COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per il Veneto sentenza n. 1611 sez. 1 depositata il 26 ottobre 2015
Massima
Il giudice veneto ha emesso una interessante pronuncia su un caso di comportamento elusivo adottato da una ditta importatrice di merci extra UE. La sentenza, in riforma di quanto stabilito dai giudici in primo grado, afferma che la sosta per un limitato lasso di tempo della merce in un paese diverso da quello di origine non è sufficiente a generare una “nuova origine” della stessa. Secondo i giudici, una volta accertata la totale assenza di trasformazione della merce nel paese di trasbordo, la dichiarazione di origine della merce da quel paese non può che configurare una ipotesi di comportamento elusivo del pagamento del dazio dovuto nel caso di importazione dal paese di reale origine della merce.
FATTO
La Ditta V.E. S.P.A., rappresentata in Dogana dal C.T.S. s.r.l. quale spedizioniere doganale, importava dalla Malesia, come da bolletta doganale di importazione in data 27.10.2010, una partita di elementi di fissaggio -viti, dadi e bulloni- (gia’ di provenienza cinese) dichiarandoli di origine malese ed accompagnandoli con Certificato di Origine, rilasciato dalle Autorita’ Malesi, che veniva allegato alla bolletta.
All’atto dell’importazione non veniva richiesto ne’ corrisposto alcun dazio ne’ tanto meno quello antidumping poiche’ all’epoca l’importazione di elementi di fissaggio dalla Malesia era esente da dazio e il dazio antidumping riguardava solo le importazioni dalla Cina (misura istituita con il Reg. CE 91/2009).
A quella data non era stato ancora emanato il Reg. 723 del 18.7.2011 che estese il dazio antidumping per l’importazione di detta merce dalla Malesia ne’ era stato adottato il Reg. 966/2010 che istitui’ l’inchiesta per appurare l’eventuale elusione attraverso la Malesia del dazio imposto sulle importazioni dalla Cina della medesima merce e contemporaneamente impose la registrazione delle importazioni predette al fine di, ove l’inchiesta avesse concluso per l’accertata elusione, estendere retroattivamente il dazio antidumping per l’importazione della predetta merce dalla Malesia.
Con processo verbale di revisione dell’accertamento nell’ottobre 2012 la Dogana di Venezia, ritenuto che l’OLAF -a seguito della predetta inchiesta- aveva accertato una evasione dei dazi antidumping sulle importazioni di elementi di fissaggio in acciaio cinese proveniente da specifici esportatori cinesi sicche’ i certificati di origine malesioni dovevano ritenersi falsi perche’ rilasciati sulla base di informazioni errate comunicate alle Autorita’, per cui l’importazione da parte della V.E. in data 27.1.201O riguardava materiale di origine cinese e non malese, provvedeva ad effettuare la revisione della bolla doganale predetta, con recupero del maggior dazio, del dazio antidumping, dell’IVA.
Il conseguente avviso di accertamento e di rettifica veniva notificato nel dicembre 2012 sia alla V.E. che al C.T.S., ritenuta responsabile solidale; successivamente veniva notificato ad entrambe l’atto di irrogazione della sanzione per infedele dichiarazione -resa all’atto dell’importazione della merce come proveniente dalla Malesia- (ex art. 303 TULD).
I predetti atti vennero impugnati dalle Ditte destinatarie facendo valere vari motivi di censura.
A- in relazione agli avvisi di accertamento:
-difetto di motivazione con riferimento all’attribuita responsabilita’ solidale;
-nel merito: insussistenza dei presupposti per l’applicazione del dazio antidumping sulla merce importata sulla ritenuta falsita’ dell’origine malese delle merci importate sulla base dell’inchiesta dell’OLAF (l’organismo europeo di verifica) aperta nel 2010 – con il Reg. dell’Ott. 2010-, essendo avvenuta l’importazione in data precedente (nel gennaio 2010);
-carenza di motivazione e mancanza di prova dei presupposti di legge ex art. 220 CDC per procedere alla revisione.
A- in relazione all’atto sanzionatorio:
– carenza ed erroneita’ della motivazione;
– illegittimita’ per infondatezza della contestazione del fatto;
– errata applicazione dell’art. 303 TULD;
– mancanza di colpa;
– illegittimita’ per carenza di motivazione in ordine ai presupposti per irrogare le sanzioni. L’Ufficio delle Dogane di Venezia, ritualmente costituito, dava conto della legittimita’ dei provvedimenti e provvedeva a depositare (anche in vista dell’udienza di sospensione) i documenti a base degli atti impugnati.
