerata della prova (e quindi, della dimostrazione del fine elusivo delle operazioni prima descritte): onere che invece grava sul contribuente che chiede il rimborso, il quale avrebbe dovuto dimostrare che le operazioni erano isperate da ragioni commerciali, e rientravano nell’ambito dell’ordinaria attività di fare o gestire investimenti.
3.6) Ed in secondo luogo, per avere malamente individuato l’oggetto di quella prova, avendo la CTR ritenuto che l’acquisto di titoli in prossimità del pagamento delle cedole non fosse funzionale a finalità di elusione fiscale (ma rientrasse nella normale attività di una società d’investimenti) sulla scorta di una valutazione complessiva e generale.
3.7) Laddove, secondo la Corte, la sussistenza dei presupposti previsti dalla Convenzione per il riconoscimento del credito d’imposta avrebbe dovuto essere valutata in relazione a ciascuna operazione di trading su titoli alla quale l’istanza di rimborso si riferiva.
4. l) Nel riassumere il giudizio dinanzi a questa CTR, la G. ha coltivato il proprio appello incidentale, col quale aveva reiterato l’eccezione (respinta dalla CTP) di decadenza del COP dal potere di accertamento.
4.2) A tale fine ha fatto presente che il primo giudice aveva respinto l’eccezione sul rilievo che l’art. 43 del D.P.R. 600/1973 introduce il termine quadriennale di decadenza in relazione ad una fattispecie del tutto diversa (rettifica della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente); per cui si tratta di disciplina che non può essere estesa alla presente controversia, che ha invece ad oggetto il rimborso d’imposte.
4.3) Ha dedotto che non era in contestazione il fatto che la norma si riferisse ad una fattispecie diversa; ma deduce che l’eccezione di decadenza è stata poi respinta sulla scorta di una motivazione inappagante, avendo il primo Giudice omesso di esaminare le ragioni sistematiche esposte da essa G., che conducevano alla conclusione che la norma doveva ritenersi applicabile anche ai rimborsi d’imposta.
4.4) Ha ricordato che anche il SECIT, in una sua pubblicazione, aveva ritenuto che la norma si applichi anche ai crediti d’imposta “tipici”, relativi, cioè, a crediti aventi natura tributaria; che le istanze di rimborso hanno quella natura; che in relazione al diniego di rimborso occorre, comunque, individuare un termine finale, entro il quale l’Ufficio può lecitamente opporre il proprio rifiuto.
4.5) Da ultimo, ha dedotto che l’interpretazione data dalla CTP alla norma violerebbe il principio comunitario di non discriminazione, posto che, per negare il rimborso, porrebbe un termine più breve (di quattro anni, ai sensi dell’art. 38 anzidetto) per le domande avanzate da un contribuente italiano; ed uno più lungo (10 anni) in relazione all’istanza presentata da un contribuente britannico.
4.6) Per cui ha chiesto che, eventualmente, venga attivato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ex art. 267 del TFUE, per verificare la conformità di tale trattamento differenziato ai principi enunciati negli artt. 56 e 62 dello stesso TFUE.
5.1) Il COP ha chiesto il rigetto dell’appello incidentale: e ragioni di ordine logico e sistematico consigliano di esaminare la questione in via preliminare, una volta che l’eventuale accoglimento dell’eccezione di decadenza supererebbe le ragioni, di merito, che sono poste a sostegno dell’appello (principale) svolto dal COP.
5.2) Il motivo di gravame è però infondato, avendo la Suprema Corte spiegato (v. Cass. SU 5069/2016), in via generale, che “in tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e no dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum”.
5.3) Aggiungendo, più di recente (v. Cass. 15184/2019), che “nell’ordinamento interno ed in quello convenzionale non vi è alcuna norma che preveda un termine di prescrizione o di decadenza per accertare l’infondatezza di una domanda di rimborso, né può farsi applicazione analogica dell’art. 43 del d.P.R. 602/1973, che su tale punto rinvia al termine previsto dall’art. 43, primo e secondo comma, d.P.R. 600/1973. E’, infatti, principio generale che nel diritto tributario tutti i termini devono essere espressamente previsti e, in mancanza, deve farsi applicazione della norma generale contenuta nell’art. 2946 cod. civ., che prevede il termine di prescrizione decennale. Tantomeno le norme citate possono trovare applicazione in via analogica o di interpretazione al caso in esame, poiché si è in presenza di una istanza di rimborso presentata da soggetto non residente e, dunque, di una fattispecie totalmente diversa da quella da esse disciplinata”.
