COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di Roma sentenza n. 116 del 15 gennaio 2016
PROCESSO TRIBUTARIO – MOTIVI DI APPELLO – SPECIFICITA’ – PROSPETTAZIONE DELLE MEDESIME RAGIONI ADDOTTE IN PRIMO GRADO – PERCEZIONE CERTA DEL CONTENUTO DELLE CENSURE IN RIFERIMENTO ALLE STATUIZIONI ASSUNTE CON LA SENTENZA IMPUGNATA – IDONEITA’
FATTO
Il sig. C.M., esercente attività di commercio al dettaglio di confezioni per adulti, con ricorso spedito il giorno 1° febbraio 2011 e depositato il 2 febbraio 2011, impugnava avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate di Roma e recante la ripresa in tassazione di maggior imposte IRPEF, addizionali regionale e comunale, IRAP e IVA più sanzioni e accessori, dichiarate con Modello UNICO PF/2006 per l’anno 2005, effettuata in base a maggior volume di affari stimato in 35.044,00 Euro.
Il ricorrente deduceva che la quantificazione dei maggiori ricavi si è basata su unicamente su metodologia “statica” (studio di settore di cui al Cluster n. 32 dell’applicativo GERICO), senza che l’Ufficio abbia tenuto conto delle deduzioni del contribuente depositate in data 4 agosto 2010 in sede di contraddittorio amministrativo, in specie in ordine alla conduzione familiare dell’esercizio commerciale, alla vicissitudini economiche e congiunturali dell’abbigliamento ed alla crisi del settore, nonché senza procedere ad ispezione dei locali e della merce e senza considerare le vendite a saldo a prezzi più bassi.
L’ufficio si costituiva in giudizio con controdeduzioni del 27 ottobre 2011, obiettando in dettaglio di:
– avere inviato apposito invito al contraddittorio prima di emettere l’avviso di accertamento;
– non avere il contribuente fornito, né in sede di contraddittorio, né in giudizio, elementi probatori tali da giustificare la discrasia tra dati dichiarati e dati accertati e contrastare ex adverso le presunzioni secondo i risultati di non congruità allo studio di settore.
La CTP adita, con sentenza n. 3120/12/14 pubblicata il 20 febbraio 2014, non notificata, ha respinto il ricorso e condannato a spese di giudizio liquidate in 500,00 Euro, ritenendo avere il contribuente avversato gli accertamenti con elementi generici riferiti alla sola questione della crisi economico-finanziaria.
Il Sig. C., assistito dall’avv. S.S. e dal dott. D.P., ha impugnato la sentenza con atto di appello notificato a mezzo posta il 3 ottobre 2014 e depositato il 31 ottobre 2014, nel quale ha versato i seguenti motivi di gravame:
1) inesistenza giuridica dell’atto impositivo, per carenza di potere dirigenziale del delegante o di chi ha sottoscritto l’avviso di accertamento, in mancanza della sua qualifica di dirigente ed in relazione all’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5451 del 18 novembre 2013;
2) nullità dell’atto di accertamento perché emesso decorso il termine di sessanta giorni dalle operazioni di verifica (cfr. Cass. n. 3142 del 2014);
3) omessa considerazione dello studio di settore non ancora approvato nell’anno di accertamento (cfr. Cass. n. 20809 del 2013):
4) omessa valutazione delle giustificazioni rese in fase di contraddittorio amministrativo.
L’appellante chiede, pertanto, in via principale dichiararsi l’illegittimità/nullità/inefficacia dell’avviso di accertamento, con annullamento del medesimo e rimborso delle sanzioni irrogate ed eventualmente pagate; in ogni caso, vittoria di spese per entrambi i gradi di giudizio. In data 5 novembre 2015 il ricorrente ha presentato brevi memorie di replica.
L’Agenzia appellata resiste con controdeduzioni depositate il 24 ottobre 2014 e deduce:
1) inammissibilità dell’appello, per violazione dell’art. 57 del D.Lgs. n. 546 del 1992, stanti domande nuove in appello e non avendo il contribuente prospettato in primo grado i motivi che versa in gravame;
2) inammissibilità dell’appello, per violazione dell’art. 53 del D.Lgs. n. 546 del 1992, per mancanza di specificità dei motivi di gravame ed essendo stata ignorata la motivazione della sentenza;
3) necessità di condanna dell’appellante al risarcimento di danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. per “lite temeraria”.
