Consiglio di Stato sezione II sentenza n. 2329 depositata il 18 aprile 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – INVALIDITA’ PERMANENTE – ACCERTAMENTO DELL’INVALIDITA’ – CAPACITA’ LAVORATIVA
Fatto
L’appellante, Maresciallo aiutante s. UPS dell’Arma dei Carabinieri, deduce di avere svolto nel corso della sua carriera, oltre ai compiti ordinari, lunghi e gravosi incarichi in missioni estere (Kosovo, Iraq, Afghanistan) e di essere stato sottoposto in data 20 ottobre 2008 ad intervento di (omissis) totale e (omissis), a seguito di diagnosi di (omissis), rivelatosi fondata all’esito dell’esame istologico.
Deduce altresì che, sulla base del parere reso il 27 luglio 2011 dal Comitato di verifica per le cause di servizio, con decreto del 5 luglio 2012 è stata riconosciuta la dipendenza da causa di servizio della suddetta infermità e liquidato a suo favore l’equo indennizzo nella misura di € 2.756,29.
Inoltre, a seguito di apposita istanza e sulla scorta del verbale della Commissione medica dell’11 marzo 2010, che gli ha riconosciuto un’invalidità complessiva del 21% in base ai criteri previsti dall’art. 1082 del d.p.r. n. 90/2010, il Ministero della Difesa ha decretato a suo favore la concessione della speciale elargizione di cui all’art. 1079 del d.p.r. n. 90/2010, per l’importo di € 48.741,00, sul presupposto che l’infermità in questione fosse dipendente da causa di servizio e riconducibile, ai sensi della norma citata, alle “particolari condizioni ambientali od operative di missione ovvero a particolari fattori di rischio”.
L’appellante, in data 27 gennaio 2011, ha quindi presentato una ulteriore istanza per il riconoscimento dei benefici previsti in favore delle “vittime del dovere” ai sensi dell’art. 2, commi 105 e 106, l. n. 244/2007 e dell’art. 5, comma 3, l. n. 206/2004, e segnatamente dell’assegno vitalizio previsto dall’art. 5, comma 3, l. n. 206/2004 e dell’assegno vitalizio previsto dall’art. 2 l. n. 407/1998.
Sottoposto quindi a nuova visita presso la Commissione medica ospedaliera di La Spezia, questa, con verbale (omissis) del 17.1.2012, ha espresso il seguente giudizio diagnostico: “esiti di (omissis) totale e (omissis) in buon compenso funzionale con terapia sostitutiva”, accertando che, dopo l’intervento chirurgico di asportazione totale della (omissis), all’esame ecografico le logge (omissis) e risultavano prive di tessuto ghiandolare residuo, con presenza bilateralmente di alcuni linfonodi con caratteristiche infiammatorie.
Quindi, in relazione alla medesima infermità, la C.M.O. ha determinato una invalidità permanente del 21%, un danno biologico del 17% ed un danno morale dello 0%, per una invalidità complessiva del 21%.
Al verbale della C.M.O. ha fatto seguito l’impugnato provvedimento, con il quale il Ministero dell’interno, Dipartimento di Pubblica sicurezza, constatato che all’appellante era già stata concessa l’elargizione di cui all’art. 1079 del d.p.r. 15 marzo 2010, n. 90, per un importo pari a € 48.741, e tenuto conto che “ai sensi dell’articolo 13 della legge 20 ottobre 1990, n. 302, le elargizioni di cui alla legge stessa non sono cumulabili con provvidenze pubbliche conferite in ragione delle medesime circostanze; tenuto conto altresì che l’art. 1084 del d.p.r. 15 marzo 2010, n. 90 prevede espressamente il divieto di cumulo tra l’elargizione ivi prevista e quella contemplata dalla normativa a favore delle vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e del dovere”, ha rigettato la richiesta di speciale elargizione.
Mediante il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado il ricorrente si doleva della illegittimità del citato provvedimento nonché del presupposto giudizio medico-legale espresso dalla C.M.O. di La Spezia, lamentando essenzialmente il difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati, l’erronea applicazione da essi fatta dei criteri normativi di calcolo della percentuale di invalidità e la stessa erronea individuazione della pertinente categoria della tabella A, allegata al d.P.R. n. 915/1978, cui ricondurre la patologia, a dimostrazione della cui gravità veniva evidenziato che essa era sfociata nella compromissione funzionale permanente della ghiandola (omissis), nell’impossibilità di remissione allo stato precedente all’insorgenza della patologia e nella necessità di seguire a tempo indeterminato una terapia ormonale sostitutiva nonché di sottoporsi a trattamento radiologico con iodio 131-I.
