COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di Torino sentenza n. 1436 sez. 1 del 25 novembre 2016
IVA – VIOLAZIONI DELL’OBBLIGO DI FATTURAZIONE – RICEZIONE FATTURA IRREGOLARE – CESSIONARIO – OBBLIGO DI REGOLARIZZAZIONE – OPERATIVITA’
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.1. – L’Agenzia della entrate, Direzione provinciale II di Torino, propose, con atto direttamente notificato a controparte il 12 giugno 2015, ricorso per la riforma della decisione 2329/11/14 resa dalla Commissione tributaria provinciale di Torino l’8 ottobre 2014 e depositata in segreteria il 16 dicembre 2014. Ne consegnò copia, ai fini della costituzione in giudizio, il 14 aprile 2014 alla segreteria di questa commissione.
Espose di aver emesso nei confronti di controparte avviso di accertamento sulla scorta di p.v.c. formato della Guardia di finanza con i seguenti rilievi:
a) omessa autofatturazione. Riferì che controparte, nel periodo di imposta 2009, non regolarizzò, incorrendo nella violazione di.cui al disposto del co. 8 art. 6 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, l’imposta relativa al corrispettivo di Euro 1.822.545,56 da essa ritenuto non imponibile ai sensi del co. 1 dell’art. 15 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. In altri termini che C. S.p.a. emise la fattura (…) dicembre 2009, n. 358 con addebito, ad un suo appaltatore, della somma in parola a titolo di “riconoscimento del danno”, denaro poi trasferito alla società consortile G. S.c.a.r.l. (riconducibile alla contribuente), che, a sua volta, emise la fattura (…) dicembre 2009 n. 20 nei confronti della C. S.p.a. con la descrizione “saldo ribalto costi di natura risarcitoria non imponibile ai sensi dell’art. 15 comma 1 D.P.R. n. 633 del 1972”. In altri termini sostenne che il riaddebito dei costi da parte di una società consortile alle società consorziate costituisse un’operazione imponibile ai fini I.V.A. (ex art. artt. 3 e 13 del D.P.R. n. 633 del 1972 cit.) e che pertanto controparte, non avendo effettuato la regolarizzazione, violò la norma suddetta;
b) ritenute a garanzia. Rimarcò di aver rettificato, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e ai fini delle imposte dirette, gli importi relativi a ritenute a garanzia rilevandone l’indeducibilità;
c) consulenze legali: riferì di aver rettificato la dichiarazione avendo controparte dedotto costi non di competenza;
d) cauzione: espose di aver accertato un maggior reddito per aver controparte dedotto costi non idoneamente documentati.
Narrò quindi che la società impugnò il suddetto avviso di accertamento prestando acquiescenza relativamente alle riprese di cui alle lettere b) (per la parte relativa all’Ires), c) e d). Per quanto concerne invece la prima rettifica contestata riferì come, secondo la ricorrente, il disposto del co. 8 cit. comportasse il solo obbligo di supplire alle mancanze dell’emittente in ordine all’identificazione dell’atto negoziale ed alla notizia dei dati di fatto fiscalmente rilevanti e non invece anche quello di controllare e sindacare le valutazioni giuridiche espresse dall’emittente circa la non debenza dell’imposta. Inoltre che la collettiva, richiamata la giurisprudenza di Cassazione (sent. 5 dicembre 2001 n. 15349), asserì che l’imposta versata dal cessionario, al fine di sottrarsi alla responsabilità nel caso di mancata ricezione della fattura, non avrebbe comunque potuto essere chiesta dall’Ufficio al cedente. Infine che contestò la ripresa relativa alla ritenuta a garanzia per quanto concerne l’imposta sul valore aggiunto.
