Reati e pene – Frode all’IVA – Prescrizione – Obbligo per il giudice, in applicazione dell’art. 325 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come interpretato dalla Corte di giustizia europea, sentenza 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco, di disapplicare gli artt. 160, terzo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato. – Legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), art. 2
Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza del 22 dicembre 2011, il Tribunale di Milano ha – per quanto qui rileva – condannato gli imputati per una serie di reati tributari ex articoli 5 e 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, commessi nell’ambito di un’associazione a delinquere, diretta – secondo l’ipotesi accusatoria – da M.P., e nella quale gli altri imputati ricoprivano diversi ruoli.
Le indagini erano state svolte a partire dal 2007 dalla Guardia di Finanza di Bassano del Grappa, nei confronti della società S. s.n.c., esercente l’attività di fabbricazione di materie plastiche, con il riscontro dell’emissione di fatture di acquisto, nei confronti di tale società, da parte di due società «cartiere»,.la B. S.r.l. e la N.P. S.r.l. Le ulteriori indagini avevano confermato l’esistenza di altre società «cartiere» operanti nel settore delle materie plastiche. Molte di tali società avevano intrattenuto relazioni commerciali con la A.C., società Sammarinese riconducibile a M.P.. Era così emersa l’esistenza di un circuito criminale finalizzato alla realizzazione di frodi fiscali, consistenti in cessioni in nero, sovrafatturazioni ed acquisti intracomunitari in regime di esenzione Iva, consumate attraverso società riferibili ad una serie di prestanome, tutti facenti capo alla persona di M.P..
La Corte d’appello, con sentenza del 16 ottobre 2013, ha confermato le valutazioni effettuate dal Tribunale quanto alla responsabilità penale, dichiarando non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine ad alcuni dei reati-scopo contestati e ha, conseguentemente, rideterminato in diminuzione il trattamento sanzionatorio per alcuni degli imputati.
2. – Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore e con unico atto, A.F. e A.N., chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si deduce la nullità della sentenza, per incapacità del giudice estensore, sul rilievo che la stessa, pronunciata il 16 ottobre 2013, sarebbe stata depositata il 30 aprile 2015 e sottoscritta, anche quale estensore, dal presidente del collegio, che era uscito dall’ordine giudiziario il 17 ottobre 2014. La difesa contesta l’orientamento di legittimità secondo cui le condizioni di capacità del giudice, necessarie, ai sensi dell’art. 178 codice procedura penale, per aversi un atto valido e, quindi, anche una sentenza validamente resa, attengono al momento della decisione e non al momento dell’eventuale deposito della motivazione successivo alla pronuncia. Si sostiene, in particolare, che, poiché l’art. 546 codice procedura penale prevede la motivazione quale essenziale requisito della sentenza, la deliberazione della motivazione dovrebbe essere adottata dal collegio giudicante e dovrebbe essere considerata, perciò, piena espressione dell’esercizio della giurisdizione. Ne consegue che, trattandosi di una funzione giurisdizionale, la stessa non potrebbe essere amministrata da soggetti che non fanno più parte dell’ordine giudiziario.
2.2. – In secondo luogo, si deduce la mancanza di motivazione della sentenza impugnata, perché la stessa sarebbe inesistente, in quanto redatta da un magistrato già cessato dalle sue funzioni.
2.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si deduce la violazione dell’art. 546, comma 3, codice procedura penale, sul rilievo che la sentenza sarebbe priva della sottoscrizione del giudice, essendo stata sottoscritta da un magistrato ormai uscito dall’ordine giudiziario, sia quale presidente del collegio sia quale estensore.
2.4. – Una quarta censura è riferita alla violazione degli articoli 523, 602, 548 codice procedura penale, i quali esprimono la necessità dell’immediatezza della decisione, sul rilievo che tra il deposito della motivazione e la discussione orale delle difese sarebbe decorso un ampio lasso di tempo; lasso di tempo incompatibile con un’adeguata considerazione delle deduzioni svolte dalle difese nel corso della discussione davanti al collegio.
2.5. – Con un quinto motivo di doglianza, si ribadisce l’eccezione di incompetenza territoriale già proposta in primo e secondo grado. Si contesta, in particolare, l’affermazione del Tribunale secondo cui la competenza doveva essere ritenuta radicata in Milano perché in tale luogo aveva sede il maggior numero delle società ritenute funzionali all’operatività dell’associazione criminale diretta da M.P.; cosicché doveva apparire ragionevole che le strategie del gruppo fossero state pianificate in Milano e che in Milano si fosse concretizzata la parte più significativa dell’attività delittuosa dell’associazione. Si lamenta, sul punto, che la Guardia di Finanza aveva affermato che il fenomeno fraudolento coinvolgeva numerose società ubicate in diverse regioni del Nord Italia, e in particolare a Milano, e che da tale accertamento discendeva la sostanziale incertezza sul luogo del commesso reato; incertezza che non avrebbe potuto essere risolta sulla base di un inesistente principio di prevalenza, non risultando dagli atti alcun elemento specifico dal quale desumere l’individuazione del luogo di programmazione e ideazione dell’attività riferibile all’associazione criminale. E non si sarebbe considerato che i primi fatti erano stati accertati in Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, e che a tali fatti era stata attribuita una valenza sintomatica dell’esistenza e dell’operatività dell’associazione criminale. Si sarebbe dovuto, dunque, applicare criterio del luogo di commissione del reato-scopo più grave, che avrebbe dovuto essere identificato in quello di cui al capo M, di pari gravità rispetto ad altre condotte, ma più risalente nei tempo, relativo all’emissione di fatture per operazioni inesistenti, posta in essere a S. nell’anno 2001; con la conseguenza che avrebbe dovuto essere ritenuto competente il Tribunale di Vicenza. In via subordinata, avrebbe dovuto essere applicato criterio residuale di cui all’art. 9, comma 3, codice procedura penale, per cui avrebbe dovuto essere ritenuto competente il Tribunale di Bassano del Grappa, avendo la procura di quella circoscrizione per prima iscritto la notizia di reato, il 7 marzo 2007. Del tutto destituita di fondamento sarebbe l’affermazione di segno contrario della Corte d’appello secondo cui l’associazione operava in Milano perché lì venivano intessuti i rapporti, si decidevano gli acquisti e le vendite, si costituivano e scioglievano le società cartiere. Si rileva, inoltre, che il Tribunale, con ordinanza del 7 ottobre 2011, aveva risolto la questione di competenza territoriale relativa ai reati fiscali contestati ai due A. (capi di imputazione D e D1), disponendo la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma, ove aveva sede la società C., che aveva operato l’emissione e l’annotazione delle fatture contestate; e ciò, in virtù della maggiore gravità di tali reati rispetto al reato di partecipazione all’associazione per delinquere. Quanto a tale ultimo reato, ricondotto alla fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 416 codice penale, il Tribunale aveva affermato che la sua natura permanente imponeva una trattazione unitaria delle posizioni di tutti gli aderenti all’associazione, cosicché la competenza non poteva essere ritenuta radicata in Parma. La difesa critica tale conclusione, sostenendo che: o il reato di cui all’art. 416 codice penale deve essere considerato unitariamente e, dunque, la fattispecie di cui al primo comma dello stesso art. 416, contestata ad alcuni dei coimputati, è comunque più grave dei reati scopo, ivi compresi quelli di cui ai capi D e D1, oppure tali ultimi reati, più gravi e contestati come commessi in Parma, attraggono anche la meno grave fattispecie associativa di cui al secondo comma dell’art. 416 codice penale, contestata ai due A..
