CONSIGLIO DI STATO – Sentenza 23 febbraio 2021, n. 1602
Imprese petrolifere – Maggiorazione IRES – “Robin Hood Tax” – Divieto di traslazione sui prezzi al consumo – Violazione degli obblighi informativi – Procedimento sanzionatorio
Fatto
1. – L’appellante O.I. s.r.l. (di seguito: “Società”) – operante nel settore petrolifero e proprietaria di una rete di distributori di carburanti ubicati su tutto il territorio italiano – deduce quanto segue:
– l’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, della legge 6 agosto 2008 n. 133, aveva imposto un prelievo fiscale ulteriore, nell’ambito dell’imposta sul reddito delle società (IRES), qualificato come addizionale (cd. “Robin Hood Tax”), pari al 5,5% da applicarsi ad alcuni operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente;
– la predetta misura fiscale era stata accompagnata dall’imposizione del divieto di traslazione dell’imposta sui prezzi al consumo, disponendo che sul rispetto di detta prescrizione vigilasse l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, oggi Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (di seguito: “Autorità”);
– con la deliberazione 394/2012/E/RHT del 27 settembre 2012, l’Autorità disciplinava l’attività di vigilanza sulla puntuale osservanza del divieto di traslazione sui prezzi al consumo della maggiorazione d’imposta di cui all’art. 81, comma 18, del decreto-legge n. 112 del 2008;
– con la successiva deliberazione 70/2013/E/RHT, recante l’intimazione ad adempiere agli obblighi informativi in materia di traslazione della maggiorazione IRES sui prezzi al consumo, l’Autorità precisava che l’invio delle informazioni e dei documenti sarebbe dovuto avvenire entro e non oltre 60 giorni dal ricevimento del provvedimento, pena l’avvio di un procedimento sanzionatorio ai sensi dell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge n. 481 del 1995;
– la Società, ritenendo di non esser tenuta ad alcuna comunicazione all’Autorità, in quanto non soggetta alla “Robin Hood Tax”, non effettuava alcuna trasmissione dei dati e delle informazioni contabili richieste, ad eccezione di quelli di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 3 della predetta deliberazione 394/2012/E/RHT, con riferimento all’anno di esercizio 2007, e di quelli di cui al comma 3 dello stesso articolo 3, con riferimento all’anno di esercizio 2008;
– sul presupposto contrario che la Società fosse invece tenuta al rispetto del predetto divieto, con deliberazione 426/2013/S/RHT del 3 ottobre 2013, l’Autorità deliberava l’avvio di un procedimento per l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge n. 481 del 1995, determinata nella misura di € 57.000,00;
– in data 15 novembre 2013, la Società completava la trasmissione dei dati mancanti;
– nel frattempo, con sentenza n. 10 del 2015, la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge n. 112 del 2008, per violazione degli art. 3 e 53 della Costituzione;
– con deliberazione 482/2016/S/RHT dell’8 settembre 2016, l’Autorità, accertata la mancata ottemperanza agli obblighi informativi previsti dalla deliberazione 394/2012/E/RHT, deliberava di irrogare nei confronti della Società una sanzione amministrativa pecuniaria pari ad € 40.000,00;
– la Società impugnava quindi il citato provvedimento sanzionatorio, ma il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, con sentenza n. 1882 del 2018, rigettava il ricorso.
