Commissione Tributaria Regionale per l’Abruzzo sezione 7 sentenza n. 652 depositata il 7 luglio 2017
Testo:
La L. s.r.l., con sede legale in Lussemburgo, società del Gruppo L.B., impugnava dinanzi la Commissione Tributaria di Pescara il provvedimento di diniego di rimborso prot. n. xxx del 31/05/2013 emesso dall’Agenzia delle Entrate Centro Operativo di Pescara, con il quale il predetto Ufficio rigettava la richiesta di rimborso delle ritenute pari ad Euro 372.560,47 applicate ai dividendi di fonte italiana, in quanto distribuiti dalla Banca U. s.p.a., depositaria delle azioni, pari al 18% del capitale, della F-S. s.p.a., detenuti dalla ricorrente e da questa incassati nell’anno di imposta 2009. Con sentenza n. 408/01/15 la CTP rigettava il ricorso della ricorrente, che condannava anche alle spese processuali, sostenendo che la società ricorrente non svolgeva alcuna autonoma attività di impresa, detenendo esclusivamente partecipazioni, non risultando dal bilancio 2009 costi per personale, fondi disponibili, o costi per finanziare un’attività e che l’unica voce dichiarata ai fini delle imposte in Lussemburgo era esattamente il dividendo di fonte italiana.
Da tali rilievi la CTP faceva discendere che la ricorrente era una società interposta, ovvero una mera fiduciaria che agiva per conto della canadese L.E. SARL, che non era dunque la beneficiaria effettiva dei proventi (individuabile nella L.E. SARL S., altra società lussemburghese, rilevando, altresì, che la predetta ricorrente non aveva pagato alcuna imposta in Lussemburgo, che era circostanza che escludeva l’applicabilità della c.d. direttiva madrefiglia, non essendovi stata doppia imposizione. Avverso detta statuizione ha proposto appello la ricorrente società lussemburghese deducendo: 1. che la CTP aveva violato e falsamente applicato la Direttiva n. 90/435/CEE e l’art. 27 d.P.R. n. 600 del 1973, possedendo essa ricorrente tutti i requisiti previsti dalla citata direttiva per l’esenzione fiscale dei dividendi erogati dalla partecipata italiana; 2. che essa ricorrente era la beneficiaria effettiva dei dividenti e non una conduit, o società interposta; 3. che il mancato pagamento delle imposte in Lussemburgo non era ostativo al rimborso, atteso che quello che rilevava era la assoggettabilità in astratto all’imposta sulle società nello Stato estero (nella specie il Lussemburgo), come dimostrato dalla documentazione prodotta.
Chiedeva, quindi, riformarsi l’impugnata sentenza con vittoria di spese processuali.
Si è costituita in giudizio l’Ufficio appellato che, ribadendo le argomentazioni già svolte in primo grado a sostegno della legittimità del rigetto dell’istanza di rimborso, ha chiesto il rigetto dell’appello con vittoria di spese processuali.
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative. All’esito della discussione in pubblica udienza, questa Commissione ha pronunciato il dispositivo in calce trascritto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di appello la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della Direttiva n. 90/435/CEE e dell’art. 27 d.P.R. n. 600 del 1973, sostenendo che «la L. soddisfa tutti i requisiti della citata Direttiva per l’esenzione fiscale dei dividendi erogati dalla partecipata italiana» e che L.: A) non è una costruzione di puro artificio; B) è il beneficiano effettivo dei dividendi; C) è assoggettata, senza possibilità di opzione e senza essere esonerata, all’imposta sulle società in Lussemburgo».
2. Con il secondo motivo di appello censura la statuizione impugnata laddove afferma che L. non soddisfa tutti i requisiti della Direttiva madrefiglia perché «non ha pagato alcuna imposta in Lussemburgo », sostenendo che la predetta Direttiva «richiede che le società UE madre e figlia siano assoggettate all’imposta sulle società senza possibilità di opzione e senza essere esonerate, il che è cosa ben diversa dall’effettivo pagamento di detta imposta»
3 Con il terzo e subordinato motivo di appello deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 27 d.P.R. n. 600 del 1973, sostenendo che nell’ipotesi in cui non fosse riconosciuta l’esenzione e, quindi, negato il diritto al rimborso delle ritenute applicate ai dividendi, andava comunque applicata la ritenuta nella minore aliquota dell’ 1,375 per cento, rispetto a quella in concreto applicata dell’1,65 per cento.