Il ricorrente sottolineava altresì che, laddove gli fosse stata riconosciuta una invalidità nella misura congrua in rapporto alla gravità dell’infermità, avrebbe avuto diritto sia alla concessione della elargizione di cui agli artt. 5, comma 1, l. n. 206/2004 e 1, comma 1, l. n. 302/1990 (non cumulabile per la medesima percentuale di invalidità con quella, già concessagli con decreto n. 12 del 2 marzo 2012, di cui all’art. 1079 del d.p.r. n. 90/2010) nella misura di € 2.146,00 per ogni punto percentuale di invalidità superiore al 21%, già accertato dalla C.M.O. di La Spezia con il verbale dell’11 marzo 2010, in forza di quanto previsto dall’art. 13, comma 5, della legge n. 302/1990.
Evidenziava inoltre che avrebbe avuto altresì diritto all’attribuzione dei benefici di cui agli artt. 2, commi 105 e 106, l. n. 244/2007 e 5, comma 3, l. n. 206/2004, ovvero alla percezione dell’assegno vitalizio previsto dall’art. 5, comma 3, l. n. 206/2004 e di quello previsto dall’art. 2 l. n. 407/1998, correlati al riconoscimento di una invalidità di almeno un quarto, non sussistendo tra essi e la speciale elargizione già conseguita alcuna incompatibilità (limitata alle elargizioni di carattere non continuativo).
Il T.A.R. Toscana, con la sentenza appellata, ha respinto (oltre che dichiarato inammissibile, relativamente ai petita dichiarativo e di condanna) il ricorso dell’odierno appellante.
Nello statuire l’infondatezza delle censure attoree, il T.A.R., con particolare riguardo al giudizio medico-legale oggetto di contestazione, ha osservato che non sono ravvisabili “vizi logici o travisamento dei fatti avendo la Commissione medica, sulla base dell’anamnesi del caso e della situazione in atto, fatto applicazione dei criteri stabiliti dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 915/1978”, anche sottolineando che “lo stesso organo tecnico è pervenuto, in due occasioni, alle medesime conclusioni accertando, in relazione alla patologia ascritta all’interessato, l’identica percentuale di invalidità del 21%” (…) senza che emergano elementi di fatto idonei a mutare il primo giudizio”.
Quanto poi alle censure rivolte avverso il mancato riconoscimento del danno morale, il T.A.R., nel respingerle, ha posto in evidenza “i differenti presupposti esistenti tra la causa di servizio che, avendo natura oggettiva e medico legale, determina una provvidenza quale l’equo indennizzo, e l’istituto giuridico del tutto distinto del risarcimento del danno, che si fonda specificamente sulla violazione di singoli obblighi del soggetto datore di lavoro di assicurare condizioni di sicurezza”, ovvero “sulla dimostrazione di una specifica e diretta relazione tra responsabilità organizzativa del servizio da parte del soggetto datore di lavoro e l’evento dannoso insorto a carico del dipendente”, aggiungendo che “il riconoscimento della causa di servizio e del conseguente equo indennizzo tendono già a reintegrare il danno costituito dalla diminuzione della capacità lavorativa, sicché i residui profili differenziali (danno biologico e non patrimoniale) non possono che soggiacere all’onere probatorio della dimostrazione di una specifica responsabilità organizzativa del soggetto datore di lavoro (cfr. Cons. di Stato, sez. VI, 19 gennaio 2011, n. 365); dimostrazione che, nel caso in esame, non è stata offerta”.
Infine, quanto all’omessa comunicazione dei motivi ostativi alla favorevole conclusione del procedimento ex art. 10 bis l. n. 241/1990, il T.A.R. ha osservato che “la disposizione richiamata non si applica al procedimento di concessione dell’equo indennizzo per infermità dovuta a causa di servizio sia perché detto procedimento è ricompreso tra quelli di natura previdenziale, ai quali è assimilabile quello per cui si controverte, e sia perché ricorrono le condizioni previste dall’art. 21-octies della l. n. 241/90, atteso che il giudizio espresso dal Comitato di Verifica è vincolante per l’Amministrazione, la quale non avrebbe potuto adottare un provvedimento diverso”.
