CORTE CASSAZIONE n. 27503 del 30 dicembre 2014
SENTENZA
sul ricorso 6634-2012 proposto da: F. S. I. SRL in persona dell’Amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA F. DENZA 20, presso lo studio dell’avvocato ROSA LAURA, rappresentato e difeso dagli Avvocati CHRISTIAN CALIFANO, DEL FEDERICO LORENZO giusta delega in calce;
– ricorrente –
contro
ICA SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE TIZIANO 110, presso lo studio dell’avvocato SIMONE TABLO’, rappresentato e difeso dagli avvocati ZOLEZZI SERGIO, ALESSANDRO CARDOSI giusta delega a margine;
– controricorrente –
nonchè contro
COMUNE DI VOGHERA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 18/2011 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 09/02/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2014 dal Consigliere Dott. LUCIO NAPOLITANO; udito per il ricorrente l’Avvocato CALIFANO che ha chiesto l’accoglimento; udito per il controricorrente l’Avvocato CARDOSI che ha chiesto il rigetto; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
La controversia nasce da avviso di accertamento relativo all’imposta di pubblicità, per l’anno 2008, per il Comune di Voghera, richiesta dalla concessionaria I.C.A. S.r.l. per l’avvenuto collocamento, ad opera della società Fast Service S.r.l., di pannelli pubblicitari su macchine di distribuzione automatica di alimenti e bevande all’interno della locale stazione ferroviaria. La società contribuente ricorre per cassazione, in forza di quattro motivi, nei confronti della sentenza della CTR della Lombardia n. 18/35/11 depositata il 9 febbraio 2011, che ha rigettato l’appello proposto dalla contribuente medesima avverso la decisione di primo grado, di rigetto del ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento, ritenendo dovuta l’imposta. L’intimata I.C.A. S.r.l. resiste con controricorso. Il Comune di Voghera non ha svolto difese. La ricorrente ha altresì depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., con la quale ha indicato precedenti di merito favorevoli alla ricorrente medesima.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società contribuente censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 3, 1. 241/1990, dell’art. 7 l. 212/2000, e dell’art. 10 del D. Lgs. 507/1993 (ratione temporis) in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.”. Nel ritenere che l’atto impositivo abbia assolto pienamente all’obbligo di motivazione, in quanto lo stesso “è idoneo a consentire alla contribuente di conoscere la pretesa tributaria e di contestarne il contenuto sotto tutti i profili svolgendo le proprie difese con pienezza di cognizione” la sentenza impugnata, secondo la ricorrente, non ha tenuto in considerazione, che nell’atto impugnato, oltre a non essere affatto chiare le ragioni giuridiche che hanno indotto ad emettere l’avviso di accertamento, appaiono del tutto oscuri i presupposti di fatto sulla base dei quali l’atto amministrativo è stato emesso; la motivazione dell’avviso di accertamento, infatti, per la ricorrente, si riduce ad una tabella suddivisa in nove colonne. Pertanto — conclude sul punto la ricorrente – l’avviso di accertamento non esplicita, come avrebbe dovuto, anche in relazione all’art. 10 del D. Lgs. n. 507/1993 quale applicabile ratione temporis, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche alla base dell’emissione dell’atto impositivo.
2. Con il secondo motivo la contribuente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 5, D. Lgs. 507/1993 in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.”, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto, che, ai fini della sussistenza del presupposto impositivo, la nozione di “luogo aperto al pubblico” si attagli anche alla situazione che si verifica nelle stazioni ferroviarie, poiché “è pacifico che i pannelli in discussione contengono immagini e specificazioni relative alle merci contenute nei distributori e prelevabili dal pubblico”. Detta statuizione — secondo la ricorrente — è erronea, non avendo tenuto conto della circostanza che gli apparecchi per la distribuzione automatica di cibi e bevande, sui quali sono stati applicati pannelli concernenti l’indicazione dei prodotti contenuti all’interno, sono stati collocati in luogo non accessibile a tutti, quali i marciapiedi antistanti ai binari, accessibili solo ai soggetti muniti di biglietto ferroviario, secondo le prescrizioni del regolamento di Trenitalia.
3. Con il terzo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 17 comma 1, lett. e), D. Lgs. 507/1993 in relazione all’art. 360 n. 3, c.p.c.”, per avere escluso che alla fattispecie in esame potesse applicarsi l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17 10 comma lett. e) del citato decreto, non trattandosi “di messaggi che pubblicizzano l’attività esercitata dall’impresa di trasporto o informano sulle modalità di effettuazione del servizio di trasporto”. Secondo la ricorrente, che all’uopo, a sostegno del proprio assunto, richiama un remoto precedente di questa Corte (Cass. civ. sez. I 28 maggio 1988, n. 3674), reso nel vigore del D.P.R. n. 639/1972 (art. 20 punto 7), il servizio di distribuzione automatica di cibi e bevande sarebbe comunque inerente al servizio dei viaggiatori, in quanto atto a rendere il viaggio più confortevole.
4. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 17 comma 1 bis, D. Lgs. 507/1993, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.” per avere la sentenza impugnata erroneamente escluso che l’ipotesi di esenzione dall’imposta di pubblicità prevista dalla citata norma potesse essere applicata per i distributori in esame.
5. Il primo motivo, che deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 3, L 241/1990, dell’art. 7 l. 212/2000, e dell’art. 10 del D. Lgs. 507/1993 (ratione temporis) in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.” è inammissibile perché carente in ordine al requisito di autosufficienza del ricorso, essendo le caratteristiche proprie dell’avviso di accertamento solo sommariamente descritte e non contenendo la riproduzione testuale degli elementi essenziali della motivazione dell’atto, come invece necessario, essendo l’avviso di accertamento atto non processuale, ma amministrativo (cfr. Cass. civ. sez. V 19 aprile 2013, n. 9536; Cass. civ. sez. V 13 agosto 2004, n. 15867).
6. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, per le ragioni indicate sub 2), in relazione all’art. 360 1° comma n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 5 (1° comma) del D. Lgs. n. 507/1993, che prevede che “la diffusione dei messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetta all’imposta sulla pubblicità” di cui al citato decreto. In sostanza la ricorrente censura la sentenza perché non avrebbe colto la differenza tra stazione ferroviaria generalmente intesa ed area di accesso ai binari cui potrebbero accedere, secondo regolamento di Trenitalia, i soli possessori di biglietto ferroviario. In realtà, come già osservato da questa Corte (cfr. Cass. civ. sez. V 15 febbraio 2012, n. 2167, resa in controversia similare tra le stesse parti), ai fini specifici dell’imposta si deve considerare comunque aperto al pubblico lo spazio interno della stazione ferroviaria il cui accesso sia consentito ai soggetti muniti di biglietto di viaggio; ciò in quanto, dalla richiamata disposizione normativa, si evince che il presupposto impositivo debba essere individuato nell’astratta possibilità del messaggio, in rapporto all’ubicazione del mezzo, di avere un numero indeterminato di destinatari, che diventano tali solo perché vengono a trovarsi in quel luogo determinato (cfr. anche Cass. civ. sez. V 2 ottobre 2009, n. 21161 e Cass. civ. sez. V 8 settembre 2008, n. 22572; Cass. n. 15654/04 quale citata dalla stessa decisione della CTR). Essendosi la sentenza impugnata attenuta al summenzionato principio di diritto, il motivo in esame è infondato e va pertanto disatteso.
7. Il terzo motivo è anch’esso infondato.
L’art. 17 1° comma lett. e) del D. Lgs. n. 507/1993 esenta dall’imposta “la pubblicità esposta all’interno delle stazioni dei servizi di trasporto pubblico di ogni genere inerente l’attività esercitata dall’impresa di trasporto, nonché le tabelle esposte all’esterno delle stazioni stesse o lungo l’itinerario di viaggio, per la parte in cui contengono informazioni relative alle modalità di effettuazione del servizio”. La formulazione letterale della norma appare in modo significativo diversa rispetto alla previsione dell’art. 20 (punto 7) dell’abrogato D.P.R. n. 639/1972 che prevedeva l’oggettiva esenzione dall’imposta di pubblicità di “tutte le scritte apposte all’interno o all’esterno delle stazioni ferroviarie che riguardano i servizi dei viaggiatori”, nel cui vigore si era espresso il precedente di questa Corte richiamato dalla ricorrente (la citata Cass. n. 3674/1988), che aveva ritenuto esente dall’imposta l’insegna luminosa di un’edicola di giornali posta all’interno di una stazione ferroviaria, essendo la lettura dei giornali in treno volta ad assicurare “un viaggio più confortevole”. Nel vigore della nuova normativa è venuto meno il riferimento più ampio alle scritte che riguardano i servizi dei viaggiatori, essendo la ratio dell’esenzione legata alla sussistenza del collegamento tra la pubblicità e l’attività esercitata dall’impresa di trasporto, sicché, in considerazione del fatto che le norme che prevedano esenzioni o agevolazioni fiscali sono norme di stretta interpretazione (cfr. tra le altre, più di recente, Cass. civ. sez. V 7 febbraio 2013, n. 2915) non può in alcun modo ritenersi l’attività di commercializzazione di alimenti e bevande ad opera di distributori automatici connessa al servizio di trasporto ferroviario.
8. Il quarto motivo è del pari privo di fondamento.
La ricorrente assume che il giudice tributario di secondo grado avrebbe dovuto riconoscere l’esenzione dal tributo quale prevista dall’art. 17 comma 1 bis del menzionato decreto, in ragione del fatto che le indicazioni divulgative di cui ai pannelli apposti sui distributori automatici si riferiscono a beni contenuti negli stessi box di distribuzione, sicché il distributore deve intendersi quale sede di svolgimento dell’attività — unità commerciale. Pare opportuno premettere, riguardo a tale profilo, che non v’è una nozione normativa, ai fini civilistici, di sede delle persone giuridiche, se non quella formale (c.d. sede legale) risultante dall’atto costitutivo e dallo statuto (cfr. artt. 46 e 16 c.c.) cui abitualmente, per l’equiparazione a determinati effetti nei confronti dei terzi, si aggiunge la nozione di sede effettiva. Nel caso di specie la ricorrente è società di capitali, avente quindi personalità giuridica. Va quindi in proposito ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. civ. sez. lav. 12 marzo 2009, n. 60121; Cass. civ. sez. lav. 13 aprile 2004, n. 7037) per sede effettiva deve intendersi il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti. La ricorrente giunge ad ipotizzare che il processo di automazione in atto porti, anche in assenza dell’elemento umano, a configurare il distributore automatico quale sede dello svolgimento dell’attività — unità commerciale.