Soggiunse poi che la commissione di primo grado accolse il ricorso e che avverso tale decisione propose quale motivo di doglianza l’inapplicabilità degli arresti giurisprudenziali citati. In altri termini rimarcò come il giudice di prime cure avesse basato la sua decisione sulla scorta di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo il quale, nell’ordinario rapporto cliente – cessionario, non gravasse su quest’ultimo, in base alla previsione del co. 8 cit., l’obbligo di verificare e sindacare le valutazioni giuridiche espresse dall’emittente allorché quest’ultimo inserisca (in modo erroneo) l’esplicita dichiarazione di non debenza dell’imposta. Lamentò in particolare come il collegio di prime cure non avesse però considerato alcune circostanze rilevanti. In primis il rapporto intercorrente tra i soggetti essendo, nel caso in giudizio, fornitore il consorzio G. s.c.a.r.l. costituito dalle consorziate C. S.p.a. e C. S.p.a.. Vale a dire soggetti in possesso degli stessi elementi conoscitivi al contrario della situazione sottesa alle pronunce richiamate nella quale vi sarebbe stata sempre una asimmetria informativa tra i due soggetti (ovvero tra cliente e fornitore). Sottolineò poi come nel caso in giudizio a seguito della formalizzazione, da parte dell’associazione temporanea d’impresa (costituita da C. S.p.a. e da C. S.p.a.) e della stazione appaltante, dell’accordo bonario di cui all’art. 240 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, furono la C. S.p.a. e la C. S.p.a. ad emettere, per prime, l’11 dicembre 2009 le fatture nn. (…) nei confronti della S.C.R. P. S.p.a. (vale a dire della stazione appaltante). Ovvero documenti contenenti entrambi la stessa causale: “corrispettivo relativo alla risoluzione riserve ai sensi dell’art. 240 del D.Lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 di importo…”, così suddiviso: “importo per sorte riconosciuta a titolo di corrispettivo Euro… di cui nostra quota… Euro” e importo per riconoscimento del danno (escluso dalla base imponibile ai sensi dell’art. 15 comma 1 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e S.m. i.) Euro… di cui nostra quota… Euro… “. Inoltre che, solo il 23 dicembre 2009, la G. S.c.a.r.l. emise, nei confronti di C. S.p.a. e di C. S.p.a., rispettivamente, le fatture nn. 19 e 20 riportanti le causali dei documenti precedentemente emessi dalle consorziate. In definitiva asserì che la valutazione giuridica circa la non imponibilità ai fini dell’imposta sul valore aggiunto delle somme ricevute a seguito della formalizzazione dell’accordo bonario fu compiuta in primo luogo proprio dalle componenti l’associazione temporanea d’impresa (nonché consorziate della G. s.c.a.r.l.) e, solo successivamente, dal consorzio il quale mutuò e trasfuse nelle sue fatture la valutazione circa la non debenza del tributo. A rinforzo della sua tesi sottolineò la promiscuità delle cariche sociali negli enti coinvolti nella vicenda essendo stato F.R. dal 27 dicembre 2011, il rappresentante legale della G. s.c.a.r.l. nonché, dal 21 febbraio 2003, procuratore della C. S.p.a.. Rimproverò così il collegio di prime cure di non aver considerato che “il comportamento del cessionario o committente non è preventivamente definibile, ma deve essere valutato caso per caso”.
1.2. – C. S.p.a., in persona del suo legale rappresentante A.F., con nota depositata il 14 dicembre 2015 si costituì in giudizio e riesposti i fatti di causa, nella sostanza quelli rappresentati da controparte, propose le sue controdeduzioni.
In particolare evidenziò come non potesse essere condiviso quanto asserito da controparte essendo i soggetti coinvolti dotati di indiscutibile soggettività giuridica. In altri termini come essendo soggetti distinti le consorziate non avrebbero potuto vagliare criticamente il contenuto dei documenti ricevuti.
All’odierna pubblica udienza, udita dal relatore l’esposizione dei fatti e dei motivi del ricorso, ascoltate le parti presenti illustranti le loro posizioni processuali, la Commissione decise il giudizio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2.0. – Il ricorso non merita accoglimento.
2.1. – Deve innanzi tutto essere rilevato che avendo l’Ufficio rettificato, a favore del contribuente, l’avviso di accertamento per quanto concerne il rilievo afferente all’imposta sul valore aggiunto relativa alle garanzie, oggetto dell’attuale contendere è l’applicazione del suddetto co. 8 cit. al caso in giudizio.
2.2. – In merito all’oggetto della controversia questo collegio prende atto innanzi tutto che è pacifico che per entrambe le parti quest’ultima debba essere risolta facendo riferimento al sopra citato orientamento di legittimità. Vale a dire che: “L’art. 41 quinto comma lett. b) del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (riformulato dal D.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24 e dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in L. 27 aprile 1989, n. 154, poi abrogato dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 e sostituito dalle disposizioni dell’art. 6 di quest’ultimo), in base al quale il cessionario di un bene od il committente di un servizio, ricevendo fattura irregolare, é tenuto a “regolarizzare l’operazione”, con la presentazione di un documento integrativo contenente tutte le indicazioni prescritte dall’art. 21 e con il versamento dell’imposta dovuta, restando soggetto in caso d’omissione pure a sanzione pecuniaria, implica l’obbligo di supplire alle mancanze commesse dall’emittente in ordine all’identificazione dell’atto negoziale ed alla notizia dei dati di fatto fiscalmente rilevanti, non anche di controllare e sindacare le valutazioni giuridiche espresse dall’emittente medesimo, quando, in fattura recante l’esatta annotazione di tutti i suddetti estremi, inserisca l’esplicita dichiarazione di non debenza dell’imposta (dichiarazione prevista dal sesto comma di detto art. 21), indipendentemente dalla questione della tassabilità o meno dell’operazione” (cfr. Cass. sent. 18 febbraio 2000, n. 1841).