5.4) Di conseguenza, deve ritenersi che il termine previsto dall’art. 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 sia inapplicabile al provvedimento di diniego di rimborso dell’imposta applicata sui dividendi, posto che quella norma disciplina la fattispecie della rettifica della dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente; mentre il provvedimento che respinge la domanda di rimborso non apporta alcuna rettifica alla dichiarazione presentata dal sostituto di imposta.
5.5) Per cui deve ritenersi che al diniego di rimborso dell’imposta sui dividendi si applichi il medesimo termine di prescrizione, decennale, prescindendo dalla nazionalità, italiana o comunitaria, del contribuente da cui promana; e non sussiste, quindi, alcuna violazione del principio di non discriminazione.
6.1) Passando ad esaminare l’appello dell’Ufficio, è necessario premettere che G. ha acquistato (e poi rivenduto) le azioni sia da società facenti parte dello stesso gruppo, sia da società “terze”.
6.2) E che, per altro verso, alcune operazioni hanno avuto ad oggetto il “ricevimento del titolo senza pagamento del corrispettivo”, altre la “consegna del titolo senza pagamento del corrispettivo”; altre ancora il “ricevimento del titolo col pagamento del corrispettivo”; altre, infine, la “consegna del titolo col pagamento del corrispettivo” (non è ben chiara la differenza esiste n te tra i termini “ricevimento” e “consegna”, ma dal complessivo contenuto delle difese sembra che il primo sottenda una vera a propria compravendita dei titoli, mentre il secondo la loro semplice cessione in prestito).
6.3) In sede di riassunzione G. ha ulteriormente ridotto la propria pretesa, limitandola al rimborso dell’imposta pagata in relazione a quattro specifiche operazioni (di acquisto e rivendita di azioni T.o T., aventi ad oggetto il “ricevimento” di titoli da parte di società terze, col pagamento del corrispettivo.
6.4) Ha dedotto che non poteva dubitarsi del fatto. che – quantomeno – queste quattro operazioni rientrassero nell’ordinaria sua attività di banca d’affari; e che dovesse perciò escludersi che esse avessero il solo fine di lucrare il credito d’imposta.
6.4) I titoli, infatti, erano rimasti nel patrimonio di … G. per un tempo apprezzabile (fino a due mesi e mezzo), coerente coi tempi medi di detenzione di tutti gli altri titoli da essa G. intermediati.
6.5) Ha aggiunto che l’acquisto di azioni in prossimità del pagamento del dividendo rientra tra le attività proprie di una banca di affari, che tende a massimizzare i profitti, sfruttando tutte le opportun1ta offerte dal mercato.
6.6) Ed ha lamentato che il diniego opposto dal COP si fondava invece sull’indagine della GdF, la quale aveva esaminato alcune operazioni soltanto, prese a campione; ed aveva poi esteso il risultato e tutte le operazioni per le quali era stato chiesto il rimborso; e sul fatto che alcune operazioni avevano avuto ad oggetto il prestito di titoli, o l’acquisto di titoli da società dello stesso gruppo: ma, per quanto detto, in relazione a tali operazioni essa G. aveva rinunciato all’istanza di rimborso.
6.7) Deduce ancora che il COP non aveva fornito la prova del fatto che, con la stessa società, fossero state concluse operazioni di acquisto e di successiva rivendita, per lo stesso ammontare di titoli: e nei fatti era invece emerso che spesso venditore ed acquirente fossero soggetti diversi.
7.1) L’Ufficio ha insistito nell’appello a suo tempo proposto contro la sentenza di primo grado; ed il gravame merita d’essere accolto.