2. – Avverso la predetta sentenza ha proposto appello la Società, riproponendo nella sostanza i motivi di impugnazione già sollevati in primo grado, sia pure adeguati all’impianto motivazione della sentenza appellata. In particolare, secondo l’appellante:
a) essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’obbligo di corrispondere l’addizionale IRES per il settore petrolifero ed energetico prevista dall’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge n. 112 del 2008, sarebbe venuto meno lo stesso presupposto per l’applicazione dei connessi illeciti amministrativi, anche in forza di quanto previsto dall’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997; il giudice di primo grado avrebbe mancato di considerare adeguatamente gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 81 citato, posto che la Corte costituzionale, in punto “modulazione degli effetti temporali della decisione”, si sarebbe espressa unicamente nel senso della irripetibilità dei versamenti tributari già compiuti e non sulla perdurante vigenza del tributo e, a maggior ragione, del potere di vigilanza dell’Autorità; la sentenza appellata risulterebbe ulteriormente viziata laddove non ha fatto corretta applicazione dell’art. 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953, il quale ha reso esplicito il divieto di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte e, tra i rapporti travolti dalla declaratoria di incostituzionalità, rientrerebbe anche il procedimento sanzionatorio in questione conclusosi con la deliberazione impugnata dell’8 settembre 2016; la sentenza sarebbe altresì viziata laddove non avrebbe fatto corretta applicazione del principio tempus regit actum, in base al quale la legittimità del provvedimento finale dovrebbe essere valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato emanato;
b) contrariamente a quanto assunto dalla sentenza gravata, la Società non sarebbe stata tenuta al rispetto degli obblighi informativi connessi alla Robin Hood Tax, in quanto non soggetta a tale tributo, e segnatamente: i dati relativi al 2010 non avrebbero dovuto essere comunicati in quanto i ricavi del 2009 erano inferiori a 25 milioni di euro; i dati relativi al 2011 non avrebbero dovuto essere comunicati in quanto, essendo nel contempo mutata la normativa di riferimento, nel 2010 la società non aveva conseguito un reddito di almeno 1 milione di euro; i dati relativi al primo semestre 2012 non avrebbero dovuto essere comunicati in quanto nel 2011 la società non aveva conseguito un reddito di almeno 1 milione; le medesime considerazioni varrebbero, peraltro, dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, con l’effetto che la vigilanza dell’Autorità si sarebbe potuto esercitare nei confronti dei soli soggetti il cui fatturato era superiore al fatturato totale di € 482.000.000, pacificamente non raggiunto dall’odierna appellante in ciascuno degli anni di riferimento dal 2007 al 2011 e anche negli anni successivi 2012 e 2013;
c) le argomentazioni del giudice di primo grado sarebbero inidonee a giustificare la quantificazione della sanzione: con riguardo alla gravità della violazione, l’Autorità non avrebbe infatti tenuto conto, né motivato, in ordine al fatto che la condotta tenuta dalla odierna appellante non avrebbe comportato alcuna conseguenza lesiva, non solo perché la società, seppur tardivamente, aveva adempiuto in toto agli obblighi informativi impartitigli (in parte anche prima dell’avvio del procedimento de quo), ma anche perché dalla conoscenza delle informazioni rese era emerso la non assoggettabilità della ricorrente all’allora vigente disciplina impositiva dell’addizionale IRES; l’Autorità, inoltre, non avrebbe tenuto conto, sia della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge n. 112 del 2008 (a seguito della quale sarebbe venuto meno il disvalore che l’ordinamento attribuisce alla condotta contestata), sia del fatto che la società non si era resa responsabile di altre violazioni di provvedimenti dell’Autorità, sia che la richiesta di produzione documentale riguardava informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria, essendo i bilanci di esercizio documenti pubblici, depositati presso la Camera di Commercio competente per territorio.
3. – Si è costituita in giudizio l’Autorità, insistendo per l’integrale rigetto del gravame.
4. – All’odierna udienza del 14 gennaio 2021, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.
Diritto
1. – Il primo mezzo di gravame – con la quale la Società insiste nel sostenere che, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge n. 112 del 2008, sarebbero venuti meno i presupposti legittimanti l’irrogazione della sanzione amministrativa applicata – è destituito di fondamento.
1.1. – Con l’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 133 del 2008, era stato previsto – a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 – un prelievo aggiuntivo, qualificato «addizionale» all’imposta sul reddito delle società di cui all’art. 75 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, pari al 5,5 per cento, da applicarsi alle imprese operanti in determinati settori, tra cui la commercializzazione di benzine, petroli, gas e oli lubrificanti, che abbiano conseguito ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo di imposta precedente, ponendo a carico dei soggetti passivi il divieto di traslazione sui prezzi al consumo e affidando all’Autorità per l’energia elettrica e il gas (divenuta da ultimo Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) il compito di vigilare e di presentare al Parlamento, entro il 31 dicembre di ogni anno, una relazione sugli effetti del tributo.
Successivamente, il legislatore ha ripetutamente modificato le citate disposizioni (segnatamente con: la legge 23 luglio 2009, n. 99; il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148; il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98; il decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 ottobre 2013, n. 125). In particolare, ferma restando la struttura dell’imposta, è stata elevata la misura dell’«addizionale» a 6,5 punti percentuali; è stata ampliata la platea dei soggetti rientranti nel campo di applicazione dell’imposta, dal momento che il legislatore ha diminuito il volume minimo di ricavi oltre il quale le società operanti nel settore rientrano fra i soggetti passivi, portandolo dagli originari 25 milioni a 10 milioni e poi a 3 milioni di euro; è stata introdotta l’ulteriore soglia del conseguimento di un reddito superiore a 1 milione di euro, poi abbassata a 300 mila euro; sono stati limitati i poteri di controllo dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico alle sole imprese che integrino i presupposti per l’applicazione dell’«addizionale».
