COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Roma – Sentenza n. 2859 sez. 16 del 18 maggio 2017
IMPOSTA UNICA – CENTRO TRASMISSIONE DATI – SCOMMESSE – BOOKMAKER COMUNITARIO – ASSOGGETTAMENTO – SUSSISTE
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
Il signor A.F., già titolare della cessata ditta individuale F.A., appella la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Viterbo, Sezione 4, 18 gennaio 2016 n. 37/04/16, nella parte in cui ha rigettato il suo ricorso avverso un avviso di accertamento in materia di imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, per l’anno 2009, per l’importo di 50.136,43 euro.
La questione riguarda l’applicazione della suddetta imposta ai CTD (Centri Trasmissione Dati) che prestano servizi accessori ad un bookmaker comunitario (nella specie Stanleybet Malta Limited), non titolare di una concessione nazionale.
I servizi espletati consisterebbero, essenzialmente, nell’elaborazione e nella trasmissione dati ed in un mandato con rappresentanza, in relazione all’attività di incasso e detenzione momentanea delle puntate e vincite facenti capo al bookmaker.
A seguito delle verifiche effettuate, l’Agenzia autonoma delle Dogane e dei Monopoli inviava il suddetto accertamento che, come si è detto in precedenza, è stato confermato dalla sentenza impugnata in questa sede, avverso la quale, con l’appello in esame, si deduce:
1) la violazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 504/98, come interpretato dall’art. 1, comma 66, lett. b), della legge n. 220/2010 in ordine all’individuata responsabilità solidale di Stanleybet e del CTD. In particolare, non sarebbe corretto affermare che CTD svolge attività di gestione dei concorsi, sia perché mancherebbe di una struttura decisionale ed organizzatoria, sia perché non assumerebbe alcun rischio d’impresa, ambedue riferibili, in via esclusiva, ai bookmaker, costituenti le uniche controparti contrattuali dei giocatori.
Tale conclusione resisterebbe anche alla novella del 2011 atteso che solo il soggetto che organizza le scommesse definirebbe le regole del gioco, con la fissazione delle quote e delle condizioni di accettazione delle puniate, sicché sarebbe l’unico a potere gestire l’imposta. Di converso, il CTD non deterrebbe alcun potere sulle somme consegnategli dai giocatori, non svolgerebbe alcun ruolo in ordine all’accettazione delle scommesse, non interferirebbe nel rapporto giuridico di scommessa, né assumerebbe alcun rischio d’impresa. Il suo rapporto con il bookmaker costituirebbe una sorta di mandato con rappresentanza.
2) Ulteriore violazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 504/98, come interpretato dall’art. 1, comma 66, lett. b), della legge di stabilità 2011, in quanto la mera “raccolta” non potrebbe giammai rappresentare un autonomo fattore generatore dell’imposta.
Erroneamente, poi, il Giudice di primo grado avrebbe riconosciuto sussistente il profilo territoriale, ritenendo perfezionato il contratto tra il giocatore e la società maltese in Italia, in quanto l’”accettazione” della scommessa, di cui parla l’art. 1, comma 2, lett. b) della legge n. 288/98, andrebbe riferita al bookmaker.
La fattispecie andrebbe riferita ad un’offerta al pubblico rivolta dal bookmaker ai potenziali giocatori, il contratto si perfezionerebbe nel momento in cui il bookmaker riceve, presso i propri server, collocati all’estero, i dati che costituiscono l’accettazione dello scommettitore della sua offerta (nella specie, ciò avverrebbe a Malta).
Rispetto a tale schema, il CTD costituirebbe un mero canale comunicativo.
3) Questioni di rilevanza comunitaria e costituzionale.
In particolare, l’interpretazione che della normativa primaria ha fatto l’Agenzia autonoma delle Dogane e dei Monopoli comporterebbe una violazione del principio della libera prestazione dei servizi ex art. 56 del Trattato UE, determinando un pregiudizio per gli operatori di un altro Stato membro rispetto ai concessionari nazionali delle scommesse.
Nella specie, il bookmaker è società legittimamente autorizzata a Malta ed ivi assoggettata ad imposizione specifica sulle attività di gioco.
Per quanto attiene alla sopportazione dell’imposta de qua, si assume che il concessionario nazionale svolge la funzione di banco e fissa le quote che dovrà versare lo scommettitore, sul quale viene successivamente traslato l’onere del tributo. Per converso, l’intermediario nazionale dell’operatore comunitario non svolge la suddetta funzione, né, tantomeno, fissa le quote, sicché, sottoposto all’onere del versamento del tributo, diverrebbe il soggetto definitivamente inciso dal tributo, non essendo in condizione di traslarlo sullo scommettitore.