La CTP di Venezia, previa sospensione dell’efficacia degli atti impugnati, con sentenza n. 573 del 8.10.2013 ha accolto i ricorsi riuniti ritenuto che, per espressa dizione del legislatore europeo, il dazio antidumping, esteso alle merci (di cui e’ causa) provenienti dalla Malesia (e prima riguardante solo le importazioni dalla Cina), potesse dispiegare efficacia retroattiva solo dopo l’emanazione del Reg. 966/2010 nel mese di ottobre di quell’anno, laddove le operazioni di importazione in esame erano avvenute il 27.1.2010.
Avverso tale sentenza si e’ gravato con appello l’Ufficio evidenziando che il provvedimento di accertamento e’ in realta’ diretto a colpire l’elusione che con il meccanismo della falsa importazione dalla Malesia era stato posto in essere dalle ricorrenti, sicche’ i presupposti del provvedimento impositivo poggiano piu’ che sull’estensione retroattiva del dazio antidumping alle merci in parola provenienti dalla Malesia sulla indubbia elusione fiscale che le false dichiarazioni di provenienza hanno cagionato.
Ribadisce poi l’appellante tutte le osservazioni gia’ espresse in primo grado sulle varie censure sollevate dalle ricorrenti e da’ menzione di aver depositato la regolare documentazione a base dell’accertamento in esame. Con richiesta di riforma e spese del giudizio.
Si sono regolarmente costituite con memoria le parti appellate V.E. e C.T.S. con dettagliate indicazioni normative ed in fatto, che nessuna norma, al momento dell’importazione, sanciva la sottoposizione delle relative operazioni al dazio antidumping; ribadisce poi le altre censure gia’ sollevate in primo grado ed assorbite dalla decisione di quel Giudice.
Con richiesta di conferma e spese.
DIRITTO
L’appello delle Dogane va accolto e, per l’effetto, la sentenza impugnata va riformata.
In via preliminare il Collegio deve osservare che sia il processo verbale di revisione dell’accertamento (notificato alle societa’ contribuenti con Racc. R.R., essendosi rifiutato di firmare il rappresentante della parte) sia l’avviso di accertamento suppletivo e di rettifica che l’atto di irrogazione delle sanzioni danno evidenza, riassumendone i contenuti, di tutti il percorso certificativo intervenuto tra la Dogana Italiane e le Autorita’ Europee in ordine alla verifica dei fatti poi addebitati alle incolpate; in particolare, vengono riassunte le indagini compiute dall’OLAF.
Inoltre, in sede di costituzione in giudizio e poi in sede di memoria in vista dell’udienza fissata per la misura cautelare, l’Agenzia delle Dogane aveva provveduto a depositare prima la Bolletta di importazione del 27.1.2010 con relativa fattura, il p.v. di revisione dell’accertamento, l’atto di revisione dell’accertamento, l’atto di irrogazione delle san zioni, il certificato Form A, la Copertina del Report dell’OLAF, poi l’attestazione della partecipazione della Malesia alle operazioni di verifica, la relazione completa dell’OLAF, due note interne (del 3.2 e del 18.9.2012 con allegati i relativi fogli descrittivi) riportanti in dettaglio le conclusioni delle indagini dell’OLAF e delle informazioni ricevute dalle autorita’ malesi con l’indicazione dettagliata delle varie operazioni d’importazione investigate e delle ditte interessate, fra le quali risultano quelle oggetto dell’accertamento impugnato.
Da quanto sopra risulta provato:
a – l’assenza di qualsivoglia intervento di lavorazione in Malesia della merce proveniente dalla Cina, idoneo a supportare la conclusione che trattavasi di merce di origine malese;
b – che la merce, anche se aveva attraversato la free-zone malese di Port Klang, era comunque di origine cinese;
c – che l’OLAF (i cui verbali fanno fede fino a querela di falso) aveva accertato una limi tata permanenza (circa 24 ore) della merce di origine e provenienza cinese nella suddetta Free Zone, durante la quale si era proceduto al mero trasbordo del container della merce diretta alla V.E., senza subire alcun processo di trasformazione;
d – che, come rilevasi dal sito istituzionale delle Autorita’ di Port Klang (luogo del trasbordo), “secondo le leggi e le regole malesi sulle zone franche solo le attivita’ commerciali come le transazioni, il riconfezionamento, la rietichettatura ed il transito sono consentiti nelle Free Zone”, mentre e’ “vietata qualsiasi forma di fabbricazione e di attivita’ produttiva” (all. 9 memorie ufficio in primo grado).