1.2. – Con la sentenza n. 10 del 2015, la Corte costituzionale – chiamata a pronunciarsi in ordine all’illegittimità costituzionale dell’articolo 81, commi 16, 17 e 18, in relazione a svariati parametri – ha valutato come infondate le questioni sollevate in relazione agli articoli 77, secondo comma, e 23 della Costituzione, incentrate, rispettivamente, sull’illegittimo utilizzo del decreto-legge in assenza dei motivi di necessità e urgenza e sulla riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, pervenendo invece al giudizio d’incostituzionalità della normativa impugnata per contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost.
Le ragioni dell’incostituzionalità sono state individuate in un «vizio di irragionevolezza», in relazione all’«incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito».
Il fine era quello di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi per varie ragioni, sia per le caratteristiche strutturali del mercato (in ragione del suo carattere oligopolistico e della natura inelastica della domanda), sia perché tra il 2007 e il 2008 gli operatori della filiera avevano registrato profitti record, grazie al rapidissimo aumento del prezzo del greggio.
Sennonché, secondo la Corte, tale giustificazione del prelievo aggiuntivo- colpire i “sovraprofitti” conseguiti da una particolare categoria di soggetti in una particolare congiuntura economica – avrebbe dovuto tradursi nella previsione di un’imposta la cui struttura fosse coerente con quell’intento.
Sintomi della non congruenza del mezzo rispetto allo scopo sono stati invece individuati: nella base imponibile, costituita dall’intero reddito anziché dai soli “sovraprofitti”; nella durata permanente, anziché contingente, dell’addizionale, «che non appare in alcun modo circoscritta a uno o più periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione»; nell’inidoneità a conseguire le dichiarate finalità solidaristiche e redistributive derivante dall’«obiettiva difficoltà di isolare […] la parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta» (testimoniata dalle affermazioni della stessa Autorità garante in sede di Relazione al Parlamento) e quindi di sanzionare coloro che avessero scaricato l’onere impositivo sul prezzo al consumo.
1.3. – In ragione delle conseguenze pratiche dell’accoglimento della questione, la Corte ha tuttavia deciso di limitare nel tempo gli effetti della sua pronuncia di accoglimento. Secondo il giudice delle leggi, il ruolo affidatogli «come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, “effetti ancor più incompatibili con la Costituzione” (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro».
Su queste basi, la Corte ha aggiunto che, nel caso di specie, «l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.» e che «l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, I comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime». La rimozione retroattiva della normativa impugnata ingenererebbe inoltre una «irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole» con un conseguente «irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.» e un «indebito vantaggio che alcuni operatori economici del settore», pregiudizievole degli artt. 3 e 53 della Costituzione.
Conclusivamente, dopo aver fatto cenno alla comparazione con alcune Corti costituzionali europee per le quali il contenimento degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento costituisce «prassi diffusa», la Corte ha ritenuto «costituzionalmente necessaria» disporre la decorrenza degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015).
La pronuncia della Corte costituzionale in commento non si configura nei termini di un’incostituzionalità «sopravvenuta» (la quale, a rigore, si verifica quando una determinata disciplina, conforme al dettato costituzionale al momento della sua entrata in vigore, è divenuta incostituzionale solo successivamente, a seguito del sopraggiungere di avvenimenti posteriori), bensì limita l’efficacia retroattiva della incostituzionalità realizzatasi ab origine, attraverso un bilanciamento tra valori o principi costituzionali, nella considerazione che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge, nel tutelare e garantire certi valori, produrrebbe contemporaneamente effetti negativi rispetto ad altri valori, anch’essi meritevoli di tutela a livello costituzionale.
Si tratta, in definitiva, di una sentenza manipolativa in senso “diacronico” che differisce l’efficacia della propria pronuncia al fine di realizzare il minore sacrificio possibile per i differenti valori in giuoco.