Conseguentemente, si ridurrebbe il suo margine operativo.
L’intermediario nazionale dell’operatore comunitario sarebbe altresì discriminato rispetto agli intermediari dei concessionari nazionali (le cd. ricevitorie), che la norma non configura come soggetti passivi del tributo.
Anche l’operatore comunitario sarebbe pregiudicato, in quanto soggetto passivo del tributo in via sussidiaria, in quanto coobbligato in solido con l’intermediario nazionale. Egli avrebbe due possibilità:
– o deciderà di non traslarne l’onere sulle quote fissate allo scommettitore italiano, rinunziando ad una parte del proprio margine operativo (ma salvando quote di mercato);
– o deciderà di effettuare detta traslazione, con quel che ne consegue in termini di competitività, che risulterà ulteriormente svantaggiosa per il fatto che, nel Paese di sede, è già assoggettato all’imposta (betting tax), sicché dovrà effettuare una doppia traslazione.
L’appellante richiama ed invoca la giurisprudenza comunitaria ed evidenzia che, in estrema sintesi, il vizio sarebbe costituito dal trattare allo stesso modo situazioni tra loro del tutto diverse.
In conclusione, si chiede la disapplicazione della norma interna o, in via subordinata la rimessione della questione interpretativa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
In ulteriore subordine, si denuncia la non manifesta infondatezza della questione di legittimità dell’art. 1, comma 66, lett. b), della legge di stabilità 2011, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto, atteso che l’imposta ha carattere degressivo, le scommesse offerte (come nella specie) con modalità transfrontaliera in assenza di concessione non concorrono al computo del movimento netto, che costituisce il parametro fattuale in funzione del quale le coppie di aliquote applicabili sono state fissate.
Tanto comporterebbe l’applicazione del tributo con un’aliquota più elevata di quella effettivamente praticabile.
Si è costituita in giudizio l’Agenzia autonoma delle Dogane e dei Monopoli, la quale, in primo luogo, controdeduce all’appello avversario.
In particolare, illustra il sistema di raccolta delle scommesse, basato, sostanzialmente, sull’affidamento del servizio ai privati attraverso il metodo delta concessione.
Accanto a tale forma vi è quella svolta dai centri di trasmissione dati (CTD), i quali godrebbero di un’evidente situazione di vantaggio, anzitutto per non fare affluire al totalizzatore nazionale i dati della raccolta.
Di qui la necessità, avvertita dal Legislatore, di imporre il pagamento dell’imposta unica a tutti i soggetti che raccolgono le scommesse in Italia.
In ordine ai motivi di appello evidenzia:
1) la sussistenza di tutte le condizioni applicative dell’art. 3 del decreto legislativo n. 504/98, come interpretato dall’art. 1, comma 66, lett. b), della legge di stabilità 2011.
In particolare, l’attività svolta dal CTD sarebbe, a tutti gli effetti, di “gestione dei concorsi”, così come richiesto dalla norma;
2) la ricorrenza, nella specie, del requisito della territorialità, perfezionandosi in Italia il contratto di scommessa;
3) la palese infondatezza della questione comunitaria, in quanto la norma si riferirebbe indiscriminatamente a tutti i “gestori”, sicché la sua funzione sarebbe di garantire una parità di trattamento fiscale per tutti gli operatori, non consentendo privilegi per chi, come Stanleybet, per una libera scelta imprenditoriale, non ha inteso concorrere per l’assegnazione della prescritta concessione.
Parimenti manifestamente infondata sarebbe la dedotta violazione dell’art. 3 della Costituzione.
L’Agenzia autonoma delle Dogane e dei Monopoli ha altresì proposto appello incidentale, censurando la sentenza del CTP di Viterbo, nella parte in cui ha ritenuto non applicabili le sanzioni per le condizioni di incertezza del quadro normativo di cui al D.L.vo n. 504/98 citato, assumendo che non vi sarebbe alcun possibile dubbio applicativo della norma impositiva primaria.
L’appellante produce memoria conclusionale, nella quale, richiamando il rinvio alla Corte Costituzionale operato dalla CTP di Rieti, chiede, in prima battuta, la sospensione del giudizio (o il rinvio della causa ad altra udienza) in attesa della pronuncia della Consulta; in via subordinata, insiste per la rimessione alla Corte di Giustizia U.E. per la risoluzione della questione comunitaria adombrata.
