COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di Roma sentenza n. 3335 sez. 4 del 11 giugno 2015
PROCESSO TRIBUTARIO – CONTRIBUTO UNIFICATO – UN’ULTERIORE SANZIONE PER LE IMPUGNAZIONI – PAGAMENTO DI UN ULTERIORE CONTRIBUTO UNIFICATO DA VERSARSI ALL’ESITO DEL PROCEDIMENTO QUANDO QUESTO È STATO DICHIARATO INAMMISSIBILE, IMPROCEDIBILE O INTEGRALMENTE RESPINTO.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 22 dicembre 2009, S.P. impugnava l’avviso di accertamento n. …/2009 IRPEF 2004, emesso dall’Agenzia delle entrate, Ufficio di Tivoli, relativo ad un redito di partecipazione di euro 85.756,00, rispetto a quello di euro 26.360,00 dichiarato, derivante dalla imputazione pro quota del reddito di impresa di euro 90.270,00.
L’avviso, notificato il 4 settembre 2009 allo S.P. quale socio al 95% della T. di S.P. e C. s.n.c., scaturiva da un processo verbale di contestazione elevato nei confronti della società, in relazione al quale era stato dalla società presentato modello di adesione, ai sensi dell’art. 5 bis del d.lgs. n. 218 del 1997, cui era seguito, in data 30 giugno 2009, l’atto di definizione n. …/2009, notificato alla società.
Il contribuente sosteneva l’inesistenza dell’atto impugnato, eccependo la decadenza del diritto, in quanto esercitato oltre il 30 giugno 2009, termine stabilito, ai sensi della circolare n. 55 del 17 settembre 2008, per la notifica dell’atto di definizione parziale relativo ai verbali consegnati sino al 31 dicembre 2008; rilevava pertanto la tardività dell’atto, notificatogli solo il 4 settembre 2009, nonché la nullità dello stesso per carenza di motivazione; richiamava, inoltre, l’art. 5 bis del d.lgs. n. 218 del 1997, il quale prevede che nel caso di società di persone l’atto di definizione in capo alla società non rileva ai fini dell’accertamento sui soci, dovendo essere notificato l’atto di definizione anche nei loro confronti; eccepiva, ancora, la irregolarità dell’accertamento condotto mediante ripresa di costi che non avevano portato alcun reddito aggiuntivo al socio, nonché la illegittimità dello stesso, prodotto per derivazione dal verbale degli investigatori senza che sullo stesso fosse stata operata alcuna valutazione da parte dell’Ufficio; lamentava ancora la violazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 e degli artt. 2041 e 2043 cod. civ., nonché degli artt. 88 e 96 cod. proc. civ.
L’Agenzia delle entrate di Roma, Ufficio di Tivoli si costituiva, chiedendo il rigetto del ricorso.
L’adita CTP di Roma, con sentenza n. 3209/30/14, rigettava il ricorso, condannando il contribuente alle spese.
Premesso che all’udienza del 9 febbraio 2002 la causa era stata rinviata a seguito di deposito di richiesta di conciliazione giudiziale, rimasta senza esito, la CTP riteneva che la posizione di socio di una società di persone non potesse rendere il primo indipendente dalle decisioni sociali lecitamente assunte, le quali si riversano in via primaria sulla società e in via secondaria sul socio stesso, in quanto destinatario ultimo di quelle decisioni. Rilevava quindi che, ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, «i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili» e che, ai sensi del successivo comma 2, «le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore dei conferimenti dei soci se non risultano determinate diversamente dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all’inizio del periodo d’imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali».
Secondo la CTP, quindi, il reddito societario, definito per il 2004 a seguito di adesione alla proposta di accertamento ex art. 3 del d.l. n. 564 del 1994, convertito dalla legge n. 656 del 1994, non poteva non esplicare effetti anche nei confronti dei soci; e ciò in quanto l’art. 9-bis del decreto-legge n. 79 del 1997, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 140 del 1997, stabilisce che «l’intervenuta definizione da parte delle società od associazioni di cui all’articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, ovvero da parte del titolare di azienda coniugale non gestita in forma societaria costituisce titolo per l’accertamento, ai sensi dell’articolo 41-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni e integrazioni, nei confronti delle persone fisiche che non hanno definito i redditi prodotti in forma associata. In tal caso i termini previsti dall’articolo 43 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973 sono prorogati di due anni».