2.6. – Si rileva, in sesto luogo, l’inosservanza della legge penale in relazione alla ritenuta partecipazione degli imputati A. all’associazione per delinquere. La Corte d’appello si sarebbe limitata, sul punto, a richiamare la sentenza di primo grado. Il Tribunale, per parte sua, avrebbe desunto la partecipazione degli imputati all’associazione dal fatto che questi avevano fruito dell’opera dell’associazione stessa, intrattenendo rapporti commerciali con M.P.. Mancherebbe, in tale quadro, il necessario presupposto dell’affectio societatis, che non potrebbe essere sostituito da quello dell’«utilità della condotta», invece richiamato dal Tribunale. Né vi sarebbe prova dell’effettiva conoscenza degli A. con gli altri partecipanti al sodalizio criminale, perché questi ultimi avevano rapporti solo con M.P., che ritenevano essere il dominus sostanziale di tutte le società, senza avere alcuna consapevolezza della rete interpersonale creata da quest’ultimo.
2.7. – Sempre in relazione alla ritenuta partecipazione degli imputati all’associazione per delinquere, si rilevano – con un settimo motivo di doglianza – la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione. La Corte territoriale non avrebbe risposto alle doglianze difensive contenute nell’atto d’appello e, in ogni caso, non avrebbe considerato in alcun modo il ruolo di A. F.. Si ribadisce, in ogni caso, che gli A. avevano solo rapporti con M.P. e non con altri presunti appartenenti all’associazione.
2.8. – Con un’ottava censura, si rilevano l’inosservanza della legge penale, nonché la mancanza della prova relativa alla realizzazione delle condotte di partecipazione all’associazione, dovendosi ricondurre i fatti di frode carosello e di sovrafatturazione, ove anche sussistenti, alla fattispecie del concorso di persone reato. In particolare, le condotte contestate consisterebbero nella promozione e incentivazione di operazioni in frode all’Iva, commesse interponendo negli scambi società riconducibili a M., al solo fine di conseguire indebiti crediti Iva; consisterebbero altresì nell’incameramento di somme in contanti corrisposte da M., quali restituzioni di parte dell’Iva conseguenti alle sovrafatturazioni poste in essere a beneficio della società C.. Non si sarebbe considerato che non era stato contestato ad A. N. che la merce venduta da C. fosse ritornata alla stessa C.. Né sarebbero probanti, in tal senso, le dichiarazioni dei trasportatori della merce, i quali avevano affermato che i trasporti in realtà non venivano effettuati verso la società apparente destinataria, ma solo verso il cliente finale italiano. Non si sarebbe considerato, infatti, che il documento di trasporto era compilato da M. e non dagli A., in capo ai quali, non vi era, dunque, la consapevolezza della destinazione finale della merce. Quanto alle sovrafatturazioni, le stesse sarebbero state provate tramite intercettazioni telefoniche, ma – secondo la difesa – sulla base di mere illazioni, non essendo emersa alcuna prova concreta di una contropartita legata a tali pretese sovrafatturazioni, se non una labile analogia con comportamenti tenuti da altri.
2.9. – Con un nono motivo di doglianza, si deduce la mancanza di motivazione in relazione alla realizzazione delle condotte di partecipazione ad associazione per delinquere, sul rilievo che non sarebbero state considerate, sul punto, le doglianze difensive.
2.10. – Una decima censura è riferita all’inutilizzabilità delle testimonianze rese dal trasportatore F., perché questo sarebbe stato sentito come semplice testimone e non con le garanzie previste per il concorrente nel reato, che sarebbe quello di falsa fatturazione, a lui ascrivibile per la materiale redazione da parte sua del documento di trasporto. La difesa lamenta che Corte d’appello aveva ritenuto insussistente la violazione dell’art. 63 codice procedura penale, sul rilievo che tale soggetto non avrebbe dovuto essere sentito con le relative garanzie, perché non era stato indagato, senza però considerare che egli pacificamente avrebbe dovuto essere ritenuto concorrente nel reato, avendo sostanzialmente confessato di averlo commesso.
2.11. – Si deduce, inoltre, la nullità della sentenza ex art. 604, comma 1, codice procedura penale, per violazione degli articoli 516 e 522 codice procedura penale, in relazione alla contestazione delle cessioni in nero quale ulteriore condotta di partecipazione all’associazione a delinquere. Non si sarebbe considerato che la difesa aveva formulato un apposito motivo di appello, lamentando la violazione del principio di correlazione tra contestazione e condanna, non essendo mai state contestate le pretese vendite in nero agli imputati A..
2.12. – Sempre in relazione alle richiamate vendite in nero, vi sarebbe violazione di legge, in mancanza di riscontri telefonici e in presenza di annotazioni su agende sequestrate a N. A., dalle quali – secondo la difesa – risultavano al più annotazioni di offerte e non di cessioni.
2.13. – Un tredicesimo motivo si incentra, ancora, sulla ritenuta realizzazione delle cessioni in nero, sotto il profilo della mancanza di motivazione in ordine alla loro effettiva consumazione.
2.14. – Con la quattordicesima censura, si prospettano violazione di legge e vizi della motivazione in relazione alla confisca del denaro presente su due dossier titoli, ritenuto riconducibile all’operatività dell’associazione criminale. Le somme sequestrate venivano qualificate non come prodotto o profitto del reato associativo, ma come prezzo del reato stesso. Era stato disposto anche il sequestro di fabbricati e terreni non più menzionati nelle sentenze di primo e secondo grado, le quali si erano limitate a disporre la confisca di quanto in sequestro. Si trattava, infatti, di un sequestro disposto per equivalente, in ragione della ritenuta natura transnazionale dei reati fiscali relativi alle annualità 2006 e 2007 avente ad oggetto beni privi di ogni relazione con il reato di associazione contestato.
2.15. – Con un quindicesimo motivo di doglianza – erroneamente indicato nel ricorso con il numero 14 – si contesta la motivazione in ordine alla quantificazione della pena, che sarebbe stata ancorata ad un presunto grave danno cagionato alla collettività, del quale non vi sarebbe prova in atti.
2.16. – Con un sedicesimo motivo di doglianza – erroneamente indicato dal ricorrente con il numero 15 – si chiede che venga dichiarata la prescrizione del reato associativo, essendo le condotte partecipative, in ipotesi, commesse fino all’anno 2007 e vertendosi, dunque, in una fattispecie a «contestazione chiusa».
3. – La sentenza è stata impugnata anche dal difensore di B.I..
