La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23387 depositata il 15 ottobre 2013 intervenendo in tema di revoca del concordato preventivo ha statuito che l’atto di frode, per avere rilievo ai fini della revoca dell’ammissione, deve essere “accertato” dal commissario giudiziale e quindi dallo stesso scoperto; sia perché il minimo comune denominatore dei comportamenti di frode espressamente presi in considerazione dalla norma è dato dalla loro attitudine ad ingannare i creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, sottacendo l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta maggiormente conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare.
La vicenda ha riguardato un imprenditore che aveva richiesto ed ottenuto l’ammissione al concordato preventivo successivamente revocato con decreto del Tribunale e successivamente su richiesta del PM lo stesso Tribunale dichiarava il fallimento del soggetto. Avverso la decisone del Tribunale l’imprenditore proponeva gravame alla Corte di Appello che rigettava il gravame. In particolare, la Corte Territoriale, affermava che “osservando, per quanto ancora interessa, che: 1) il commissario giudiziale nella relazione ex art. 173 l. fall, aveva accertato quattro categorie di fatti (“andamento anomalo del conto cassa e non attendibilità delle scritture contabili”; “prelievi del titolare”; “rapporti di credito con la società B. s.r.l.”; “pagamenti effettuati alla società T. s.r.l.”) non enunciati dal B. né nella domanda di concordato, né negli allegati, né nella relazione del professionista prevista dall’art. 161, comma 3, l. fall.; 2) il silenzio del debitore su tali fatti integrava gli estremi della frode, in quanto i creditori non erano stati resi edotti sugli atti passibili di revocatoria in caso di fallimento ed in quanto, conseguentemente, si pregiudicava l’espressione da parte loro di un consapevole giudizio di convenienza sulla proposta di concordato; 3) inoltre, indipendentemente dalle eventuali prospettive di miglior soddisfacimento economico in caso di fallimento, il silenzio in questione aveva privato i creditori anche degli elementi di valutazione sulla meritevolezza dell’imprenditore dai quali essi legittimamente potevano far discendere la loro decisione.”
L’imprenditore ricorre alla Corte Suprema per la cassazione della sentenza basandolo su un unico motivo di doglianza.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso puntualizzando e richiamando precedenti della stessa Corte tra cui il “caso esaminato dalla citata Cass. n. 13817/2011 la sussistenza di atti di frode è stata esclusa in relazione ad atti espressamente indicati nella proposta di concordato. Nel caso oggi all’esame della Corte si deve ulteriormente precisare se la condotta decettiva deve essere valutata solo con riferimento alla proposta di concordato ed ai suoi allegati ovvero se la stessa debba essere valutata anche con riferimento alle scritture contabili e, accogliendo la prima soluzione, quali siano gli atti risultanti dalle scritture contabili dei quali non può tacersi nella proposta di concordato o nei suoi allegati per escludere la sussistenza di atti di frode.”
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