Chiede, pertanto, il rigetto dell’appello con vittoria di spese processuali (non quantificate).
All’udienza dell’11 novembre 2015 i rappresentanti delle parti hanno insistito nelle rispettive prospettazioni e richieste.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente è da esaminare l’eccezione, sollevata dalla resistente, di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi.
L’eccezione non ha pregio.
L’art. 53, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992 – che sostanzialmente riproduce la statuizione di cui all’art. 342, comma 1, del codice di procedura civile nel testo anteriore alla novella recata dall’art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134 (novella che, ratione temporis, non è applicabile alla fattispecie) – non può ritenersi violato quando l’appellante abbia esposto nel ricorso le ragioni di fatto e di diritto invocate a sostegno del gravame, le quali possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte in primo grado, purché ciò consenta al giudice di appello di percepire con certezza il contenuto delle censure in riferimento alle statuizioni assunte con la sentenza impugnata. D’altronde, la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (cfr. tra molte: Cass., n. 14908 del 2014).
Il primo motivo di gravame, traendo spunto da una pronuncia del Consiglio di Stato che ha condotto alla ben nota sentenza della Corte costituzionale n. 37/2015, eccepisce l’inesistenza giuridica dell’atto impositivo in quanto il Capo Team firmatario dello stesso (per delega) non rivestiva la qualifica di “dirigente” a seguito di concorso pubblico.
Orbene la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22810 del 2015 ha affermato, nell’interesse della legge ed ai sensi dell’art. 363 c.p.c. i seguenti principi di diritto: “In ordine agli avvisi di accertamento in rettifica e agli accertamenti d’ufficio, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l’atto sia sottoscritto dal “capo dell’ufficio” o “da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”, senza richiedere che il capo dell’ufficio o il funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale; ciò ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni. In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma appena evocata, i “funzionari di area terza” di cui al contratto del comparto agenzie fiscali fissato per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma sopra citata individua l’agente capace di manifestare la volontà della amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti. Essendo la materia tributaria governata dal principio di tassatività delle cause di nullità degli atti fiscali, e non occorrendo, ai meri fini della validità di tali atti, che i funzionari (delegati o deleganti) possiedano qualifiche dirigenziali, ne consegue che la sorte degli atti impositivi formati anteriormente alla sentenza n. 37 del 2015 della corte costituzionale, sottoscritti da soggetti al momento rivestenti funzioni di capo dell’ufficio, ovvero da funzionari della carriera direttiva appositamente delegati, e dunque da soggetti idonei ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, non è condizionata dalla validità o meno della qualifica dirigenziale attribuita per effetto della censurata disposizione di cui art. 8, 24 comma, del D.L. n. 16 del 2012″.
Di conseguenza la doglianza, come formulata (peraltro per la prima volta nell’atto di appello) dal Sig. C. e riferita alla necessità del possesso della “qualifica dirigenziale” da parte del sottoscrittore dell’atto, è priva di giuridico fondamento.
Il secondo ed il terzo motivo di gravame, come correttamente eccepito dalla resistente, si imbattono nel divieto dei “nova” e sono, perciò, inammissibili. Il contribuente non ha fatto alcuna menzione di dette doglianze nel ricorso introduttivo di giudizio, essendosi limitato ad impugnare la ripresa in tassazione per carenza di motivazione in ordine alla pretesa sostanziale.
Il quarto ed ultimo mezzo ribadisce un’asserita, omessa valutazione delle giustificazioni addotte nella fase del contraddittorio amministrativo pre-processuale.
Sennonché, tramite la diffusa motivazione che correda l’avviso di accertamento l’Ufficio impositore ha dato chiara contezza della oggettiva e notevole genericità degli elementi dedotti dal contribuente per confutare – con pari facoltà di prova contraria – la prova presuntiva messa a base dell’accertamento in rettifica.
In particolare, è stata evidenziata la scarsa significatività del “campione” costituito dalle poche fatture di vendita esibite dal commerciante rispetto al volume complessivo di affari.