8.1. Tale assunto non può essere condiviso.
Il concetto civilistico di sede, nel caso in esame, deve essere coordinato con la norma fiscale della cui applicazione si controverte in questa sede. L’art. 17, comma 1 bis del D. Lgs. n. 507/1993 prevede, per quanto qui rileva, che “l’imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a cinque metri quadrati”. Escluso — ciò risultando d’intuitiva evidenza — che il distributore automatico di cibi o bevande possa ricondursi al concetto tanto di sede legale quanto di quella effettiva di esercizio dell’attività sociale come sopra richiamati, e ritenuto che neppure che possa ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede della società, in ragione dell’ampia diffusione territoriale che impedisce a monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del singolo distributore alla sede sociale, appare decisivo nell’escludere che al punto automatico di esercizio possa attribuirsi la qualificazione di sede il rilievo che tale concetto viene a costituire nella fattispecie in esame il presupposto per l’applicazione di norma, quale il menzionato art. 17 comma 1 bis del D. Lgs. n. 507/1993, che prevede un’esenzione fiscale, come tale da ritenersi di stretta interpretazione, al pari dell’ipotesi esaminata nel paragrafo precedente.
8.2. Parte ricorrente ritiene che in ogni caso l’esenzione doveva essere riconosciuta, sempre in relazione all’art. 17 comma 1 bis del D. Lgs. n. 50771993, con riferimento a tutti i pannelli apposti sul distributore, richiamando a sostegno della propria tesi anche un documento di prassi (nota del Dipartimento per le politiche fiscali n. 11159 del 19.3.2007) secondo cui l’insegna di esercizio, “oltre all’indicazione del nome del soggetto e della denominazione dell’impresa che svolge l’attività, può evidenziare anche la tipologia e la descrizione dell’attività, nonché i marchi dei prodotti commercializzati e dei servizi offerti”. Appare utile premettere che la nozione normativa d’insegna di esercizio si ricava dall’art. 2 bis sesto comma del D.L. 22 febbraio 2002, n. 13, convertito, con modificazioni, in L. 24 aprile 2002, n. 75 secondo cui “si definisce insegna di esercizio la scritta di cui all’art. 47 comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1992, n. 495, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività economica. In caso di pluralità di insegne l’esenzione è riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1” (fino a cinque metri quadrati). A sua volta l’art. 47 1° comma del D.P.R. n. 495/1992 definisce « “insegna di esercizio” la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa», stabilendo altresì che l’insegna di esercizio possa essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta. Ciò premesso, deve ritenersi che il marchio “self bar”, oggetto di registrazione da parte della società ricorrente, possa, ai fini dell’esenzione dall’imposta di pubblicità qui in discussione, quale insegna d’esercizio, legittimamente indicare la sola generica attività commerciale di vendita al pubblico di alimenti e bevande varie (indistinti). I pannelli che raffigurano invece specifici prodotti individuati da un proprio marchio non possono ricondursi invece all’insegna di esercizio che possa fruire dell’esenzione dall’imposta di pubblicità ai sensi del richiamato art. 17 comma 1 bis del D. Lgs. n. 507/1993. Ciò si rileva, peraltro, dallo stesso documento di prassi succitato, che la ricorrente ha richiamato in modo parziale. La nota 11159 del 19 marzo 2007 del Dipartimento per le Politiche fiscali chiarisce, infatti, che, nel caso in cui in aggiunta alle insegne di esercizio vengano esposti uno o più distinti mezzi pubblicitari raffiguranti unicamente il marchio del prodotto commercializzato, con l’esclusivo intento di commercializzare i prodotti o servizi offerti, tale mezzo non potrà godere dell’esenzione in discorso, in quanto non potrà, in tale ipotesi, essere considerato come insegna di esercizio (in generale, sui limiti dell’applicabilità dell’esenzione di cui all’insegna di esercizio, si veda anche, sia pure riguardo a fattispecie diversa, Cass. civ. sez. V 11 maggio 2012, n. 7348).
9. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che possa essere esaminata la richiesta di non applicabilità delle sanzioni amministrative per la sussistenza di condizioni obiettive d’incertezza, formulata per la prima volta in sede di legittimità solo con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo nel rapporto processuale tra ricorrente e controricorrente. Nulla va statuito quanto alle spese nel rapporto processuale tra la ricorrente ed il Comune intimato, non avendo quest’ultimo svolto difese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 1.200,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese forfettarie ed accessori. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21 ottobre 2014
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