Nella specie, osservava la CTP, posto che la società del contribuente aveva aderito alla proposta di accertamento formulata sulla base della previsione normativa richiamata dall’Ufficio, definendo un maggior reddito e maggiori imposte, il socio doveva rispondere delle conseguenze derivanti da detta definizione, secondo la propria quota di partecipazione.
Avverso questa sentenza S.P. ha proposto appello.
L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di controdeduzioni, cui il contribuente ha replicato con memoria tempestivamente depositata.
All’udienza del 17 marzo 2015 la causa è stata discussa ed è passata in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L’appellante dichiara di insistere sulle eccezioni già formulate in primo grado e in particolare su quella di nullità dell’avviso di accertamento impugnato per carenza di motivazione, in quanto lo stesso fa riferimento ad un atto di definizione regolarizzato dalla società di persone, ma ad esso non è stato allegato il PVC con il quale erano stati formalizzati i rilievi che avevano generato le richieste dell’Ufficio, sicché ad esso appellante non era stato possibile difendersi nel merito delle pretese tributarie. L’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, sostiene l’appellante, non deve far supporre che il socio possa essere estraneo al processo tributario inerente alle richieste avanzate nei confronti della società di persone, sussistendo un litisconsorzio necessario tra la società e i soci. In sostanza, assume l’appellante, la mancata allegazione all’avviso di accertamento del PVC nei suoi elementi sostanziali relativi alle maggiori imposte richieste alla T., ha determinato lesione del suo diritto di difesa, precludendogli di verificare la fondatezza dell’atto impositivo notificatogli. Sostiene, quindi, di essere pienamente legittimato, in sede giudiziaria, a contestare la fondatezza nel merito dell’atto presupposto, ossia dell’avviso di accertamento notificato alla società, in quanto i limiti della estensione dell’atto di definizione della società comportano che la decisione del managment di quest’ultima in merito alla cristallizzazione dei debiti tributari in carico alla società non possa essere opposta sic et simpliciter al socio, perché ciò comporterebbe una lesione del suo diritto di difesa. Né la situazione potrebbe essere diversa per il rilievo che esso appellante era rappresentante della società, atteso che le scelte dell’ente possono essere determinate dalle ragioni più diverse, ma non fanno venire meno la posizione di alterità tra socio e società.
In quest’ottica risulterebbe evidente anche la violazione degli artt. 7, 10 e 12 della legge n. 212 del 2000, che impongono la chiarezza e la motivazione degli atti impositivi e il riconoscimento dell’affidamento e della buona fede nei rapporti tra amministrazione e contribuente.
Nel merito, l’appellante sostiene che l’Ufficio non avrebbe provato la sua maggior capacità contributiva per l’anno 2004, in quanto la presunzione semplice di cui all’art. 5 citato, è suscettibile di essere stravolta se si verifica che il socio non abbia materialmente usufruito del maggior reddito accertato. E tale verifica emergeva dal rilievo che i suoi conti correnti non avevano registrato nell’anno 2004 entrate, non essendo neanche stati accertati utili extracontabili, atteso che oggetto del PVC era solo la mancata deducibilità di alcuni costi detratti dalla società. In sostanza, non essendo stata accertata la inesistenza dei costi ma solo la non deducibilità di costi effettivamente sostenuti, si sarebbe dovuto escludere che da ciò derivasse un maggior reddito per il socio.
2. Con il secondo motivo l’appellante ripropone la questione della tardività della notificazione dell’avviso di accertamento, ribadendo che la stessa avrebbe dovuto essere eseguita entro il 30 giugno 2009.
3. Il primo motivo di appello è infondato.
Non sussiste, infatti, la nullità dell’avviso di accertamento perché motivato per relationem al PVC elevato a carico della società T. di S.P. s.n.c. L’Ufficio ha dedotto nelle proprie controdeduzioni in primo grado – e sul punto non vi è stata contestazione da parte dell’appellante – che il PVC è stato notificato al Rag. P.C., delegato dallo S.P., e che la richiesta di adesione per la T., ai sensi dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 218 del 1997, è stata fatta proprio dallo S.P., sicché deve ritenersi che quest’ultimo fosse senz’altro a conoscenza dei suoi contenuti.
Né miglior sorte può avere il rilievo per cui l’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 avrebbe valore di mera presunzione, suscettibile di prova contraria, atteso che la citata disposizione stabilisce che i redditi della società sono imputati ai soci, indipendentemente dalla loro percezione, proporzionalmente alla quota di partecipazione. Pertanto, una volta che, per effetto della definizione con adesione da parte della società deve ritenersi accertato un maggior reddito a carico della stessa, in forza della presunzione di cui all’art. 5 quel maggior reddito concorre a costituire il reddito dei singoli soci, nei limiti della quota, ma a prescindere dalla effettiva percezione da parte degli stessi.