4. Così sunteggiati i motivi di appello, ritiene questa Commissione che vada prima esaminato, per ragioni di ordine logicogiuridico, il secondo motivo di ricorso, con cui la società appellante censura la sentenza impugnata per avere sostenuto e preteso la dimostrazione dell’effettivo assoggettamento a tassazione nello Stato lussemburghese dei dividenti oggetti di causa, mentre invece, ad avviso della stessa sarebbe sufficiente «la potenziale assoggettabilità della società all’imposta omologa a quella dell’IRES» (ricorso pag. 33).
Il motivo è infondato e va rigettato. Invero, la CTP ha correttamente escluso il diritto al rimborso per l’assenza del requisito oggettivo della doppia imposizione, che la ricorrente, su cui grava il relativo onere probatorio, non ha dimostrato di aver subito.
Secondo un principio giurisprudenziale, già condiviso da questa Commissione (v. sent. n 239/07/15), rinvenibile in Cass. n. 4164 e n, 4165 del 2013, ma anche in Cass. n. 10792 del 2016, relativa a fattispecie analoga a quella per cui è causa, ancorché con riferimento a società avente residenza fiscale nel Regno Unito, «Il diritto al credito di imposta sancito dall’art. 10, paragrafi 2 e 4, della Convenzione tra Italia e Regno Unito per evitare le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 (e ratificata con legge 5 novembre 1990, n. 329), presuppone la duplice dimostrazione che la società del Regno Unito che riceve i dividendi ne sia “la effettiva beneficiaria” e che la società che “riceve i dividendi ed il credito di imposta sia a tale titolo soggetta all’imposta nel Regno Unito”, gravandone il corrispondente onere probatorio – che investe gli elementi costitutivi del diritto del contribuente beneficiano dei dividendi a non subire una seconda tassazione della stessa ricchezza già tassata in capo alla società, e di conseguire il rimborso di quanto indebitamente pagato – sulla società che abbia percepito i predetti dividendi»,
La Corte nelle citate pronunce ha precisato che «non può revocarsi in dubbio che il credito di imposta, in quanto .., si traduce in uno strumento per ovviare alla doppia imposizione fiscale, postula che quest’ultima venga effettivamente in essere in relazione alla specie di reddito in considerazione, dovendone, cioè, sussistere, in concreto, i relativi presupposti. Nel sistema nazionale, ciò si traduce nell’esigenza – sussistente in relazione sia alla L 904/77, che all’art 14 d P R 600/73 – che la detrazione del credito di imposta per agli utili distribuiti ai soci, non solo risulti dalla dichiarazione dei redditi regolarmente presentata, ma sia stata anche richiesta nella dichiarazione stessa (Cass. 9475/02). Mutalis mutandis, è evidente che a radicare il diritto al credito di imposta non può bastare, nei rapporti transfrontalieri tra società madre e società figlia, la mera astratta soggezione della prima all’imposizione sui redditi di impresa nel Regno Unito, occorrendo la prova che i dividendi percepiti dalla società distributrice italiana siano stati concretamente sottoposti a tassazione in tale Paese.
La ratio della Convenzione tra i due Stati non è – per vero – quella di creare un’esenzione a favore della società inglese percettrice di dividendi, ma solo quella di non discriminarla rispetto ai percettori italiani di tali dividendi; il che – com’è ovvio – presuppone che essa sconti, al pari di questi ultimi – la doppia imposizione degli utili, sia a carico della società erogante, sia in capo socio che li percepisce». Il principio è stato recentemente ribadito e precisato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 4771 del 2017, in cui si è affermato che «A norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, comma 1, nel testo applicabile ratione temporis, le società residenti, ai fini fiscali, in uno Stato membro dell’Unione europea, che detengono una partecipazione diretta non inferiore al 25% del capitale della società che distribuisce gli utili, hanno diritto, a richiesta, al rimborso della ritenuta di cui all’art. 27, comma 3 se:… “c) sono soggette nello Stato di residenza, senza possibilità di fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati, ad una delle imposte indicate nell’allegato della” direttiva n. 435/90/CEE del Consiglio del 23 luglio 1990. “Ai fini dell’applicazione del comma 1, deve essere prodotta una certificazione, rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato estero, che attesti che la società non residente possieda i requisiti indicati alle lettere… c) del comma 1”.