Mediante i motivi di appello proposti avverso la predetta sentenza di rigetto, l’appellante, premesso che dalle analisi mediche eseguite fra l’ottobre 2008 ed il luglio 2013 risulta uno sbalzo periodico dei valori ematologici e di coagulazione e dei livelli ormonali nel sangue, a dimostrazione del fatto che la (omissis) assunta in via continuativa a tempo indeterminato, stante la totale asportazione e compromissione funzionale della (omissis), non assicura, per la residua vita del paziente, quel “buon compenso funzionale” affermato dalla C.M.O. con l’impugnato verbale del 17.1.2012, contesta le statuizioni della sentenza appellata, con la quale è stata esclusa la sussistenza di vizi di illogicità o di travisamento di fatto nelle valutazioni della C.M.O., e lamenta l’illegittimità ed erroneità del relativo giudizio medico-legale, non essendosi la C.M.O. attenuta, nella percentualizzazione dell’invalidità complessiva e del danno biologico, ai criteri richiamati dall’art. 5 del d.p.r. n. 243/2006 e dagli artt. 2, 3, 4 e 5 del d.p.r. n. 181/2009, analoghi a quelli previsti dall’art. 1082 del d.p.r. n. 90/2010.
L’appello quindi, all’esito dell’udienza di discussione, è stato trattenuto dal collegio per la decisione di merito.
Diritto
Costituisce oggetto del giudizio il provvedimento con il quale l’Amministrazione appellata ha negato il riconoscimento all’appellante, Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, dei benefici previsti per le “vittime del dovere” dall’art. 4 d.p.r. n. 243/2006.
L’appellante infatti è stato riconosciuto “vittima del dovere”, quindi astrattamente legittimato alla percezione dei suddetti benefici, ma, avendo già beneficiato della elargizione di cui all’art. 1079 d.P.R. n. 90/2010 in relazione alla percentuale di invalidità complessiva riconosciutagli nella misura del 21% con il verbale della C.M.O. dell’11.3.2010, non può godere della indennità previste per le “vittime del dovere” se non in rapporto ad una maggiore percentuale di invalidità e limitatamente ai corrispondenti punti differenziali, incorrendo altrimenti nel divieto di cumulo sancito dall’art. 13, comma 2, l. n. 302/1990 (“le elargizioni di cui alla presente legge non sono cumulabili con provvidenze pubbliche in unica soluzione o comunque a carattere non continuativo, conferite o conferibili in ragione delle medesime circostanze, quale che sia la situazione soggettiva della persona lesa o comunque beneficiaria”) e dall’art. 1084 d.p.r. n. 90/2010 (ai sensi del quale “l’elargizione di cui all’articolo 1079, comma 1, è corrisposta ai soggetti di cui al comma 2 dello stesso articolo, sino ad esaurimento delle risorse disponibili, secondo un piano di riparto che tenga conto del numero dei beneficiari inseriti nella graduatoria di cui all’articolo 1080, qualora gli stessi non abbiano già beneficiato, per la medesima percentuale di invalidità, del corrispondente beneficio previsto dalle norme vigenti in favore delle vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e del dovere. Nel caso in cui venga accertata ai sensi del presente capo, una percentuale di invalidità maggiore rispetto a quella già riconosciuta, l’elargizione è determinata per differenza e inserita nel piano di riparto”).
Egli lamenta quindi l’erroneità della percentuale di invalidità complessiva riconosciutagli con l’impugnato verbale della C.M.O. del 17.1.2012 nella medesima misura (21%) già in precedenza determinata: percentuale che gli ha anche impedito di maturare il diritto alla percezione dei citati assegni vitalizi, siccome presupponenti una invalidità permanente in misura non inferiore ad un quarto della capacità lavorativa.
Tanto sinteticamente premesso, l’appello è meritevole di accoglimento, in relazione, essenzialmente, al dedotto vizio di difetto di motivazione.
Deve premettersi che la determinazione della “percentuale unica di invalidità complessiva (IC)”, utile al fine di verificare la spettanza all’appellante dei benefici reclamati, avviene sulla scorta della formula seguente:
IC = somma delle percentuali del danno biologico (DB), del danno morale (DM) e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa (IP) e la percentuale del danno biologico, ovvero, in sintesi: IC=DB+DM+(IP-DB).