Nella giurisprudenza di legittimità si è del resto chiarito che «in tema di redditi prodotti in forma associata, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, il reddito di partecipazione agli utili del socio di società di persone costituisce, ai fini dell’IRPEF, reddito proprio del contribuente, al quale è imputato sulla base di presunzione di effettiva percezione, e non della società; detto socio, pertanto, ove non abbia dichiarato, per la parte di sua spettanza, il reddito societario nella misura risultante dalla rettifica operata dall’Amministrazione finanziaria a carico della società ai fini dell’ILOR, è tenuto al pagamento del supplemento d’imposta. Ne consegue che, ove la società di persone abbia provveduto a definire il proprio reddito annuale mediante accertamento con adesione, ai sensi dell’art. 3 del d.l. n. 564 del 1994 (conv. in legge n. 656 del 1994), ai soci deve essere attribuita per la medesima annualità la quota parte dell’imponibile risultante dall’imposta versata dalla società per la definizione della lite fiscale, costituendo l’imputazione al socio della quota parte del reddito della società corretta applicazione del disposto del citato art. 5; né assume rilievo, in contrario, l’art. 9-bis, comma 17, del d.l. n. 79 del 1997 (conv. in legge n. 140 del 1997), il quale, nel fare “salvi gli effetti delle definizioni perfezionate alla data del 15 dicembre 1995” ai sensi del predetto art. 3 del d.l. n. 564/94, ha come destinatari soltanto i soggetti (nella fattispecie, la società) che hanno provveduto a tale definizione» (Cass. n. 26476 del 2008; Cass. n. 14418 del 2005).
4. È infondato anche il secondo motivo di appello.
Invero, il termine del 30 giugno 2009, cui l’appellante fa riferimento, si riferisce all’evidenza, va riferito alle notificazioni concernenti i verbali consegnati entro il 31 dicembre 2008, non anche alla notifica dell’avviso di accertamento conseguente alla definitività dell’accertamento notificato alla società, in relazione al quale sia intervenuto atto di adesione, che costituisce esso solo il presupposto dell’accertamento di maggior reddito nei confronti del socio.
5. In conclusione, l’appello va rigettato, con conseguente condanna dell’appellante al pagamento delle spese del grado, che si liquidano in euro 2.000,00 per compensi.
6. Poiché l’appello è stato proposto dopo il 31 gennaio 2013 ed è rigettato, deve dichiararsi la sussistenza delle condizioni di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilità2013).
L’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 (Testo unico delle spese di giustizia – TUSG) e, in particolare, il suo comma 1-quater, dispone che, «quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso».
La condanna del soggetto impugnante al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione crea un vincolo avente natura giuridica diversa dal contributo unificato, perché, mentre il contributo unificato è una tassa per lo svolgimento di un’attività giurisdizionale, il vincolo previsto dall’art. 13, comma 1-quater, TUSG è una sanzione pecuniaria processuale che con il contributo unificato-tassa ha in comune solo l’ammontare.
