COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Liguria sez. 1 sentenza n. 175 depositata il 7 febbraio 2017
ACCERTAMENTO – Società di comodo – interpello disapplicativo – diniego – impugnabilità – consentita – circostanze oggettive che rendono impossibile il raggiungimento dei ricavi minimi presunti – fattispecie
Massima:
Il diniego di disapplicazione della disciplina delle società di comodo è il primo atto con il quale l’Amministrazione Finanziaria porta a conoscenza del contribuente il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta relativa ad un rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere sulla condotta del contribuente relativamente alla dichiarazione dei redditi concernente quello dell’inoltro dell’istanza. Pertanto, è riconducibile a quegli atti che, pur non essendo tipizzati nell’art. 19 del DLGS 546/92, portano a conoscenza dei contribuente una ben individuata pretesa tributaria essendo, come tali, facoltativamente impugnabili.
Il momento di forte contrattura del mercato e la particolare tipologia delle unità immobiliari oggetto dell’attività della società accertata, se incidono sulla possibilità di collocarli facilmente sul mercato, costituiscono circostanze oggettive di impossibilita a raggiungere i livelli minimo di reddito imposti dalla legge, consentendo la disapplicazione della disciplina delle società di comodo.
OGGETTO DELLA DOMANDA-SVOLGIMENTO DEL PROCESSO-MOTIVI DELLA DECISIONE
L’Agenzia delle Entrate di Genova appella avverso la sentenza n. 1971/3/14 della Commissione Tributaria provinciale di Genova che aveva accolto il ricorso della società Immobiliare R. S. s.p.a, eccependo quanto segue.
La questione riguarda il diniego dell’ufficio all’istanza presentata dalla società di interpello disapplicativo dell’art. 30 della L. 724/94, per non aver raggiunto i limiti ivi previsti.
Secondo l’ufficio i primi giudici hanno superato la pregiudiziale di inammissibilità del ricorso sollevata dall’odierna appellante, richiamando la sentenza n. 17010/2012 della Corte di Cassazione.
In essa, in pratica, pur confermandosi che la risposta negativa all’interpello non rientra tra gli atti impugnabili ex art. 19 del DLGS 546/92, ne viene ritenuta possibile l’impugnabilità, trattandosi di un atto che porta a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria.
Una tale impostazione si scontra però con le affermazioni della stessa Corte, laddove riconosce la possibilità per il contribuente di non adeguarsi alla risposta dell’ufficio (sent. 11929/20149).
Evidenziata tale contraddittorietà l’ufficio ribadisce l’inammissibilità del ricorso introduttivo non solo perché ha ad oggetto un atto non impugnabile, ma anche perché manca un interesse ad agire di fronte ad un atto con le caratteristiche evidenziate dalla sentenza n. 11929/2014.
Trattasi infatti di un atto non vincolante, che ha il semplice valore di un parere; la risposta all’interpello non ha alcuna natura impositiva, né comporta alcuna specie di obbligo per il contribuente che è assolutamente libero di conformarsi o meno alla risposta.
La risposta all’interpello è allora ben lungi dal costituire una forma, anche embrionale, di accertamento o pretesa di maggior reddito.
Richiama giurisprudenza al riguardo.
Per quanto concerne il merito, contesta la motivazione dei primi giudici, laddove ritengono che il momento di forte contrattura del mercato e la particolare tipologia delle unità immobiliari della società costituiscono circostanze oggettive di impossibilità a raggiungere i livelli minimo di reddito imposti dalla legge.
Per quanto sia innegabile che il mercato immobiliare abbia subito una forte contrazione, non si può considerare un tale fatto come preclusivo di ogni possibilità di vendita o locazione.
E’ innegabile, secondo l’ufficio, che, ritoccando al ribasso il prezzo o il canone preteso o assumendosi l’onere della trasformazione della destinazione specifica dell’immobile si sarebbe potuto trovare un acquirente o un locatario.
Alla luce di quanto sopra chiede, in via pregiudiziale, la declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo, in quanto relativo ad atto non impugnabile nonché per mancanza di interesse ad agire e in subordine, nel merito, di dichiarare la legittimità della risposta all’interpello disapplicativo, per l’infondatezza della relativa istanza, con vittoria delle spese di giudizio.
DIRITTO
L’appello dell’ufficio non è meritevole di accoglimento e pertanto deve essere integralmente confermata la sentenza di 1° grado.
Al fine di esplicitare l’ “iter” logico-giuridico che ha consentito di pervenire all’esito di cui sopra, la Commissione evidenzia che il contenzioso all’esame riguarda due problemi, ovvero, se sussista l’inammissibilità del ricorso avverso la risposta negativa all’interpello, non essendo un atto ricompreso nell’elenco di cui all’art. 19 del DLGS 546/92 e il merito della controversia.
Per quanto riguarda la prima problematica vi sono tesi contrastanti dell’Agenzia delle Entrate e del Consiglio di Stato, che ritengono non impugnabile la risposta all’interpello disapplicativo, mentre la Corte di Cassazione, (per tutte la citata 17010/2012) afferma l’impugnabilità, non obbligatoria ma facoltativa, degli atti che, pur non essendo tipizzati nell’art. 19 del DLGS 546/92, portano a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria.
Il diniego di disapplicazione è quindi il primo atto con il quale l’amministrazione Finanziaria porta a conoscenza del contribuente il proprio convincimento in ordine a una specifica richiesta relativa a un rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere sulla condotta del contribuente relativamente alla dichiarazione dei redditi concernente quello dell’inoltro dell’istanza.
Pertanto l’eccezione di inammissibilità dell’ufficio deve essere respinta, riguardando tra l’altro l’anno 2012, prima della riforma in materia.
Nel merito la Commissione non può esimersi dal rilevare che la CM n. 5/E/2007 e quella n. 44/E/2007 esemplificano alcune circostanze che possono comportare la disapplicazione della normativa e non prendono in considerazione in primo luogo il crollo dei valori del mercato immobiliare, che ha determinato la gravissima crisi del settore.
Quindi, come peraltro acutamente rilevato dai primi giudici, il mancato raggiungimento della media dei ricavi per superare il test di operatività deriva dal fatto che la maggior parte degli immobili della società sono stati sfati durante il 2012 e ciò in conseguenza, oltreché della crisi del settore sopra evidenziata, anche della particolare tipologia delle unità immobiliari, di assai difficile collocazione sul mercato senza onerose trasformazioni.
Alla luce di quanto sopra l’appello dell’ufficio deve essere respinto e per l’effetto confermata la sentenza di 1° grado.
Per quanto riguarda le spese di giudizio, la Commissione, alla luce delle diverse e contrastanti interpretazioni della giurisprudenza, che peraltro hanno portato alla riforma del sistema ritiene che sussistano le gravi e eccezionali ragioni di cui all’art. 15 del DLGS 546/92 e che pertanto le medesime debbano essere compensate.
La Commissione rigetta l’appello dell’ufficio e per l’effetto conferma la sentenza di 1° grado. Spese
compensate.
Genova 23 gennaio 2017
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