Ora, anche alla luce dell’elaborazione intorno al fenomeno della doppia imposizione degli utili societari (si veda sul tema Cass. n. 4165 del 2013), tale soggezione non va intesa in astratto, come mera riconducibilità della società che “rivesta una delle forme previste dall’allegato della direttiva” ad un determinato regime fiscale, ma piuttosto assoggettamento, in concreto, nel proprio Stato, della società che abbia dichiarato, in quella occasione, un determinato imponibile, a uno dei tributi indicati nell’allegato alla direttiva; ed ai fini della prova può ben trovare applicazione la regola generale posta per il rimborso delle ritenute sui dividendi dal precedente art. 27, comma 3, a tenore del quale “i soggetti non residenti hanno diritto al rimborso.., dell’imposta che dimostrino di aver pagato all’estero in via definitiva sugli stessi utili mediante certificazione del competente ufficio fiscale dello Stato estero”», Orbene, nella specie di causa la società appellante non ha fornito tale prova, essendosi limitata a produrre una attestazione rilasciata dall’autorità fiscale lussemburghese ove si afferma che la predetta società «è assoggettata, senza possibilità d’opzione e senza essere esonerata, all’imposta sui redditi degli altri enti diversi dalle persone fisiche», ma nulla si dice in ordine all’effettivo assoggettamento ad imposta ed in via definitiva proprio degli utili per cui è causa. In pratica, la predetta documentazione è chiaramente insufficiente in quanto l’attestazione fatta dall’autorità estera contiene un generico riferimento alla soggezione della società appellante – in via generale ed astratta a tassazione in quello Stato, senza che riferimento alcuno sia in essa contenuto ai dividendi in questione, ai fini della loro concreta soggezione a tassazione.
Precisato, infine, che le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscono fonte di diritti ed obblighi e che, quindi, nessun rilievo può attribuirsi alla circolare n. 32/E del 2011 dell’Agenzia delle entrate, citata dall’appellante, osserva la Commissione che la dedotta carenza probatoria impedisce l’accoglimento dell’istanza di rimborso e, in questa fase, costituisce motivo di rigetto dell’appello, restando infatti assorbito il primo motivo.
Con il terzo motivo di appello la società contribuente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 27 d.P.R. n. 600 deI 1973, per avere subito l’applicazione di un aliquota (del 27 per cento) maggiore di quella dovuta (1,375 per cento), prevista dall’art. 27, comma 3ter, d.P.R. n. 600 del 1973. Il motivo va rigettato in quanto trattasi di domanda nuova, che la ricorrente non ha proposto in primo grado e che è inammissibile ex art. 57 d,lgs. n. 546 del 1992. In ogni caso, la domanda sarebbe infondata perché anche in relazione a tale disposizione, che, nel riferimento alle «società e agli enti soggetti ad un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’Unione europea», ricalca la dizione di cui all’art. 27 bis, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 633 del 1972 (in cui si fa riferimento alle società che «sono soggette, nello Stato di residenza, senza fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati, ad una delle imposte indicate nella predetta direttiva»), non è sufficiente la dimostrazione di un assoggettamento solo in astratto all’imposta sulle società. In estrema sintesi, quindi, l’appello va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo ai sensi del d.m. Giustizia n. 55 del 2014 ed applicato l’art. 152 bis disp. att. cod. proc. civ.
P.Q.M.
La Commissione Tributaria Regionale di L’Aquila, Sezione distaccata di Pescara, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. 128/20 16 r.g.a., ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa e rigettata, così provvede: – rigetta l’appello e condanna l’appellante al pagamento in favore dell’appellata delle spese processuali che liquida in euro 7.000,00 per compenso, oltre accessori come per legge.
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