All’udienza del 3 aprile 2017 la causa è passata in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello è infondato.
1) Insussistente e, anzitutto, la dedotta violazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 504/98, come interpretato dall’art. 1, comma 66, lett. b), della legge di stabilità 2011. Assume il CTD di non svolgere l’attività di gestione dei concorsi, sia perché mancherebbe di una struttura decisionale ed organizzatoria, sia perché non assumerebbe alcun rischio d’impresa, ambedue riferibili, in via esclusiva, ai bookmaker, costituenti le uniche controparti contrattuali dei giocatori.
Tale conclusione resisterebbe anche alla norma di Interpretazione autentica, atteso che solo il soggetto che organizza le scommesse definirebbe le regole del gioco, vale a dire la fissazione delle quote e delle condizioni di accettazione delle puntare, sicché sarebbe l’unico a potere gestire l’imposta. Di converso, il CTD non deterrebbe alcun potere sulle somme consegnategli dai giocatori, non svolgerebbe alcun ruolo in ordine all’accettazione delle scommesse, non interferirebbe nel rapporto giuridico di scommessa, né assumerebbe alcun rischio d’impresa. Il suo rapporto con il bookmaker costituirebbe una sorta di mandato con rappresentanza.
La tesi esposta non resiste, a giudizio del Collegio, alla lettura della norma di interpretazione autentica introdotta dalla disposizione del 2010, sopra citata, secondo cui “soggetto passivo di imposta è chiunque … gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, ubicati anche all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere”.
II Legislatore ha volutamente introdotto un concetto ampio e sostanziale, quale quello di “gestione”, per includere ogni attività idonea a portare a termine il negozio di scommessa o, per meglio dire, a svolgere la “raccolta del gioco” ed ogni atto materiale a questo connesso, antecedente e successivo. In ogni caso, anche a voler far propria un’interpretazione ristretta della nozione di “gestione”, appare pacifico che in essa vi rientrino le diverse attività esercitate dalla ricorrente: non solo la trasmissione dei dati al bookmaker, l’incasso delle somme puntate e il pagamento delle vincite, ma anche la predisposizione di locali aziendali finalizzati all’esercizio dell’impresa e di apparecchiature informatiche, nonché – sotto un profilo più prettamente formalistico – l’invito a scommettere mediante l’indicazione di quote, la ricezione delle proposte di scommessa da parte dei giocatori e l’accettazione da parte del bookmaker, a seguito della giocata, comprovata dal rilascio di ricevuta da parte del gestore.
La nozione di “gestione” non implica dunque necessariamente l’assunzione del rischio della scommessa, come invece postulato dalla società appellante, ma è ritenta alla attività di impresa di raccolta delle scommesse, in relazione alla quale sussiste infatti uno specifico rischio, connesso al volume delle giocate ricevute, per le quali è pagata la provvigione (cfr. in tal senso, la decisione di questa Commissione, Sezione 28. n. 354/28/2016).
2) Con il secondo motivo di appello viene ulteriormente allargato lo spettro delle doglianze, sotto il particolare profilo della territorialità, in quanto il contratto tra il giocatore e la società maltese non si perfezionerebbe in Italia, atteso che “accettazione” della
scommessa, di cui parla l’art. 1. comma 2, lett. b) della legge n. 288/98, andrebbe riferita al bookmaker.
Premesso che la fattispecie andrebbe riferita ad un’offerta al pubblico rivolta dal bookmaker ai potenziali giocatori, il contratto si perfezionerebbe nel momento in cui il bookmaker riceve presso i propri server, collocati all’estero, i dati che costituiscono l’accettazione dello scommettitore della sua offerta (nella specie, ciò avverrebbe a Malta).
Rispetto a tale schema, il CTD rappresenterebbe un mero canale comunicativo.
La suesposta prospettazione non risulta convincente.
Il Legislatore, in realtà, ha demandato al Governo il riordino della fiscalità sulle scommesse, nel rispetto di principi e criteri direttivi, tra cui l’applicazione dell’imposta unica anche alle “scommesse accettate net territorio italiano di qualunque tipo e relative a qualunque evento, anche se svolto all’estero”. Alla delega ha fatto seguito l’art. 1 del D.Lgs. 504/98, che ha definito l’ambito di applicazione dell’imposta unica, statuendo che essa “è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero”.