Deve altresì osservarsi che la percentuale di invalidità complessiva riconosciuta all’appellante con il verbale della C.M.O. dell’11.3.2010, nell’ambito del diverso procedimento previsto per l’elargizione ex art. 1079 d.p.r. n. 90/2010, nonostante l’identità della patologia, non integra un vincolo assoluto alle valutazioni della medesima C.M.O. nell’ambito del procedimento da cui è scaturito il provvedimento oggetto della presente controversia, né un indice insuperabile della correttezza di quella percentuale: la diversità dei suddetti procedimenti, infatti, non consente di attribuire alla percentuale di invalidità complessiva precedentemente riconosciuta se non un valore meramente orientativo, superabile sulla scorta di una più approfondita e congruamente motivata valutazione della fattispecie, ergo della patologia dell’appellante e delle relative conseguenze invalidanti, anche alla luce dell’aggravamento delle stesse eventualmente verificatosi e comunque di un pieno apprezzamento della incidenza dell’infermità sull’integrità psico-fisica dell’interessato, favorito dai dati clinici successivamente acquisiti (si pensi alle analisi cliniche effettuate dall’appellante, dalle quali emergerebbe l’insussistenza di un “buon compenso funzionale”).
Tanto premesso, un primo elemento sintomatico della carenza motivazionale del provvedimento impugnato si desume dai seguenti rilievi.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.p.r. n. 181/2009 (Criteri medico-legali per la valutazione dell’invalidità permanente), “per l’accertamento dell’invalidità si procede tenendo conto che la percentuale d’invalidità permanente (IP), riferita alla capacità lavorativa, è attribuita scegliendo il valore più favorevole tra quello determinato in base alle tabelle per i gradi di invalidità e relative modalità d’uso approvate, in conformità all’articolo 3, comma 3, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, con il decreto del Ministro della sanità in data 5 febbraio 1992, e successive modificazioni, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 1992, e quello determinato in base alle tabelle A, B, E ed F1 annesse al decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni, e relativi criteri applicativi. Alla classifica di cui alle categorie della tabella A e alla tabella B sono equiparate le fasce percentuali d’invalidità permanente, riferite alla capacità lavorativa, secondo le corrispondenze indicate nella tabella in allegato 1”.
Ebbene, la C.M.O. con il verbale impugnato, in sede applicativa dei predetti criteri, ha ascritto la patologia dell’appellante:
– alla categoria cod. 9322 della tabella allegata al d.m. 5.2.1992, relativa a “neoplasie a prognosi favorevole con modesta compromissione funzionale”, cui corrisponde una percentuale di invalidità dell’11%;
– alla ottava categoria della tabella A allegata al d.p.r. n. 915/1978, cui fa riscontro, in base alla “tabella delle corrispondenze” di cui all’allegato 1 del d.p.r. n. 181/2009, una percentuale di invalidità tra il 21% ed il 30%.
La C.M.O. quindi, in virtù del criterio del “valore più favorevole” di cui al citato art. 3, comma 1, d.p.r. n. 181/2009, ha attribuito all’appellante la percentuale di invalidità permanente del 21%.
La medesima C.M.O. inoltre, avendo riconosciuto all’appellante un danno biologico pari al 17% (codice 119 delle tabelle di cui al d.m. Lavoro e Previdenza Sociale del 12.7.2000) ed un danno morale pari allo 0%, ha determinato una invalidità complessiva del 21%, sulla scorta della citata formula: IC=DB +DM+(IP- DB).
Rileva tuttavia questo giudice che le valutazioni della C.M.O. sono sfornite di un adeguato apparato motivazionale, sia in relazione alla individuazione della categoria cui è stata ricondotta la patologia dell’appellante (tra quelle contemplate dalle tabelle allegate al d.p.r. n. 915/1978), sia con riferimento alla determinazione della percentuale di invalidità permanente all’interno della fascia prevista dalla “tabella di corrispondenza” allegata al d.p.r. n. 181/2009.
Deve infatti ritenersi, con particolare riguardo a tale ultimo profilo, che, laddove le norme lascino all’Amministrazione la facoltà di determinare la percentuale di invalidità tra i limiti minimo e massimo da esse stabiliti, sia onere della stessa esplicitare il percorso logico che l’ha condotta a indicare quella ritenuta pertinente alla specifica patologia: ciò tanto più laddove, come nella specie, la P.A. ritenga di determinare una percentuale di invalidità corrispondente, all’interno dei margini di legge, alla soglia minima.