7.2) Dai grafici allegati alla memoria del COP – e peraltro anche da quelli allegati (ai n. 4, 6, 8 e 10) al ricorso introduttivo di G. – emerge infatti che anche in relazione alle operazioni a cui G. ha limitato la domanda di restituzione – e quindi alle quattro operazioni di acquisto (e di rivendita) dei titoli da società “terze”, col pagamento del prezzo- il numero di azioni dalla stessa possedute nel periodo che si pone a cavallo del pagamento del dividendo, è significativamente superiore (dal triplo al quintuplo) rispetto al numero medio delle stesse azioni, possedute nel restante periodo dell’anno.
7.3) Deve poi considerarsi che la convenzione elude il diritto al rimborso non solo quando esso costituisca il solo fine (“main object”) dell’operazione, a anche quando costituisca uno soltanto di tali fini (“one of the main objects”).
7.4) Sicchè – alla luce dei principi di diritto enunciati nella sentenza di rinvio – deve ritenersi che la G. non abbia fornito la prova della motivazione economica sottesa a ciascuna delle operazioni di acquisto e di rivendita delle azioni in relazione alle quali ha chiesto il rimborso dell’imposta, essendo a tale fine inconcludente il generico richiamo alla propria attività economica istituzionale.
7.5) Su tale punto, infatti, G. si è limitata a descrivere le operazioni; a dedurre che erano corroborate da idonea documentazione; che erano state negoziate da un soggetto terzo (C.); che si trattava di operazioni per le quali era stato pagato il prezzo di vendita e di riacquisto; e che erano ripassate con società non appartenenti al medesimo gruppo: circostanze, queste, che sono sicuramente utili a superare il sospetto che si trattasse di vendite simulate, o di meri prestiti; ma insufficiente ,a dimostrare quali fossero le ragioni economiche sottese alle singole operazioni, diverse dal mero conseguimento del credito d’imposta.
7.6) I picchi di azioni possedute a cavallo del pagamento del dividendo, infatti, non si possono spiegare con la normale attività svolta da una banca d’affari, anche perché è rimasto allo stato di mera allegazione difensiva l’affermazione di G., secondo la quale l’acquisto di azioni, e la loro rivendita dopo il conseguimento del dividendo, è operazione sempre positiva per chi la esegue, posto che l’ammontare del dividendo è superiore al fisiologico ridimensionamento del valore dell’azione dopo che il dividendo sia stato pagato.
7.7) Se così fosse, infatti, il mercato provvederebbe immediatamente a rapportare i prezzi delle azioni, prima e dopo il pagamento del dividendo, all’utile che 1’investitore si aspetta di trarre conservando, o vendendo il titolo: per cui l’operazione risulterebbe neutra in termini economici.
7.8) Per cui i picchi di acquisti avvenuti in concomitanza col pagamento del dividendo possono essere spiegati solo col fatto che da quelle operazioni G. sperava di trarre l’ulteriore beneficio del rimborso dell’imposta, che è negato agli investitori esteri che hanno sede in Paesi diversi dal Regno Unito (e dalla Francia, con la quale l’Italia ha concluso una Convenzione piuttosto simile), e che perciò rendeva l’investimento vantaggioso solo per i soggetti che si trovavano in quella particolare posizione.
7.9) In conclusione, deve ritenersi che quelle operazioni avevano il precipuo fine di lucrare il credito d’imposta previsto dalla convenzione: tant’è che negli anni precedenti (1992-1998, nei quali, presumibilmente, la Convenzione veniva utilizzata per gli scopi suoi propri) le operazioni per le quali G. aveva chiesto il rimborso erano assai meno numerose, e le relative istanze sono state quasi tutte accolte.
7.10) L’appello dell’Ufficio va perciò condiviso, e quello incidentale respinto, con aggravio delle spese del grado, e di quelle del giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
decidendo quale Giudice del rinvio dalla Cassazione, accoglie l’appello dell’Ufficio, confermando il diniego di rimborso; condanna la G. al pagamento delle spese del grado, e di quelle del giudizio di Cassazione, liquidate in euro 30.000 per ciascun grado.
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