Pertanto, nell’ipotesi di operatori esteri che agiscano in Italia tramite locali aperti al pubblico, le scommesse devono intendersi accettate nel territorio italiano, in quanto il tenutario del banco, pur ubicato all’estero, svolge inevitabilmente la sua attività tramite soggetti stabiliti nel territorio dello Stato, ad esso legati da vincoli contrattuali, atteso che è appunto in Italia che il proponente (giocatore) ha conoscenza dell’accettazione (o diniego) della controparte.
Deve ulteriormente ribadirsi che la norma precettiva non considera fattore decisivo dell’imposizione il presupposto territoriale, quanto, piuttosto il fatto materiale della “raccolta del gioco”, che si svolge pacificamente in Italia.
3) L’infondatezza sia della pregiudiziale comunitaria, sia della questione di costituzionalità della norma primaria applicata nella specie, per le ragioni che, rispettivamente, si andranno ad esporre, conduce il Collegio a rigettare sia la richiesta di sospensione del presente giudizio, sia del solo rinvio della causa a nuova udienza.
In particolare:
a) in ordine alla corretta applicazione dell’art. 267 del Trattato UE, il Collegio ritiene condivisibile quanto affermato sia da questa Sezione, nella già richiamata decisione n. 354/28/2016, sia dalla CIP di Latina, nella recentissima sentenza n. 930/19/2017.
Invero l’imposta unica non può dirsi in contrasto né con l’art. 401 della direttiva 2006/112/CE, né con l’art. 33 della direttiva 77/388/CEE del Consiglio in data 15 luglio 1977, il quale stabilisce che “Ferme restando le altre disposizioni comunitarie, (e disposizioni della presente direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte sui giochi e sulle scommesse, che non abbia il carattere di imposta sul volume di affari, sempreché tali imposte, diritto o tassa non dia luogo, negli scambi fra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera”.
Infatti l’imposta unica – che non è tributo armonizzato – non risulta incompatibile con il divieto di introduzione di imposte sulla cifra d’affari, in quanto essa:
a) non grava su tutte le operazioni economiche dello Stato membro ma si riferisce ad uno specifico servizio;
b) viene riscossa solo una volta e non nelle fasi intermedie;
c) non si applica sul valore aggiunto dei beni e servizi, tant’è vero che le vincite e le operazioni connesse all’esercizio delle scommesse sono esenti da IVA;
d) non si applica sul volume di affari, ma questo costituisce solo un parametro per la sua quantificazione.
Quanto poi alla asserita discriminazione tanto per l’intermediario, che non potrebbe traslare il tributo sul consumatore con sua definitiva incisione (a differenza di quanto avviene per il regime applicabile ai concessionari nazionali), quanto per l’operatore estero, che si vedrebbe pregiudicato dal mancato accesso al mercato italiano, essendo costretto a trasferire sullo scommettitore sia l’onere dell’imposizione maltese (betting tax), sia l’imposta unica, con la conseguenza di rendere le proprie quote meno competitive e remunerative di quelle dei concessionari italiani, va considerato, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (anche argomentando dalla sentenza B. della Corte GUE, cause riunite C-660/11 e C-8/12, 12.9.2013), che non può dirsi in contrasto con l’ordinamento comunitario la sottoposizione all’imposta unica di soggetti non titolari di concessione che, come si è visto, operando dall’estero nel territorio nazionale per il tramite di intermediari, concorrono ad un’unitaria operazione economica intesa a realizzare la scommessa; diversamente opinando, la discriminazione finirebbe con l’ingiustamente colpire gli operatori nazionali provvisti di concessione.
Ciò è tanto più rilevante se si considera la volontarietà della scelta di operare in Italia con le modalità seguite dall’attuale appellante e dal proprio bookmaker;
b) quanto alla questione di costituzionalità, prospettata sub specie dell’ingiustificata disparità di trattamento e dell’irragionevolezza dell’imposizione tributaria, parimenti essa risulta manifestamente infondata.
Al riguardo, deve evidenziarsi che il Legislatore non ha limitato l’applicazione dell’imposta unica ai soggetti muniti di concessione e licenza di pubblica sicurezza, ma l’ha estesa a tutti i soggetti che, anche in concessione, gestiscono concorsi pronostici e scommesse. Appare chiaro ed innegabile il riferimento a tutti coloro che, “anche in concessione” – quindi, anche senza concessione – e, in definitiva, a qualsiasi titolo, esercitano tale attività.