3.1. – Si deduce, in primo luogo, la mancata notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza di primo grado, cui conseguirebbe l’annullamento sia del decreto che dispone il giudizio in appello, sia della sentenza di appello, con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale, per sanare il vizio di notificazione (Cass., sez. 2, 5 giugno 2012, n. 25778).
3.2. – In secondo luogo, si lamentano l’inosservanza dell’art. 8, comma 3, codice procedura penale, nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla ritenuta competenza territoriale del Tribunale di Milano. Si svolgono, sul punto, rilievi analoghi a quelli svolti dalla difesa degli imputati A. (sopra riportati al punto 2.5.). Si ribadisce, in particolare, che non sarebbe stato considerato il carattere diffuso dell’associazione, della quale non era possibile individuare un unico e stabile centro operativo, in presenza di società «cartiere» aventi sede in diversi luoghi, di società estere, di soggetti prestanome presso le cui residenze le società avevano sede. Si sarebbe dovuta riconoscere, dunque, la competenza del Tribunale di Vicenza o di quello di Bassano del Grappa.
3.3. – In terzo luogo, si deduce la carenza di motivazione in ordine alla mancata assoluzione dell’imputato dal reato di cui al capo I dell’imputazione (artt. 81, secondo comma, 110 codice penale, e 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000), a lui contestato nella sua veste di amministratore di due società «cartiere» del gruppo M., in relazione all’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, che avevano consentito notevoli evasioni dell’Iva in più anni. Con riferimento alla società B.P., la difesa aveva evidenziato, in grado di appello, la mancanza di prova di eventuali retrocessioni dell’Iva, perché vi erano flussi di denaro in uscita a favore di tale F., ma tali flussi erano riferibili ad acquisti di merce al nero. Né i trasportatori avevano confermato che la merce fosse rientrata al punto di partenza, perché la stessa era accompagnata da un documento di trasporto verso l’estero che recava una data posteriore rispetto ai documento di trasporto nazionale. Inoltre – sempre secondo la prospettazione difensiva – la società non poteva ritenersi del tutto inoperativa, perché aveva effettivamente a disposizione un magazzino, tanto che lo stesso imputato era stato visto nell’attività di scarico di merci da camion stranieri. La Corte d’appello non avrebbe tenuto in considerazione le doglianze difensive, non avendole neanche riportate nel corpo della sentenza, ed essendosi limitata ad affrontare questioni relative alla quantificazione della pena.
4. – La sentenza è stata impugnata anche nell’interesse dell’imputato Giovannelli Iuri, in relazione alla mancata considerazione dei motivi d’appello. In particolare, la ditta W.P. di cui al capo 02 dell’imputazione sarebbe stata creata da N. per staccarsi da M.. In tale quadro, G. sarebbe stato posto a capo della ditta da N., rimanendo estraneo a rapporti con M.. La ditta in questione avrebbe operato regolarmente e la dichiarazione Iva per il 2007 sarebbe stata omessa solo perché erano intervenuti i sequestri quando era ancora in corso l’anno fiscale.
5. – Tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione M. F..
5.1. – La prima doglianza del ricorrente, relativa alla capacità del giudice, è formulata in modo analogo a quella dei ricorrenti A. riportata sub 2.1.
5.2. – Si prospetta, in secondo luogo, una censura relativa alla competenza territoriale, analoga a quelle riportate sub 2.5. e 3.2
5.3. – In terzo luogo, si lamenta la manifesta illogicità della motivazione quanto al reato associativo, che sarebbe stato posto in essere dall’imputato attraverso la gestione in via di fatto di dieci società. Non si sarebbe considerato che l’imputato aveva confessato la gestione di solo cinque, società e che egli si era sempre mosso nell’ambito delle direttive impartitegli dal padre e non aveva svolto – come erroneamente indicato in altra parte della sentenza – attività di coordinamento nei confronti degli altri associati.
5.4. – Con un quarto motivo di doglianza, si lamenta la mancanza di motivazione quanto ai reati di cui ai capi H, H1, I, I1, L, L1, N, N1, O, O1, R, R1 dell’imputazione, perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che l’imputato non avesse proposto alcuna impugnazione e, comunque, non avrebbe fornito alcuna motivazione circa la responsabilità penale.
5.5. – Si lamenta, in quinto luogo, sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazione che, in relazione ai capi H, H1, I, I1, J, J1, L, L1, P, P1, Q, Q1 – che non erano stati oggetto di confessione da parte dell’imputato – la Corte d’appello avrebbe indebitamente esteso la valenza probatoria della confessione, in realtà limitata agli altri capi.
6. – La sentenza è stata impugnata anche nell’interesse di M.M.C.., il quale prospetta, in primo luogo, due censure analoghe a quelle sopra riportate sub 5.1. e 5.2., relativamente alla capacità del giudice e all’incompetenza territoriale.
6.1. – Si prospetta, poi, l’erronea applicazione del secondo comma dell’art. 416 codice penale, evidenziando che la condotta addebitata all’imputato è quella di partecipe e organizzatore dell’associazione del padre M.P., perché egli amministrava di fatto due società, coordinandone l’attività di commercializzazione fittizia. Gli unici elementi qualificanti potrebbero al più ravvisarsi – secondo la difesa – nella tenuta della contabilità, nell’esecuzione degli ordini del padre, nell’attività di segretariato, svolte dall’imputato e richiamate ai capi I e I1 dell’imputazione, in relazione all’attività della B.P., «essendo stata invece esclusa l’efficacia causale della condotta in relazione alla S.C. ». Non si sarebbe comunque considerato, sul punto, che per conto della B.P. operava in realtà un soggetto diverso da M. M..
6.2. – Si lamenta, infine, la violazione degli articoli 81 e 133 codice penale, perché i giudici di merito avrebbero calcolato la pena in modo erroneo. Il Tribunale, partendo dalla pena base di tre anni e sei mesi di reclusione per il reato più grave, di cui al capo I dell’imputazione, ha ridotto la pena per le circostanze attenuanti generiche ad anni due e mesi quattro di reclusione; pena poi aumentata per la continuazione di due mesi per ogni capo, giungendo alla pena finale di tre anni di reclusione anziché di due anni e dieci mesi di reclusione. La Corte d’appello ha ridotto la pena di un mese, pur avendo dichiarato la prescrizione con riferimento ad un periodo. Mancherebbe, più in generale, una corretta determinazione dei momenti consumativi dei reati.
7. – La sentenza è stata impugnata anche nell’interesse di M.P..
7.1. – Si svolgono, in primo luogo, considerazioni analoghe a quelle svolte dagli altri ricorrenti circa l’erronea individuazione del giudice competente per territorio.
7.2. – In secondo luogo, si prospettano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla questione relativa alla inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari. Si evidenzia, in particolare, che:
a) la richiesta di proroga del termine per le indagini, avanzata tempestivamente dal pubblico ministero, aveva avuto per oggetto solo i reati fiscali e il reato di truffa e non anche il reato associativo;
b) per tale ultimo reato, il termine di conclusione delle indagini doveva ritenersi spirato l’11 febbraio 2008, cosicché tutti gli atti di indagine successivi avrebbero dovuto essere ritenuti inutilizzabili;
c) l’ordinanza di proroga era stata emessa solo il 3 novembre 2010 e, dunque, dopo che, all’udienza preliminare del 29 ottobre 2010, la difesa aveva sollevato la questione relativa alla mancata proroga delle indagini, eccependo la nullità degli atti successivi al termine naturale di loro conclusione;
d) anche a voler ritenere sussistente una proroga della durata delle indagini, vi sarebbero ulteriori atti posti in essere dal pubblico ministero successivamente, da considerare comunque inutilizzabili.