Si prospetta davanti ai giudici comuni una divaricazione tra applicazione della norma ed applicazione della sentenza. Rispetto alle disposizioni che stabiliscono che la norma dichiarata incostituzionale non può trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale (in base all’art. 136 della Costituzione, quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge «la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»; l’art. 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953 precisa che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»), la Corte costituzionale ha introdotto una deroga che limita la normale “retroattività” della pronuncia di incostituzionalità sulla base di un’operazione di bilanciamento tra differenti valori, tendente ad evitare l’eccessivo sacrificio di uno tra questi e la creazione di una situazione di maggiore incostituzionalità.
Il risultato di richiedere che la norma dichiarata incostituzionale venga cionondimeno ancora applicata nei giudizi pendenti, non appare al Collegio foriera di una violazione dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione per il quale «i giudici sono soggetti soltanto alla legge», in quanto l’obbligo di soggezione alla legge cessa soltanto di fronte a una legge “dichiarata” (anche nel tempo) incostituzionale dal giudice delle leggi.
Né può dirsi che il rispetto della motivazione della sentenza n. 10 del 2015 si ponga in contrasto con il principio costituzionale enunciato dall’art. 24 della Costituzione, che riconosce il diritto d’azione, frustrato dall’eventuale applicazione di una norma riconosciuta come incostituzionale, dal momento che tale esito è il frutto di un bilanciamento tra principi costituzionali e regole processuali, giustificato dall’impellente necessità di tutelare valori costituzionali i quali, altrimenti, sarebbero risultati compromessi da una decisione di mero accoglimento, e dalla circostanza che la compressione degli effetti retroattivi è stata limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco.
1.4. – All’esito della digressione, sono evidenti le ragioni del rigetto del motivo di appello.
In primo luogo, la limitazione degli effetti della pronuncia ha determinato l’annullamento dell’addizionale impugnata con decorrenza a partire dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015. Il che implica che, diversamente da quello che accade ordinariamente a seguito di una pronuncia d’incostituzionalità, la cessazione di efficacia della disposizione fiscale ha operato ex nunc, continuando perciò il tributo ad applicarsi se «sorto in relazione a presupposti avvenuti durante il suo vigore». Dalla legittimità dell’imposizione relativa agli esercizi finanziari oggetto del procedimento deriva altresì la vigenza pro tempore, sia del divieto di traslazione dell’onere della maggiorazione d’imposta sui prezzi al consumo, sia degli obblighi informativi che incombevano sugli operatori individuati dal comma 16 del ricordato art. 81.
Sotto altro profilo, per quanto l’affermazione dell’efficacia pro futuro della decisione d’incostituzionalità determini una apparente coincidenza quoad effectus tra i diversi fenomeni dell’invalidità e dell’abrogazione, neppure può invocarsi il principio dell’abolitio criminis (applicabile peraltro alle sole sanzioni amministrative qualificabili come “penali” ai fini della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali).
Il fatto in contestazione continua infatti a costituire una violazione punibile: le delibere impugnate sono espressione dell’esercizio di un potere sanzionatorio che trova il proprio fondamento nella nell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge n. 481 del 1995 – per nulla toccata dalla declaratoria di incostituzionalità -, la quale disposizione, fatta salva l’applicazione delle norme del codice penale (“salvo che il fatto costituisca reato”), attribuisce all’Autorità il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie «in caso di inosservanza dei propri provvedimenti o in caso di mancata ottemperanza da parte dei soggetti esercenti il servizio, alle richieste di informazioni o a quelle connesse all’effettuazione dei controlli, ovvero nel caso in cui le informazioni e i documenti acquisiti non siano veritieri» (il richiamo alla previsione di cui all’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997 è invece inconferente, perché la sanzione amministrativa è stata irrogata non per la violazione di norme tributarie ma per il mancato rispetto di specifici obblighi informativi).
L’illecito sanzionato – perfezionatosi alla scadenza del termine previsto dalla deliberazione 70/2013/E/RHT – conserva intatto, anche dopo la pronuncia di incostituzionalità, il suo disvalore, in quanto la mancata cooperazione della Società, tradottasi nel mancato invio dei dati richiesti, ha avuto comunque l’effetto di ostacolare l’esercizio dell’attività di vigilanza demandata all’Autorità, al fine di verificare la ricorrenza dei presupposti per l’assoggettamento alla maggiorazione di imposta.
2. – Anche il secondo motivo – con il quale la Società censura la sentenza impugnata per non aver quest’ultima tenuto conto che il divieto di traslazione operasse nei confronti dei soli soggetti tenuti al pagamento dell’IRES e della relativa maggiorazione, cosicché la Società non sarebbe stata tenuta ad alcuna comunicazione all’Autorità non essendo soggetta alla Robin Hood Tax – non coglie nel segno.