Quello che rileva per l’ordinamento è che chiunque effettui operazioni di raccolta di scommesse sia assoggettato all’imposta unica.
In altre parole, sarebbe contro ogni logica che coloro che, provvisti di regolare concessione rilasciata dall’Amministrazione, siano considerati soggetti passivi dell’imposta, mentre coloro che esercitano la stessa attività di raccolta di scommesse, senza concessione o autorizzazione, ne siano esenti, fruendo ingiustificatamente di un’agevolazione fiscale: questo, si, costituirebbe un vulnus al diritto di uguaglianza, sancito dall’art. 3 della Costituzione.
In sostanza, l’operatore (privo di concessione e autorizzazione), anche se svolge l’attività per conto di terzi, realizza o concorre a realizzare un’attività di scommesse e deve essere sottoposto all’imposta unica.
Né in ciò è ravvisabile una qualche illegittimità costituzionale.
Infatti, il d.lgs. 504/98 (con particolare agli artt. 1 e 3) contiene norme meramente interpretative (ed è lo stesso legislatore ad evidenziarlo: “l’art. 3 del d.lgs. 504/98 si interpreta nel senso che …”), con la conseguenza che, a buon diritto, può essere affermata la sua applicazione retroattiva, senza alcun pregiudizio per i principi costituzionali.
Sul punto non sembra inutile ricordare la sentenza n. 162 del 7.5.2008, con la quale la Corte Costituzionale ha confermato il proprio costante orientamento in tema di interpretazione autentica secondo cui “non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva) ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti il divieto di retroattività della legge – pur costituendo un fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, con cui il legislatore ordinario deve in principio attenersi – non è stato elevato a dignità costituzionale, salva per la materia penale, la previsione dell’art. 25 della Costituzione”.
Sempre in relazione all’evocata lesione del principio di uguaglianza, non ha pregio l’argomento della lesione del principio di uguaglianza per inapplicabilità, nella specie, del sistema degressivo, dato che quest’ultimo è operante unicamente per la raccolta convogliata nel totalizzatore nazionale, mentre, ai sensi dell’art. 24, comma 10, del d.l. n. 98/2011, l’imponibile sulla raccolta di scommesse in assenza di concessione è determinata sulla base dei dati rilevati in sede di accertamento, sistema da ritenere legittimo disciplinando fattispecie diverse, il cui discrimine è rappresentato dall’assenza di concessione e quindi dall’impossibilità di convogliare le giocate nel totalizzatore nazionale.
4) In conclusione, l’appello del contribuente va rigettato.
B) Passando all’appello incidentale dell’Amministrazione, esso, invece, risulta fondato.
Perché possa escludersi l’operatività delle sanzioni, è necessario che vi sia un’oggettiva incertezza interpretativa della normativa posta a base dell’avviso di accertamento.
La CTP ha ravvisato tale incertezza nell’esistenza di “ampi margini di discutibilità” nell’applicazione dell’imposta sulle scommesse alle imprese di gestione transnazionali.
Il ragionamento effettuato dal primo Giudice non risulta convincente, in quanto, anche anteriormente all’entrata in vigore della norma interpretativa, coloro che effettuavano la raccolta di scommesse senza concessione erano sottoposti al versamento dell’imposta unica, così come quelli operanti in virtù di una specifica concessione.
In presenza di un obbligo tributario concernente il versamento dell’imposta unica, sussistente per entrambe le categorie di intermediari, appare evidente che, per rispettare, simmetricamente, la parità di trattamento fra soggetti che, sia pur con un assetto diverso espletano la medesima attività sul territorio nazionale, anche i secondi debbano essere sottoposti a sanzione qualora – come nella specie non abbiano mai versato detta imposta.
Condivisibile appare altresì quanto sostenuto dall’Agenzia, laddove rileva che l’esimente non può considerarsi operativa in presenza di una generica valutazione di indeterminatezza della normativa, necessitando, piuttosto, di concrete difficoltà oggettive riscontrate dal contribuente, tali da avergli impedito l’assolvimento degli obblighi tributari.
Nel quantum poi, la sanzione è stata correttamente irrogata nella misura prevista per le violazioni anteriori all’entrata in vigore della novella del 2010.
L’appello incidentale va, pertanto, accolto.
Le spese di giudizio versano a carico del contribuente e sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo.
P.Q.M.
rigetta l’appello del contribuente ed accoglie l’appello incidentale dell’Ufficio, condannando il contribuente al pagamento di euro 3.000,00 per spese.
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