7.3. – Si lamentano, in terzo luogo, la mancanza, la contraddittorietà, la manifesta illogicità della motivazione, nonché l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice, in relazione al reato associativo. La Corte d’appello avrebbe individuato un disegno criminoso limitato alle sole frodi fiscali e temporalmente circoscritto (dal 2004 al 2008), individuando tali elementi quali segni sintomatici di un’associazione per delinquere, in mancanza sia di una stabile organizzazione, sia dell’intento di compiere un numero indeterminato di violazioni. In particolare, si operava costituendo delle società cartiere con amministratori di comodo, che smettevano di operare una volta raggiunto l’obiettivo; cosicché non permaneva alcun rapporto di questi con gli altri concorrenti. Sarebbe, dunque, al più configurabile un concorso di persone nei singoli reati, anche in presenza di sistemi paralleli creati autonomamente da alcuni dei coimputati, che contrastavano con gli interessi della presunta associazione.
7.4. – Con una quarta doglianza, si rilevano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in relazione ai reati-scopo. Si evidenzia che l’imputato aveva fin dall’inizio confessato di essere il sostanziale responsabile di alcune delle società cartiere, escludendo categoricamente di avere rapporti con altre (W.P., S.C., E.P., W.P., P.), delle quali aveva indicato gli amministratori. La Corte d’appello non avrebbe specificato perché l’imputato sarebbe stato ritenuto attendibile quanto alle prime società e inattendibile quanto alle seconde. In particolare: in relazione alla W.P., i testimoni dell’accusa e l’amministratore N. avrebbero confermato l’estraneità di M.; in relazione alla S.C., non sarebbero state prese in considerazione le censure dell`appellante relative al fatto che quest’ultima era riconducibile solo a tale F.; in relazione a E.P. e W.P., non si sarebbe considerato che le stesse erano gestite da tale D. e non facevano parte, perciò, del gruppo di M.; in relazione a P., vi sarebbe una totale mancanza di motivazione nella sentenza impugnata.
Del tutto insufficiente sarebbe, comunque, la motivazione della sentenza con riferimento alle società per le quali vi era stata assunzione di responsabilità da parte dell’imputato. In particolare, quanto al capo H1, non vi sarebbe stato il superamento della soglia di punibilità con riferimento all’annualità 2005.
7.5. – Si eccepisce, in quinto luogo, la prescrizione dei reati-scopo, intervenuta fra l’aprile 2014 e il giugno 2015.
7.6. – Si prospetta, infine, una doglianza analoga a quella di altri ricorrenti (sub 2.1., 5.1., 6.), relativamente all’avvenuta sottoscrizione della sentenza impugnata da parte di un magistrato già cessato dall’ordine giudiziario.
8. – Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione personalmente l’imputato M.R. P., il quale propone, in primo luogo, una censura analoga a quella degli altri ricorrenti quanto alla competenza territoriale.
8.1. – Con un secondo motivo di doglianza, si rilevano la contraddittorietà, la carenza e la manifesta illogicità della motivazione quanto al reato di cui all’art. 416 codice penale. Si sostiene, in particolare, che non vi sarebbe prova di un accordo volto alla commissione di più reati indefiniti, perché vi erano singole specifiche frodi fiscali che, una volta commesse, non presupponevano l’esistenza di alcun successivo ulteriore accordo e facevano, anzi, venire meno ogni precedente vincolo tra i concorrenti. In particolare, l’imputato M. non aveva alcuna consapevolezza della partecipazione all’attuazione di un programma criminoso, né dell’esistenza di altri soggetti partecipanti; a fronte di una mera serie di reati continuati posti in essere da M. con il contributo di diversi soggetti.
8.2. – Si deduce, in terzo luogo, la manifesta illogicità della sentenza con riferimento alla specifica posizione di M., il quale poteva essere ritenuto al più coinvolto nei rapporti commerciali tra A., B. e CLP, della quale era solo formale amministratore, perché il ruolo gestionale effettivo era invece svolto da L.L., come confermato da M.P.. E M. non avrebbe avuto, in ogni caso, alcun vantaggio, perché le fatture di CLP erano palesemente in perdita, essendo la stessa CLP un mero schermo che serviva a B..
9. – La sentenza è stata impugnata anche nell’interesse dell’imputato N.M., in relazione alla mancata considerazione dei motivi d’appello. In particolare, non vi sarebbe la prova di rapporti duraturi fra M. e i soggetti che fungevano da prestanome per suo conto. Inoltre, la ditta W.P. di cui al capo 02 dell’imputazione sarebbe stata creata da N. per staccarsi da M.. In tale quadro, G. sarebbe stato posto a capo della società da N., rimanendo estraneo a rapporti con M., tanto da non essere imputato per il reato associativo fin dall’inizio delle indagini. La ditta avrebbe operato regolarmente e la dichiarazione Iva per il 2007 sarebbe stata omessa solo perché erano intervenuti i sequestri quando era ancora in corso l’anno fiscale.
10. – Ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza il difensore di P.L..
10.1. – Con un primo motivo di doglianza si ribadiscono le, censure già proposte avverso l’ordinanza del 14 ottobre 2011, con la quale il Tribunale aveva consentito l’ingresso agli atti del fascicolo dibattimentale degli accertamenti eseguiti dall’autorità giudiziaria di San Marino. Sul punto, la Corte d’appello avrebbe incentrato la sua decisione sulla ritenuta assenza di interesse della parte privata a sollevare questione circa il mancato rispetto del principio della «doppia incriminazione», posto esclusivamente a tutela dello Stato destinatario della richiesta. L’ordinanza del Tribunale sarebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità che esclude la possibilità che gli stessi fatti storici possano integrare, in concorso con fattispecie tributarie, anche l’ipotesi di truffa ai danni dello Stato, di cui all’art. 640, secondo comma, n. 1), codice penale. L’autorità di San Marino aveva ritenuto sussistente il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, mentre il Gup aveva prosciolto gli imputati da tale reato all’esito dell’udienza preliminare; cosicché sarebbe mancato il requisito della doppia punibilità.
10.2. – In secondo luogo, si prospettano la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento al reato associativo, essendo al più configurabile un concorso di persone in una pluralità di reati, fra loro legati dal vincolo della continuazione. Mancherebbero, in particolare, l’indeterminatezza del programma criminoso e la stabilità del vincolo associativo.