Inoltre che: “rispetto al rapporto tributario tra soggetto passivo ed Erario, il soggetto obbligato in rivalsa è terzo estraneo, venendo ad integrare l’obbligo di rivalsa un rapporto giuridico, di diritto civile devoluto pertanto alla cognizione del Giudice ordinario, del tutto autonomo e distinto da quello tributario. In relazione a tale configurazione dei rapporti giuridici tra soggetto passivo, Erario e soggetto obbligato in rivalsa, quest’ultimo non può essere chiamato (escluso ovviamente il caso di frode) a rispondere personalmente per eventuali inadempimenti della obbligazione tributaria che fa capo esclusivamente al soggetto passivo, ma può essere invece chiamato a rispondere sul piano sanzionatorio per colpevole inosservanza di obblighi di condotta che, pur attenendo alla regolarità formale del rapporto privatistico con il cedente/prestatore (qual è l’obbligo di emissione della fattura), vengono a riverberare “ab externo” sulla corretta attuazione del distinto rapporto tributario. In tale contesto si colloca il controllo richiesto al cessionario/committente sulla regolarità formale della operazione dallo stesso effettuata con il cedente/prestatore, in relazione alla fattura emessa da quest’ultimo, condotta richiesta al cessionario/committente la cui inosservanza integra illecito tributario ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8.
Tale norma sanzionatoria definisce i limiti oggettivi della condotta “esigibile” dal cessionario/committente (in quanto riconducibile alla sfera di controllo di quest’ultimo), configurando due diverse fattispecie. Fermo l’obbligo ex lege del soggetto passivo di emettere fattura (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21) cui è condizionata anche l’attuazione del rapporto privatistico avente ad oggetto l’esercizio del diritto di rivalsa (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 18, commi 1 e 4: cfr. Corte Cass. Sez, 2, Sentenza n. 17876 del 23/07/2013), al cessionario/committente è prescritto di verificare la regolarità formale della operazione in relazione: a) alla mancata ricezione della fattura nei termini di legge; b) alla ricezione di una fattura “irregolare”. Orbene, mentre nella prima delle due ipotesi considerate, la norma presuppone che il cessionario/committente “nell’esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni o servizi” (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, prima parte), e cioè presuppone la incontestata riconducibilità del rapporto intercorso tra le parti ad una delle operazioni – astrattamente – assoggettabili ad IVA, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 1, venendo ad essere in conseguenza limitato il controllo del cessionario/committente alla osservanza da parte del cedente/prestatore del termine entro il quale la fattura deve essere rilasciata, come è dato evincere dal riferimento cronologico che riveste elemento essenziale nella fattispecie omissiva (mancata ricezione della fattura “nei termini di legge”), diversamente, nella seconda ipotesi contemplata dalla norma sanzionatoria, il “controllo” richiesto al cessionario/committente è intrinseco al documento, in quanto limitato alla “regolarità formale” della fattura e dunque alla verifica dei requisiti essenziali individuati nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, tra cui i dati relativi alla natura, qualità, quantità dei beni e servizi, l’ammontare del corrispettivo, l’aliquota, l’ammontare della imposta e dell’imponibile (…). Dal tenore della norma sanzionatoria deve, invece, escludersi che sia richiesto al soggetto che riceve la fattura anche un controllo di natura sostanziale in ordine alla corretta qualificazione fiscale della operazione, tenuto conto che il riferimento alla “maggiore imposta eventualmente dovuta” (D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, lett. b), quale condizione cui è subordinata la regolarizzazione della fattura e la esenzione del cessionario/committente dalla irrogazione della sanzione pecuniaria, induce a ritenere collegata detta condizione alla irregolarità dei dati – che presuppongono la “irregolare” liquidazione, in misura inferiore al dovuto, della imposta – risultanti dallo stesso documento (aliquota, ammontare della imposta, imponibile), non avendo invece subordinato il Legislatore la esenzione dalla sanzione anche alla condizione del pagamento della intera imposta (non versata dal cedente/prestatore), che si sarebbe reso necessario qualora si fosse voluto estendere il controllo del cessionario/committente anche alla valutazione della qualificazione fiscale della operazione (e quindi, nel caso di specie, alla valutazione giuridica della operazione illegittimamente fatturata dall’emittente con annotazione di “non imponibilità”)” (Cass. Sent. 12 dicmebre 2014, n. 26183).
Orbene applicando il suddetto orientamento questo collegio non può che rilevare come, non essendo dall’Ufficio prospettato un caso di frode, nessun controllo di merito dovesse essere svolto dalla ricorrente. Né può aver pregio il fatto che quello in parola altro non fosse che un riaddebito di costi essendo nella sostanza i soggetti distinti ed autonomi uno dall’altro, pena lo svolgimento di una analisi per nulla prevista dall’insegnamento della Cassazione.
In definitiva il ricorso in appello non merita accoglimento e la decisione resa dal collegio di prime cure deve essere confermata.
2.4. – La novità e complessità della materia è giusto motivo per compensare le spese della lite.
P.Q.M.
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del PIEMONTE
Sezione I
visti gli artt. 61 e 35 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 cosi decide:
respinge
l’appello.
Spese compensate
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