Tanto premesso, osserva il Collegio che, attraverso l’esame degli atti impugnati, si rileva che la pretesa dell’Ufficio si fonda sull’applicazione del Reg. CE 91/2009 (istitutivo del dazio antidumping sulle importazioni di determinati elementi di fissaggio in ferro o acciaio originari della Repubblica popolare cinese) e non gia’ sul successivo regolamento del 2012 che estese tale dazio anche alle importazioni “tout court” provenienti dalla Malesia.
E’ pertanto del tutto fuorviante inoltrarsi sulla data di efficacia del nuovo regolamento, mai assunto dall’Ufficio impositore a fondamento della pretesa azionata.
Tale pretesa trova origine dal concreto esame delle operazioni di importazione effettuate, il cui risultato ha generato una elusione fiscale di sicuro interesse economico per i suoi attori protagonisti; con cio’ ponendo in essere non solo un comportamento evasivo ma anche una insanabile lesione del principio di concorrenza leale, entrambi di rilievo sia comunitario che nazionale (art. 37bis DPR 600/1973).
L’art. 37bis citato costituisce invero applicazione del generale principio antielusivo, la cui applicazione e’ stata piu’ volte rimarcata dalla Corte di Cassazione, pur non espressamente codificato.
La giurisprudenza di legittimita’ rinviene la sua fonte negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario; e’ stato in tal senso specificato che “il contribuente non puo’ trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale (Cass. SS.UU,. n. 30055 del 23.12.2008, n. 30056 stessa data, Cass. V 21221 del 29.6.2006); conferma Cass. V 17.10.2008 n. 25734, che ha sancito il principio che “vi e’ abuso del diritto in diritto tributario qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale di una operazione; il divieto di tale abuso e’ una clausola generale antielusiva, di matrice comunitaria, che riguarda l’intera materia tributaria, e dev’essere applicato d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio”, per cui “incombe al contribuente la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti con carattere non meramente marginale o teorico” (Cass. V 8772/2008).
E dunque, va affermato che il nucleo essenziale dei comportamenti elusivi e’ l’utilizzare scappatoie formalmente legittime allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici, ottenendo vantaggi che il sistema ordinariamente non consente ed indirettamente disapprova.
In definitiva e tornando alla fattispecie in esame, il Collegio non nutre dubbi che la sosta e il trasbordo, nel giro di 24 ore (come da documentazione), della merce nella zona di porto franco malese, senza subire alcun processo di lavorazione e/o di trasformazione, non ha generato una “nuova origine” della merce, che era e resta di provenienza cinese.
Si tratta pertanto (lo si ribadisce), per l’ordinamento comunitario e per l’ordinamento intemo italiano, di comportamenti costituenti abuso del diritto e volti a consentire l’elusione fiscale.
Quanto alle altre censure:
a – la responsabilita’ solidale sussiste, avendo entrambe le parti attivamente partecipato alle attivita’ (compresa la dichiarazione mendace alle autorita’ malesi e all’autorita’ italiana) volte ad ingenerare l’elusione fiscale;
b – la partecipazione al procedimento amministrativo di accertamento risulta comprovata, durante il quale l’appellata si astenne dal presentare osservazioni concrete;
c- la sanzione irrogata trova il necessario presupposto nel comportamento doloso delle contribuenti.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Decidendo sull’appello in oggetto, ogni contraria istanza ed eccezione reietta, cosi dispone;
1- accoglie l’appello dell’Ufficio e, in riforma della sentenza appellata, dichiara legittimi tutti i provve4imenti impugnati;
2- condanna le appellate alle spese del giudizio, per entrambi i gradi, che liquida in complessivi euro 4.500,00, con carico solidale.
Cosi’ deciso in Venezia li’ 8.10.2015
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