10.3. – Con una terza censura, si deducono vizi della motivazione in relazione alla specifica posizione che l’imputato avrebbe avuto nell’ambito dell’associazione, con particolare riferimento alla valenza dell’attività di cambio di assegni effettuata nel 2004 a favore di M. tramite conti correnti bancari accesi a San Marino. Si tratterebbe – secondo la prospettazione difensiva – di un’attività del tutto svincolata da un contesto associativo, spiegabile sulla base dei rapporti tra due soli soggetti. Vi sarebbe, nella motivazione della sentenza, un salto logico nella parte in cui la stessa valorizza la totale inesistenza di reali rapporti commerciali fra E., riconducibile a P., e le società riconducibili a M.P., non essendo tale situazione di per sé indice dell’esistenza di un sodalizio criminoso.
10.4. – In quarto luogo, si lamentano l’erronea applicazione dell’art. 62-bis codice penale e vizi della motivazione in relazione al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, motivato sulla base dei soli precedenti penali.
11. – La sentenza è stata impugnata, con unico atto, anche dal difensore di Z.G.e Z.O., il quale svolge una prima doglianza – analoga a quelle svolte da altri ricorrenti (sub 2.1., 5.1., 6., 7.6.) – in relazione alla sottoscrizione della sentenza da parte del presidente del collegio, già precedentemente uscito dall’ordine giudiziario.
11.1. – Una seconda doglianza è riferita all’eccezione di competenza territoriale che la Corte d’appello avrebbe ritenuto preclusa in quanto non dedotta, prima dello scadere del termine decadenziale, nel giudizio di primo grado. La difesa sostiene che la questione era stata proposta all’udienza preliminare e che era stata parzialmente accolta con riferimento ad alcuni dei reati-scopo (in particolare quelli di cui ai capi C e C1, ritenuti commessi in Brescia). Quanto al residuo capo A dell’imputazione (reato di cui all’art. 416 codice penale), la relativa questione sarebbe stata riproposta nelle udienze dibattimentali successive e rigettata dai Tribunale con ordinanza del 7 ottobre 2011. Non sussisterebbe, dunque, alcuna preclusione sul punto, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello.
11.2. – Con una terza doglianza, si prospetta la violazione degli articoli 12 e 16 codice procedura penale, sempre con riferimento alla competenza territoriale. La difesa svolge, sul punto, censure analoghe a quelle svolte da altri ricorrenti (sub 2.5., 3.2., 5.2., 6.) circa l’insussistenza di concreti elementi a sostegno dell’individuazione del luogo di commissione del reato associativo.
Con particolare riferimento alla posizione degli Z., si rileva che la competenza territoriale avrebbe dovuto essere ritenuta radicata in Brescia, luogo in cui sarebbero stati commessi i reati tributari, più gravi rispetto alla partecipazione all’associazione per delinquere ricondotta al secondo comma dell’art. 416 codice penale.
11.3. – In quarto luogo, si lamentano l’erronea applicazione dell’art. 416 codice penale e vizi della motivazione in relazione alla responsabilità degli imputati per il reato associativo. Non sarebbero sufficienti, a tal fine, la dimostrazione e l’analitica descrizione delle condotte di frode fiscale alle quali avrebbero partecipato gli Z. (oggetto di separato giudizio di fronte al Tribunale di Brescia), da cui potrebbe desumersi, al più, un concorso in un reato continuato. Mancherebbe, in ogni caso, una puntuale descrizione della condotta, sia sotto il profilo del dolo, sia sotto il profilo del contributo oggettivamente fornito. E non si sarebbe tenuto conto del fatto che la società amministrata dagli imputati Z. aveva interesse a non porre in essere o, comunque, a porre fine alle operazioni di frode carosello, perché essa si vedeva sottrarre una quota di mercato, praticando prezzi che non godevano di alcun vantaggio fiscale. Nessuna prova a carico degli imputati deriverebbe, poi, dalle intercettazioni telefoniche nelle quali M. F. semplicemente ammetteva di dovere dei soldi a Z. Oliviero. Né i due imputati erano – secondo la difesa – effettivamente a conoscenza di chi fossero i destinatari delle merci, i cui documenti di trasporto non erano da loro redatti, ma redatti su incarico dei clienti, soggetti riconducibili a B.I., come confermato dal trasportatore F.. L’altro trasportatore R. aveva riferito, in relazione ad altri trasporti, che i relativi documenti venivano redatti su incarico dei M.. E non si sarebbero considerate le dichiarazioni rese dal teste Z.F., magazziniere della società nella quale gli imputati Z. operavano, secondo cui egli scaricava e caricava i camion in arrivo, senza che fossero gli imputati a determinare il luogo e il soggetto a cui materialmente veniva consegnata la merce. Analoghe conclusioni avrebbero dovuto essere raggiunte in base alle testimonianze di U. e C., nonché delle versioni dei fatti rese dagli stessi imputati. Sarebbe stata, invece, scorrettamente valorizzata la testimonianza di Salatti, il quale non aveva fornito un’adeguata spiegazione su come conoscesse Z. G. ed aveva ammesso di avere gestito la ditta individuale P.. Tale soggetto avrebbe dovuto essere considerato quale imputato di reato connesso, mancando riscontri della veridicità del suo narrato e, anzi, essendovi rilevanti esitazioni e ambiguità nella sua deposizione. Analoghe considerazioni varrebbero – secondo la prospettazione difensiva – per la testimonianza di S.R., legale rappresentante della P., riconducibile a M., in relazione a triangolazioni commerciali con altre ditte.
11.4. – Con un quinto motivo di doglianza, si deducono vizi della motivazione nonché la violazione degli articoli 132, 133 e 62-bis codice penale, in relazione al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione dei doppi benefici di legge. In particolare, gli Z. sarebbero stati sanzionati più gravemente rispetto a coimputati che, oltre che della partecipazione all’associazione, rispondevano anche di tutti i reati-fine. Inoltre, il reato di cui al primo comma dell’art. 416 codice penale, contestato a M.P. e M. F., sarebbe stato punito meno gravemente rispetto al reato di cui all’art. 416, secondo comma, codice penale, contestato agli Z.. E la diminuzione per le circostanze attenuanti generiche sarebbe stata ingiustificatamente computata in misura inferiore al massimo. Non si sarebbero considerati, poi, la buona condotta processuale di Z. G., che era rientrato in Italia non appena venuto a conoscenza del provvedimento cautelare emesso nei suoi confronti, né il fatto che entrambi gli imputati avevano sempre fornito la medesima versione dei fatti, cosicché non si poteva ritenere sussistente una mancanza di resipiscenza.
11.5. – In prossimità dell’udienza davanti a questa Corte, la difesa ha proposto nuovi motivi di ricorso, formulando una censura analoga a quella dei ricorrenti circa la sottoscrizione della sentenza da parte del presidente, già uscito dall’ordine giudiziario (sub 2.1., 5.1., 6., 7.6., 11.), e deducendo la prescrizione dei reati, che si sarebbe verificata il 24 dicembre 2015.
Considerato in diritto
1. – La questione di legittimità costituzionale.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3, 11, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte in cui impone di applicare l’art. 325, par.par. 1 e 2, TFUE, dal quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, terzo comma, e 161, secondo comma, codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza europea, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato.
2. – La decisione della Corte di Giustizia.
La Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, con sentenza emessa l’8 settembre 2015 (causa C-105/14, Taricco), pronunziandosi sul rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Gip del Tribunale di Cuneo con ordinanza del 17 gennaio 2014, in un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) analoghi – come si vedrà – a quelli oggetto del presente procedimento, ed integranti il consueto schema della c.d. «frode carosello», ha statuito che: «Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’art. 161 di tale codice – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE». La Corte di Lussemburgo, nel solco del precedente Fransson (Grande Sezione, sentenza del 26 febbraio 2013, C-617/10), ha ribadito la propria giurisdizione sulla materia della sanzione delle frodi fiscali, attratta al livello sovranazionale in ragione del possibile impatto finanziario sul bilancio UE di un gettito ridotto a causa dell’inadeguatezza di una disciplina nazionale (par. 38: «La Corte ha in proposito sottolineato che, poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, lettera b), della decisione 2007/436, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione, sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde»). Pur sottolineando la libertà di scelta delle sanzioni applicabili spettante agli Stati membri, che «possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della direttiva 2006/112 e all’art. 325 TFUE», la Corte di Giustizia ha affermato che «possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA» (par. 39), in quanto, l’art. 2, par. 1, della Convenzione PIF (firmata dagli Stati membri dell’UE a Lussemburgo il 26 luglio 1995) prevede che «gli Stati membri devono prendere le misure necessarie affinché le condotte che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà» (par. 40).
Sui fondamento di tale base legale, la Corte ha sostenuto che «gli Stati membri devono assicurarsi che casi siffatti di frode grave siano passibili di sanzioni penali dotate, in particolare, di carattere effettivo e dissuasivo. Peraltro, le misure prese a tale riguardo devono essere le stesse che gli Stati membri adottano per combattere i casi di frode di pari gravità che ledono i loro interessi finanziari» (par. 43).
Alla stregua di tale principio, dunque, la Corte ha individuato nel giudice nazionale il destinatario del compito di «verificare alla luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto rilevanti, se le disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione» (par. 44).
Nel caso dell’ordinamento italiano, non essendo stati sollevati dubbi sul carattere dissuasivo delle sanzioni penali, o sul termine di prescrizione dei reati, bensì sul prolungamento dì tale termine, la Corte di Giustizia ha affermato che «Qualora il giudice nazionale dovesse concludere che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale per combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con l’art. 325, paragrafo 1, TFUE, con l’art. 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF nonché con la direttiva 2006/112, in combinato disposto con l’art. 4, paragrafo 3, TUE» (par. 47). Nondimeno, un secondo presupposto di «illegittimità comunitaria» viene individuato nella disparità di trattamento sanzionatorio con i casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, e riscontrato nella differente disciplina complessivamente prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all’art. 291-quater decreto legislativo n. 43 del 1973 (par. 48: «Inoltre, il giudice nazionale dovrà verificare se le disposizioni nazionali di cui trattasi si applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, come richiesto dall’art. 325, paragrafo 2, TFUE. Ciò non avverrebbe, in particolare, se l’art. 161, secondo comma, del codice penale stabilisse termini di prescrizione più lunghi per fatti, di natura e gravità comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana. Orbene, come osservato dalla Commissione europea nell’udienza dinanzi alla Corte, e con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, il diritto nazionale non prevede, in particolare, alcun termine assoluto di prescrizione per quel che riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco»).
La conseguenza che ne fa derivare la Corte di Giustizia, nel caso di verifica dell’ineffettività sanzionatoria o della disparità di trattamento rispetto alle frodi lesive degli interessi finanziari nazionali, è l’obbligo del giudice nazionale dì disapplicare direttamente le disposizioni in materia di interruzione della prescrizione, senza la mediazione di una modifica legislativa o di un sindacato di costituzionalità, in virtù dell’obbligo degli Stati membri di lottare contro attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione imposti dal diritto primario, ed in particolare dall’art. 325, par. 1 e 2, TFUE (par. 50), che «pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola in esse enunciata» (par. 51).
In forza del principio del primato dei diritto dell’Unione, dunque, la Corte ha affermato l’effetto diretto dell’art. 325 TFUE, che rende ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente (par. 52).
3. – Rilevanza della questione.
La questione di legittimità che viene rimessa al sindacato di costituzionalità ha rilevanza nel procedimento in corso, in quanto la sentenza Taricco ha un valore generale e vincola non soltanto il giudice a quo, ma anche tutti i giudici nazionali, nonché la pubblica amministrazione (ex multis, Corte cost., sent. 13 luglio 2007, n. 284: «Le statuizioni della Corte di Giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni»; Corte cost., n. 389/1989; Corte cost., n. 113/1985). La stessa Corte di Giustizia, nella sentenza Taricco, ha ribadito Che «Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (par. 49).
3.1. – Nei procedimento in oggetto ricorrono le condizioni dalle quali la Corte di Giustizia fa discendere l’obbligo di disapplicazione delle norme di cui agli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, codice penale.
In particolare: ricorre la prima ipotesi di «illegittimità comunitaria», per ineffettività della complessiva disciplina sanzionatoria delle frodi; ricorre anche la disparità di trattamento sanzionatorio con i casi di frode lesiva dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, riscontrata nella differente disciplina complessivamente prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all’art. 291-quater decreto legislativo n. 43 del 1973, in quanto la sentenza della Corte di Appello ha condannato alcuni degli imputati odierni ricorrenti per l’imputazione di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali (capo A dell’imputazione).
In particolare, i requisiti integranti l’illegittimità comunitaria per ineffettività della complessiva disciplina sanzionatoria delle frodi sono, come visto: 1) la pendenza di un procedimento penale riguardante «frodi gravi» in materia di imposta sul valore aggiunto; 2) l’ineffettività delle sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave» che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea.
3.1.1. – Sotto il primo profilo, deve rilevarsi che le imputazioni e la stessa sentenza della Corte di Appello impugnata evidenziano che il procedimento penale riguarda frodi gravi in materia di IVA, suscettibili di ledere gli interessi finanziari dell’UE, avendo ad oggetto uno dei più diffusi sistemi di frode IVA, nella prassi nota come «frode carosello»; termine con cui si intende comunemente un meccanismo fraudolento dell’Iva attuato mediante varie cessioni dì beni, in genere provenienti ufficialmente da un Paese dell’Unione europea, al termine del quale l’impresa italiana acquirente detrae l’Iva, nonostante il venditore compiacente non l’abbia versata; a tal fine, in genere viene interposto un soggetto, c.d. «società filtro», nell’acquisto di beni tra il reale venditore ed il reale acquirente; quest’ultimo risulta formalmente aver acquistato il bene dalla «società filtro», che emette una fattura con Iva, ma omettendo di versarla, mentre l’acquirente si crea una corrispondente detrazione.