Le norme enunciate nel citato art. 13, comma 1-quater, si applicano anche nel giudizio tributario d’appello per le seguenti molteplici ragioni:
a) il TUSG si pone, in base al suo art. 1, come atto normativo ad oggetto generale, il quale è costituito dal genere “processo”, ossia è costituito da “tutti i processi”;
b) il principio di generalità dell’oggetto del TUSG è confermato dal suo art. 2, comma 1, per il quale le norme del TUSG valgono per tutti i processi, fatte salve solo le norme speciali, aventi ad oggetto un processo di specie, che siano munite di una clausola espressa di specialità; in altri termini, se una norma generale (quella sulla sanzione pecuniaria processuale per rigetto dell’impugnazione) non si dovesse applicare ad un processo di specie, come il processo tributario, nel TUSG si dovrebbe rinvenire una norma speciale di esclusione espressa di tale processo dall’applicazione della norma generale;
c) l’art. 13, comma 1-quater, TUSG non contiene né una clausola espressa di limitazione del suo oggetto ad un giudizio d’impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria né alcuna norma speciale riferita al giudizio tributario d’appello che escluda questo speciale giudizio dall’applicazione della sanzione pecuniaria processuale per rigetto dell’impugnazione;
d) la collocazione del comma 1-quater all’interno dell’art. 13 TUSG non può fungere da presupposto per il ricorso all’interpretazione topica, al fine di sostenere che la sanzione pecuniaria processuale dell’impugnazione rigettata si applica solo al giudizio d’impugnazione nella giurisdizione ordinaria e non si applica, invece, al giudizio d’appello tributario; tale preclusione si fonda su molteplici ragioni:
d)1) manca, come s’è rilevato sub c), la clausola espressa di specialità sia per la giurisdizione ordinaria sia per la giurisdizione tributaria;
d)2) le disposizioni normative che assumono come loro oggetto il processo tributario, facendo riferimento al contributo unificato, disciplinano in via di specialità, con clausola espressa, l’ammontare del contributo unificato-tassa, ma non mai la sanzione pecuniaria processuale dell’impugnazione rigettata, anche se essa solo per la sua quantificazione è oggetto di rinvio al contributo unificato-tassa;
d)3) l’art. 13 TUSG aveva, nella sua stesura originaria, una struttura molto semplice: il primo ed il sesto comma avevano ad oggetto tutti i processi, mentre gli altri commi avevano ad oggetto singoli processi speciali; il primo comma determinava l’ammontare del contributo unificato-tassa in base al criterio del valore; successivamente l’art. 13 è stato oggetto di una quindicina di interventi normativi, il più significativo dei quali, ai fini che qui interessano, è quello effettuato dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha inserito nell’art. 13 TUSG, con efficacia decorrente dal 31 gennaio 2013, il comma 1-quater, la sua rilevanza deriva dal fatto che in un comma dedicato alla determinazione dell’ammontare del contributo unificato-tassa s’è introdotto un istituto nuovo – la sanzione pecuniaria processuale per il rigetto dell’impugnazione – che nulla ha a che fare, sotto il profilo della natura giuridica con il contributo unificato-tassa; ne deriva la preclusione dell’utilizzazione del criterio dell’interpretazione topica del comma 1-quater;
d)4) la tesi qui oppugnata presenta, comunque, una grave lacuna metodica d’interpretazione normativa, perché essa applica il criterio interpretativo della legge basato, non solo sul significato delle parole usate dal legislatore, ma anche quello della loro connessione (art. 12, comma 1, preleggi), limitatamente al contesto rappresentato da un solo comma, il primo, di un solo articolo (il 13) di un solo atto normativo (il TUSG); ma la connessione tra le parole vincola a tener conto di ogni contesto rilevante, cosicché ogni singola parola usata dal legislatore dev’esser soppesata nel contesto dell’intero atto normativo in cui essa è usata, e, poi, del contesto dell’intera normazione, con particolare riguardo alle norme gerarchicamente scoordinate, come sono le norme costituzionali e quelle dell’ordinamento dell’Unione europea, a proposito delle quali vige il principio magis ut valeat;
e) quanto al contesto normativo costituzionale, non si può trascurare che, se si ritenesse di non dover applicare la sanzione pecuniaria processuale del rigetto dell’impugnazione al giudizio tributario d’appello, non sarebbe facile trovare una spiegazione compatibile con l’art. 3, primo comma, Cost. per l’orientamento, già consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui tale sanzione si applica nei riguardi del ricorrente per cassazione contro sentenze delle CTR che rimanga soccombente nel giudizio di legittimità;
f) se si considera, poi, che l’istituto della sanzione pecuniaria processuale ha come finalità quella di deflazionare il contenzioso in generale, non si vede la ragione per la quale tale finalità, rispondente a realizzare l’efficienza della giurisdizione (art. 97 Cost.) e il suo rapido esercizio (art. 101 Cost.), non meriterebbe di essere perseguita, a danno dei contribuenti e dell’amministrazione tributaria, nella giurisdizione tributaria;
g) se la sanzione pecuniaria processuale per il rigetto dell’impugnazione fosse esclusa dal processo tributario, ne risulterebbe violato il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), perché un medesimo cittadino sarebbe sottoposto a due trattamenti differenziati a seconda del comparto giurisdizionale in cui sia articolato l’esercizio della funzione giurisdizionale, contro la medesima finalità deflazionistica della sanzione e senza una ragionevole giustificazione.
Per questi motivi
La Commissione Tributaria Regionale di Roma – Sezione n. 4
Rigetta l’appello; condanna l’appellante alle spese del grado, che liquida in euro 2.000,00 per compensi. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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