2.1. – La completa e tempestiva trasmissione delle informazioni richieste era strettamente funzionale allo svolgimento della predetta attività di vigilanza demandata all’Autorità.
Vero è che, da ultimo, la verifica circa il rispetto del divieto agli operatori economici dei settori richiamati di traslare l’onere della maggiorazione d’imposta sui prezzi al consumo, avrebbe dovuto esercitarsi nei confronti dei soli soggetti il cui fatturato fosse superiore al fatturato totale previsto dall’articolo 16, comma 1, prima ipotesi, della legge 10 ottobre 1990, n. 287.
Tuttavia, l’obbligo delle imprese di fornire all’Autorità le notizie e le informazioni da questa richiesta – presidiato dalla sanzione in questione – non poteva che indirizzarsi nei confronti di tutti gli operatori, anche di quelli che poi potessero risultare in concreto privi dei suddetti requisiti.
3. – Il terzo motivo – con il quale la Società censura la sentenza impugnata per non aver essa accolto la doglianza avente ad oggetto l’illegittima quantificazione della sanzione – va invece parzialmente accolto, in relazione al mancato rispetto del parametro di commisurazione della sanzione incentrato sulla gravità della condotta.
3.1 – L’attività determinativa del quantum della pena pecuniaria costituisce, come è noto, espressione di una funzione connotata da un’ampia discrezionalità. Il legislatore ha infatti stabilito in via generale l’importo minimo e l’importo massimo delle sanzioni amministrative pecuniarie che possono essere irrogate dall’Autorità, senza individuare un minimo ed un massimo edittale con riferimento a ciascuna tipologia di infrazioni.
L’ampia discrezionalità riconosciuta in capo all’Autorità deve tuttavia tenere conto dei criteri indicati dall’articolo 11 della legge n. 689 del 1981 – segnatamente: i) gravità della violazione; ii) opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione; iii) personalità dell’agente; iv) condizioni economiche dell’agente -, e dalle Linee Guida adottate dall’Autorità (con Delibera ARG/COM 144/08) proprio in ordine all’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge 14 novembre 1995, n. 481.
3.2. – Nel caso in esame, l’Autorità nel definire la sanzione base ha senza dubbio rispettato il criterio delle condizioni economiche dell’agente e del limite (prescritto nelle citate Linee Guida) del dieci per cento del fatturato realizzato dall’impresa nell’esercizio chiuso anteriormente alla data di avvio del procedimento sanzionatorio (ancorché non risulti superato il limite massimo edittale di euro 154.937.069,73): nella specie, le sanzioni irrogate rappresentano, secondo le deduzioni della difesa erariale, solo lo 0,11% del fatturato rilevante realizzato.
Inoltre, l’Autorità ha preso espressamente in considerazione, quale fattore attenuante, la circostanza che la Società aveva provveduto, in data 15 novembre 2013, a completare l’invio dei dati mancanti.
3.3. – Tuttavia, sotto profilo della gravità della violazione, l’Autorità, nel rilevare che la condotta della società «contrasta con le disposizioni volte ad attivare flussi informativi funzionali allo svolgimento dell’attività di vigilanza demandata all’Autorità», non appare avere adeguatamente soppesato l’offensività in concreto di tale condotta e l’assenza di vantaggi conseguiti dall’agente in conseguenza della violazione, tenuto conto che è poi comunque emersa la non assoggettabilità della Società all’allora vigente disciplina impositiva dell’addizionale IRES (tale circostanza allegata dall’appellante non è stata oggetto di specifica contestazione di controparte).
3.4. – Per tali ragioni, ai sensi art. 134, comma 1, lettera c), del c.p.a., che riconosce in materia al giudice amministrativo una cognizione estesa al merito, la misura della sanzione pecuniaria comminata dall’Autorità deve essere ridotta nella misura di un terzo, e quindi ricalcolata in € 27.000,00.
4. – La complessità delle questioni dedotte e la parziale reciproca soccombenza giustificano la compensazione integrale tra le parti delle spese di entrambi i gradi dei giudizi.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando sull’appello, accoglie parzialmente l’appello n. 10126 del 2018 e, per l’effetto, in riforma della sentenza n. 1882 del 2018 emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, ridetermina la sanzione pecuniaria irrogata dall’Autorità, nella misura inferiore di € 27.000,00.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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