In particolare, dall’imputazione di cui al capo A (art. 416 codice penale) e dalla sentenza impugnata, emerge che le frodi carosello venivano realizzate mediante falsa fatturazione e violazione dell’obbligo fiscale in materia di IVA, attraverso l’interposizione di una serie di società che consentiva la realizzazione di una serie di indebiti crediti d’imposta nei confronti dell’amministrazione finanziaria dello Stato, in alcuni casi anche con la predisposizione di documentazione di trasporto falsa, attestante la consegna di una merce in realtà mai consegnata, e attraverso la dissimulazione delle restituzioni di parte dell’Iva in conseguenza delle sovrafatturazioni poste in essere. E tale meccanismo trova compimento nelle condotte di violazione dell’art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestate ai capi H, H1, I, J1, L, N, O, P, Q, R, e consistenti nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti nei confronti delle società che se ne avvalevano allo scopo di realizzare un apparente credito di IVA. Completano il quadro le imputazioni relative alla violazione dell’art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000 (capi H1, I1, j2, K1, L1, N1, O1, P1, Q1, R1), contestate per la mancata presentazione della dichiarazione Iva da parte delle società «cartiere». Si tratta di un insieme di elementi sufficientemente chiaro ed univoco, perché dallo stesso emerge, nei suoi connotati essenziali, proprio quel meccanismo frodatorio cui la richiamata giurisprudenza comunitaria intende porre rimedio; di talché non può assumere rilievo in senso contrario la circostanza che nel presente procedimento non vi sia anche la contestazione dei corrispondenti reati ex art. 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, relativi alla presentazione, da parte delle società riceventi le fatture per operazioni inesistenti, delle dichiarazioni dei redditi mediante l’uso di tali fatture.
3.1.2. – Tanto premesso, deve ritenersi innanzitutto sussistente il requisito, pur non determinato dalla sentenza Taricco nei suoi esatti confini, della gravità della frode: dalla lettura delle numerose imputazioni e della sentenza della Corte di Appello, emerge infatti che il meccanismo frodatorio è stato attuato mediante emissione di fatture per imponibili molto significativi (in molti casi assai superiori al milione di euro e, a volte, superiori ai dieci milioni di euro per anno di imposta) e che l’omesso versamento IVA ha riguardato somme elevatissime (anche esse spesso superiori al milione di euro). E una frode che abbia determinato evasioni fiscali per milioni di euro appare senz’altro connotata dal requisito della gravità.
Va, inoltre, chiarito che nel concetto di «frode» grave, suscettibile di ledere gli interessi finanziari dell’UE, assunto dalla Corte di Giustizia quale presupposto per la disapplicazione dei termini massimi di prolungamento della prescrizione, devono ritenersi incluse, nella prospettiva dell’ordinamento penale italiano, non soltanto le fattispecie che contengono il requisito della fraudolenza nella descrizione della norma penale – come nel caso degli articoli 2, 3 e 11 del decreto legislativo n. 74 del 2000 – ma anche le altre fattispecie che, pur non richiamando espressamente tale connotato della condotta, siano dirette all’evasione dell’IVA. Diversamente opinando, si otterrebbe una irragionevole disparità di trattamento in relazione a condotte comunque poste in essere al medesimo fine illecito, ma, altresì, la considerazione che proprio nelle operazioni fraudolente più complesse ed articolate (come le c.d. frodi carosello), e dunque maggiormente insidiose per il bene giuridico tutelato, le singole condotte, astrattamente ascrivibili alla tipicità di fattispecie penali prive del requisito espresso della fraudolenza – soprattutto a quelle di cui agli articoli 5, 8, 10-ter decreto legislativo n. 74/2000 – rappresentano la modalità truffaldina dell’operazione; sarebbe intrinsecamente irragionevole disapplicare le norme viziate da «illegittimità comunitaria», in relazione alle sole fattispecie connotate dal requisito espresso della fraudolenza, e non disapplicarle nelle fattispecie – strettamente connesse sotto il profilo fattuale, ed indispensabili per la configurazione del meccanismo frodatorio – non connotate dal medesimo requisito.
Ma a corroborare tale principio sovviene, oltre al richiamato profilo di irragionevolezza rilevante sotto il profilo fattuale, un ben più pregnante argomento interpretativo, rappresentato dalla definizione di «frode» rilevante nell’ordinamento sovranazionale: al riguardo, già l’art. 325 TFUE, richiamato dalla Corte di Lussemburgo quale norma di diritto primario fondante l’obbligo di disapplicazione, sancisce che «L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (…)»; se, dunque, l’art. 325 TFUE rappresenta la base legale dell’obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di Giustizia, esso ha ad oggetto «la frode e le altre attività illegali». E del resto, la Corte di Lussemburgo ha affermato il principio in discussione con riferimento ad una «frode carosello» nella quale erano contestate, altresì, fattispecie penali prive del requisito espresso della fraudolenza nella descrizione normativa. Inoltre, nella consapevolezza, che dovrebbe essere comune negli ordinamenti occidentali di civil law, che il linguaggio normativo, soprattutto nel diritto penale, delimita gli spazi di libertà, e dunque è essenziale nell’affermazione (e nelle diverse declinazioni) del principio di legalità, non può omettersi che la nozione di «frode» è specificamente definita dall’art. 1 della Convenzione PIF come «qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa (…) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale [dell’Unione] o dei bilanci gestiti [dall’Unione] o per conto di ess[a]»; norma che viene richiamata dalla stessa sentenza Taricco a proposito dell’irrilevanza del fatto che l’IVA non venga riscossa direttamente per conto dell’Unione (par. 41).
3.1.3. – Con riferimento al secondo requisito individuato dalla Corte di Giustizia per rendere obbligatoria la disapplicazione delle norme sul prolungamento del termine di prescrizione, ed alla verifica, rimessa al giudice nazionale, di apprezzare l’ineffettività delle sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave» che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, va innanzitutto evidenziata l’indeterminatezza del requisito, probabilmente più consono alle differenti esperienze ordinamentali di common law, che pure integrano, sovente in maniera significativa, la matrice culturale e giuridica della giurisdizione europea.
Al riguardo – premesso che tale requisito sarà oggetto di più ampia considerazione nella valutazione della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità – va osservato che, ove si considerasse in astratto, ovvero con riferimento all’integralità dei procedimenti pendenti dinanzi alle autorità giudiziarie italiane, esso implicherebbe una prognosi di natura statistica che esula dai limiti cognitivi e valutativi del giudice, e anche di questa Corte; a ciò ostando – come anche osservato da autorevole dottrina – non soltanto l’assenza di dati statistici affidabili, ma soprattutto l’orizzonte conoscitivo del singolo giudice, necessariamente limitato, dal vigente sistema processuale, ai fatti di causa, ovvero i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e dai quali dipenda l’applicazione di norme processuali (art. 187 codice procedura penale) rilevanti nel singolo processo, e non già nella generalità degli altri processi. Escluso che possa altresì risolversi in una prognosi meramente empirica, fondata su soggettivismi di difficile verificabilità (in senso epistemologico), il requisito del «numero considerevole di casi di frode grave» non può che intendersi, ai fini del giudizio di rilevanza della questione di costituzionalità proposta, in concreto, con riferimento alle fattispecie oggetto del singolo giudizio. Ebbene, alla stregua di tale nozione, deve ritenersi che il requisito ricorra in ragione del numero estremamente significativo di operazioni fraudolente oggetto di contestazione, poste in essere tramite l’interposizione di numerose società, reiterate nell’arco di più anni (dal 2003 al 2008), con la creazione di un’associazione a delinquere che vede il coinvolgimento di mezzi, uomini e strutture, e che ha causato l’evasione dell’IVA per importi di milioni di euro.
