COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di Roma sentenza n. 72 sez. 22 del 12 gennaio 2015
ACCERTAMENTO – ADESIONE AI VERBALI DI CONSTATAZIONE EX ART. 5 BIS D.LGS. N. 218/1997 – IMPUGNABILITA’ DEL SUCCESSIVO ATTO DI DEFINIZIONE
La Guardia di Finanza di Rieti, rilevato che la società Immobiliare M. s.r.l. aveva omesso di presentare la dichiarazione Modello unico 2010, per l’anno d’imposta 2009, procedeva a verifica che evidenziava ricavi contabilizzati e non dichiarati per € 265.000,00, Iva dovute per € 15.700,00 e Irap per € 1.923,00, oltre sanzioni e interessi.
La società, avvalendosi del disposto dell’art. 5 bis del D.Lgs. n. 218/1997, in data 12/07/2012 presentava istanza di adesione ai contenuti del verbale, beneficiando della riduzione delle sanzioni.
Di conseguenza, l’Ufficio emetteva atto di definizione per il recupero delle imposte e delle sanzioni sulla base del processo verbale di constatazione, alla quale la parte aveva aderito.
Contro l’atto di definizione presentava ricorso la società facendo rilevare che dal controllo eseguito era incontrovertibilmente emerso che l’omessa presentazione del Modello Unico 2010 era avvenuta per pura disattenzione del depositario delle scritture contabili e che le imposte dovute erano state regolarmente versate, tenendo conto dei costi sostenuti.
L’Ufficio nel costituirsi eccepiva, pregiudizialmente, l’inammissibilità del ricorso, in quanto l’atto di definizione non è incluso tra quelli impugnabili, ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 e, nel merito, insisteva sulla correttezza del proprio operato.
La Commissione Tributaria Provinciale di Rieti, uniformandosi alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, riteneva ammissibile il ricorso e lo accoglieva nel merito, considerato che non erano emerse irregolarità nella contabilità, che gli accertatori non avevano tenuto in conto i costi sostenuti. E che le imposte erano state versate.
Contro la decisione proponeva appello l’Agenzia delle Entrate Dir. Prov. di Rieti lamentando tre errori della sentenza: 1 – ammissibilità della impugnativa dell’atto di definizione, in violazione di legge ed in assenza di vizi nella volontà di manifestazione di aderire al contenuto integrale del P.V.C.; 2 – indebita ed erronea valutazione dei rilievi esposti nel P.V.C.; 3 – indebita sostituzione nel potere accertativo dell’Ufficio.
Quanto al primo motivo l’appello illustra le procedure previste in caso di adesione che non sarebbero state rispettate dalla contribuente e insiste sulla inammissibilità del ricorso nei confronti di un atto non annoverato tra quelli impugnabili ai sensi dell’art. 19 D.Lgs. n. 546/92, in tal senso richiamava la sentenza 10086/2009 della Corte di Cassazione.
Nel merito l’appellante contesta di aver male trasposto il contenuto del verbale nel successivo atto di definizione e sostiene che l’acquiescenza della società al P.V.C., ha cristallizzato, anche per l’Ufficio l’intero contenuto del P.V.C., che in mancanza di detta acquiescenza lo avrebbe pienamente legittimato a procedere ad accertamento induttivo, con il quale avrebbe potuto verificare la esattezza, coerenza e competenza dei costi emergenti nelle scritture, o applicare una deduzione forfettaria dei componenti negativi di reddito, o applicare una percentuale di ricarico superiore, determinando, in tal modo, maggiori ricavi da assoggettare a tassazione.
Infine, secondo l’appellante, la CTP con la sentenza si era sostituita all’Ufficio operando un accertamento non di sua competenza. I costi potevano essere solo riconosciuti dall’Ufficio e non necessariamente nella misura indicata dalla ricorrente. Resisteva l’appellata contestando le argomentazioni dell’appellante e la sua non corretta ricostruzione dei fatti.
La Commissione Tributaria Regionale del Lazio ritiene che correttamente la sentenza di primo grado ha ritenuto impugnabile l’atto di definizione. È, infatti, da condividere la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che interpreta estensivamente il dettato dell’art. 19 D.Lgs. n. 546/92, ritenendo impugnabili gli atti che indipendentemente dal loro nome contengano una pretesa tributaria nei confronti del contribuente, come nel caso in esame.
Anche nel merito l’appello deve essere rigettato. L’Ufficio, nell’emettere l’atto di definizione, non ha considerato i costi che pure sono stati indicati dal contribuente nel PVC, come riconosciuto dalla G.d.F. nella nota del 13/11/2012. In tale quadro non appare fondata neppure la lamentela dell’appellante circa un’indebita sostituzione della C.T.P. nel potere accertativo a lui spettante. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 15825/2006; n. 16252/2007; n. 13868/2010; n. 13132/2010) essendo il processo tributario annoverabile non tra i processi di ‘impugnazione/annullamento’, ma fra quelli di ‘impugnazione/merito’, in quanto non diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva, il giudice, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare il merito della pretesa tributaria.
Considerate la non usuale genesi del contenzioso e la novità della materia trattata ricorrono validi motivi per compensare le spese tra le parti.
P.Q.M.
Rigetta l’appello. Spese compensate.
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