Non meno rilevante, e bisognevole di puntuale giustificazione ad opera dell’Amministrazione, è inoltre l’inquadramento della patologia entro le pertinenti categorie ex tabella di cui al d.m. 5.2.1992 (al fine in particolare di spiegare, con diretto riferimento al caso di specie, le ragioni della sua non riconducibilità alla categoria delle “neoplasie a prognosi favorevole con grave compromissione funzionale”, cui corrisponde il cod. 9323 ed una ben più alta percentuale di invalidità, pari al 70%) ed exd.p.r. n. 915/1978 (secondo i criteri di equivalenza di cui all’art. 11, comma 4, d.p.r. cit.), ai fini della corretta individuazione del “valore più favorevole” ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.p.r. n. 181/2009.
Un ulteriore profilo del deficit motivazionale che inficia i provvedimenti impugnati attiene alla valutazione del danno morale, di cui l’Amministrazione intimata ha escluso l’esistenza, indicando in relazione ad esso una percentuale dello 0%.
In proposito, sono meritevoli di favorevole apprezzamento le deduzioni di parte appellante, intese a contestare i passaggi argomentativi della sentenza appellata che, nel respingere le censure attoree, fanno leva sulla distinzione tra risarcimento del danno, ancorato a presupposti (come la derivazione del pregiudizio dalla colpa organizzativa del datore di lavoro) di cui nella specie non sarebbe provata l’esistenza e nell’ambito solamente del quale quella tipologia di danno sarebbe suscettibile di considerazione, e tutela indennitaria, quale verrebbe in rilievo nella vicenda oggetto di giudizio.
Deve infatti osservarsi, in senso contrario, che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. c) d.p.r. n. 181/2009, attinente proprio alla valutazione della invalidità ai fini del riconoscimento delle provvidenze de quibus, “la determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all’evento dannoso, fino ad un massimo dei 2/3 del valore percentuale del danno biologico”: ciò che basta a dimostrare che la rilevanza del danno morale è indipendente da qualsiasi logica strettamente risarcitoria.
Ebbene, anche sotto tale profilo, la valutazione nella misura dello 0% della incidenza del danno morale non è suffragata da alcuna motivazione, tale non potendo ritenersi, per il suo carattere postumo, quella resa con la relazione tecnica depositata agli atti del giudizio di primo grado, laddove si osserva che “per il danno morale, stante il lasso di tempo trascorso dall’evento e le limitate ripercussioni in ambito lavorativo/sociale, si è ritenuto fosse compreso nel danno biologico”: senza trascurare che la suddetta tardiva motivazione non tiene conto dei possibili riflessi permanenti che la patologia produce nella sfera emotiva e relazionale dell’appellante, mentre l’affermazione del carattere “limitato” delle sue “ripercussioni in ambito lavorativo/sociale” risulta inficiata dalla sua intrinseca apoditticità.
In conclusione, la domanda di annullamento proposta in primo grado deve essere accolta, con la conseguente riforma della sentenza appellata, mentre può disporsi l’assorbimento delle censure non esaminate: sono fatte salve le rinnovate valutazioni e le conseguenti ulteriori determinazioni dell’Amministrazione appellata.
Esula invece, dai poteri cognitivi e decisori del giudice amministrativo, l’accertamento diretto della sussistenza del diritto dell’appellante al conseguimento dei benefici invocati.
Premesso invero che la eventuale qualificazione della posizione soggettiva dell’appellante come diritto soggettivo (secondo l’orientamento espresso, tra le altre, da Cassazione civile, Sez. Un., n. 7761 del 27 marzo 2017) non rileva, nell’ambito del presente giudizio, ai fini della devoluzione della decisione al giudice ordinario (impedendolo le preclusioni di cui all’art. 9 c.p.a.), deve osservarsi che la discrezionalità tecnica che permea le valutazioni della P.A., quanto alla determinazione della corretta percentuale di invalidità ascrivibile alla patologia dell’appellante ed alla sua appropriata qualificazione alla stregua delle menzionate categorie tabellari, non consente al giudice il compimento di un sindacato di carattere pienamente sostitutivo, quale sarebbe richiesto da una pronuncia dichiarativa e di condanna.
Infine, la natura del vizio riscontrato induce a disporre la compensazione delle spese relative al doppio grado di giudizio, fermo il diritto dell’appellante alla refusione del contributo unificato versato in relazione ad esso, a carico dell’Amministrazione appellata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, nei sensi indicati in motivazione, e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, annulla i provvedimenti impugnati in primo grado, salve le ulteriori determinazioni dell’Amministrazione appellata.
Spese dei due gradi di giudizio compensate, fermo il diritto della parte appellante al rimborso del contributo unificato versato in relazione ad essi, a carico dell’Amministrazione appellata.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 22, comma 8 D.lgs. 196/2003, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.
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