L’asserito abbattimento dei prezzi attraverso prevalenti vendite “a saldo”, quindi, è rimasta asserzione del tutto indimostrata in via anche soltanto presuntiva, nel mentre la generica menzione della crisi di settore non ha certo potuto corroborare la “prova contraria” addotta in giustificazione.
In conclusione e in sintesi, la Commissione reputa che l’appello debba essere respinto e la sentenza di primo grado integralmente confermata.
Le spese del giudizio di secondo grado, da porre a carico del contribuente appellante in ragione della regola della soccombenza, in aderenza al D.M. n. 55 del 2014 e tenuto conto del valore della controversia e delle attività defensionali svolte vengono liquidate in 800,00 Euro.
Circa, infine, la richiesta di condanna formulata dall’Agenzia resistente per temerarietà della lite, giova premettere che la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. integra una particolare forma di responsabilità processuale messa a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con “mala fede o colpa grave “.
Detta responsabilità si atteggia diversamente a seconda dei gradi del giudizio, atteso che mentre in primo grado essa è volta a sanzionare il merito di una intrapresa iniziativa giudiziaria avventata, nel secondo grado, regolato dal principio devolutivo, essa deve specificamente riferirsi alla pretestuosità dell’impugnazione (Cass. n. 7620 del 2013).
Sul piano soggettivo, la giurisprudenza si è orientata a ritenere necessario, nel caso dell’art. 96, comma 3, c.p.c., l’accertamento della mala fede o comunque della colpa grave della parte soccombente, in tal modo estendendo a tale ipotesi sanzionatoria la disciplina generale della responsabilità aggravata nella quale è inserita (Cass. n. 21570 del 2012), che mira a sanzionare le iniziative giudiziarie avventate, ovvero la pretestuosità di un’impugnazione.
Circa la prova e quantificazione del risarcimento e della sanzione la giurisprudenza ha affermato che: “La facoltà, concessa dall’art. 96 c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009, di liquidare d’ufficio il danno da responsabilità aggravata risponde al criterio generale di cui agli art. 1226 e 2056 c.c., senza alcuna deroga all’onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a dimostrarne l’effettività: tale facoltà, invero, non trasforma il risarcimento in una pena pecuniaria, né in un danno punitivo disancorato da qualsiasi esigenza probatoria, restando esso connotato dalla natura riparatoria di un pregiudizio effettivamente sofferto senza assumere invece, carattere sanzionatorio od afflittivo; tale interpretazione è, altresì, avvalorata dall’art. 45, comma 12, della L. 18 giugno 2009, n. 69, il quale ha aggiunto un terzo comma all’art. 96 c.p.c., introducendo una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario ” (Cass. n. 17902 del 2010).
In siffatta prospettiva, la sanzione ex art. 96 comma 3, c.p.c. non appare vincolata a limite quantitativo minimo o massimo, ma soltanto al criterio dell’equità, potendo essere proporzionata anche all’importo delle spese processuali o su di un loro multiplo, con l’unico limite della ragionevolezza (Cass. cit., n. 21570 del 2012).
Quanto ai rapporti tra la responsabilità prevista dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c., e quella di cui al terzo comma, la giurisprudenza ha precisato che: “Non vi è alternatività, ma cumulabilità, tra il primo comma dell’art. 96 c.p.c. (inerente alla condanna al risarcimento dei danni della parte totalmente soccombente che abbia agito o resistito con mala fede o colpa grave), e il terzo comma (sulla condanna ex officio, “altresì”, al pagamento di una somma determinata equitativamente), potendo, astrattamente, il giudice pronunciare, se ne sussistano le rispettive condizioni, la condanna in forza di entrambe le disposizioni di legge, applicate cumulativamente: parzialmente diversi sono, infatti, i presupposti delle due condanne. Pur tuttavia, il giudice deve evitare duplicazioni risarcitorie, ristorando il medesimo pregiudizio due volte”.
Orbene, nel caso di specie, nessuna pretestuosità o avventatezza è riscontrabile nella proposizione del gravame, nel mentre parte appellata neppure indica con precisione la disposizione presa a riferimento, né quantifica presuntivamente l’entità di solo asseriti danni, tanto che la richiesta appare essere una mera clausola di stile.
P.Q.M.
La Commissione respinge l’appello e condanna l’appellante alle spese di giudizio pari a 800,00 Euro omnicomprensivi in favore dell’Agenzia appellata.
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