3.1.4. – E, come anticipato, ricorre anche la disparità di trattamento sanzionatorio con i casi di frode lesiva dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana. Si procede, infatti, anche per l’imputazione di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali (capo A dell’imputazione); fattispecie che, sotto il profilo della disciplina della durata della prescrizione, presenta un «tetto massimo» (il massimo della pena edittale aumentato di un quarto), che invece non è previsto per l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all’art. 291-quater decreto legislativo n. 43 del 1973.
3.2. – La rilevanza della questione proposta deriva, dunque, dalla circostanza che alcuni dei numerosi reati contestati, ove i termini di prescrizione fossero calcolati secondo le norme di cui agli articoli 160 e 161 codice penale, sarebbero estinti per prescrizione. Al riguardo, essendo previste per i reati fiscali di cui agli articoli 5 e 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, pene non superiori ai sei anni di reclusione, il termine ordinario di prescrizione è pari a sei anni; in caso di atti interruttivi – l’ultimo dei quali, nella specie, Costituito dalla sentenza della Corte d’appello del 16 ottobre 2013 – la prescrizione massima è pari a sette anni e sei mesi. Giova aggiungere che il comma 1-bis dell’art. 17 decreto legislativo n. 74 del 2000, che eleva i termini di prescrizione dei reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto di un terzo, è stato introdotto dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, norma successiva alla commissione dei reati contestati. E tale disposizione è inapplicabile alla fattispecie in esame, per la stessa previsione della disciplina transitoria contenuta nell’art. 2, comma 36-vicies bis del decreto-legge citato, che stabilisce che «Le norme di cui al comma 36 – vicies semel si applicano ai fatti successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Pertanto, prescindendo dai reati in ordine ai quali la Corte di Appello ha già dichiarato l’estinzione per prescrizione, e considerando che dagli atti a disposizione di questa Corte non emergono cause di sospensione, sarebbe comunque maturata, alla data odierna, la prescrizione dei reati fiscali commessi prima del 30 settembre 2008.
Quanto alle imputazioni oggetto del presente procedimento, va evidenziato che il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, si perfeziona nel momento dell’emissione della singola fattura ovvero, ove si abbiano plurimi episodi nel corso del medesimo periodo di imposta, nel momento dell’emissione dell’ultimo di essi (ex plurimis, Sez. 3, n. 6264 del 14 gennaio 2010, Ventura, Rv. 246193; Sez. 3, n. 10558 del 6 febbraio 2013, D’Ippoliti, Rv. 254759). Invece il reato di omessa dichiarazione (art. 5 dello stesso decreto legislativo) si consuma alla scadenza dei termini di legge per la presentazione della dichiarazione (31 ottobre 2006, per l’anno di imposta 2005; 1° ottobre 2007, per l’anno di imposta 2006; 30 settembre 2008, per l’anno di imposta 2007).
Pertanto, dovrebbero considerarsi estinti per prescrizione i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000) contestati ai capi: H, I (fatture emesse negli anni 2006 e 2007); J1, O, R (limitatamente alle fatture emesse nell’anno 2007); L (fatture emesse nell’anno 2006); N, P, Q (fatture emesse nell’anno 2007). E sarebbero del pari prescritti i reati ex art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, di cui ai capi: H1, I1 (limitatamente agli anni di imposta 2005 e 2006); J2 (limitatamente all’anno di imposta 2005); K1 (anno di imposta 2005); L1 (anno di imposta 2006).
La prescrizione, dunque, estinguerebbe molte delle condotte criminose oggetto di imputazione; e tale dato integra senz’altro – unitamente a quello rappresentato dalle numerose condotte (per gli anni di imposta precedenti al 2005) per le quali è stata già dichiarata la prescrizione in grado d’appello e all’unicità di disegno criminoso con il reato associativo – il «numero considerevole di casi di frode grave» che resterebbero impuniti in conseguenza della disciplina sul prolungamento, non oltre un quarto, del termine di prescrizione.
3.3. – La concreta rilevanza della questione non è, in ogni caso, esclusa dalla circostanza che la prescrizione per i reati sopra elencati sarebbe decorsa prima della pubblicazione della decisione della Corte di Giustizia Taricco, dell’8 settembre 2015; ovvero, al più tardi: il 30 giugno 2015, per i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (considerando, quale data dell’ultima fattura emessa nel 2007, il 31 dicembre di quell’anno); il 1° aprile 2015, con riferimento alle omesse dichiarazioni per l’anno d’imposta 2006.
3.3.1 – Questo collegio è consapevole del fatto che, in ordine alla efficacia dell’obbligo di disapplicazione, si registra una divergenza interpretativa: la sentenza Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121, ha disapplicato gli articoli 160 e 161 codice penale nei confronti di imputati per i quali i termini di prescrizione erano già scaduti prima della decisione della Corte di Giustizia dell’8 settembre 2015, sul rilievo che la sentenza Taricco fosse meramente dichiarativa del diritto dell’Unione; anche l’ordinanza n. 339 del 18 settembre 2015 (in Gazzetta Ufficiale n. 2 del 13 gennaio 2016) con la quale la Corte di Appello di Milano ha sollevato questione di costituzionalità ha promosso il giudizio incidentale sul presupposto che quasi tutti i reati in contestazione fossero già estinti per prescrizione (par. 4 del Ritenuto in fatto), e dunque, in considerazione del brevissimo lasso di tempo (dieci giorni) dalla pubblicazione della sentenza Taricco, prima dell’8 settembre 2015. Al contrario, nel solco di una autorevole dottrina, e riprendendo le conclusioni dell’Avvocato Generale nella causa Taricco dinanzi alla Corte di Giustizia, la Sez.4 di questa Corte ha ritenuto che i principi affermati dalla stessa sentenza Taricco, in ordine alla possibilità di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli articoli 160 e 161 codice penale se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, non si applicano ai fatti già prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia (8 settembre 2015), in tal senso reputando non rilevante la questione di costituzionalità sollecitata (Sez. 4, n. 7914 del 25 gennaio 2016, Tormenti, Rv. 266078).
Prende atto dell’esistenza di tali due orientamenti l’ordinanza di promovimento di questione di legittimità costituzionale emessa da altro collegio di questa stessa sezione della Corte di cassazione, in data 30 marzo 2016, in un giudizio che ha per oggetto reati che sarebbero prescritti – secondo il regime degli articoli 160 e 161 codice penale – per la maggior parte, dopo l’8 settembre 2015. E tale ordinanza non prende posizione sulla maggiore persuasività dell’uno o dell’altro di tali orientamenti, ai fini della rilevanza della questione di legittimità proposta, proprio perché, anche qualora dovesse ritenersi maggiormente persuasiva la tesi della non applicabilità del dictum della Corte di Giustizia ai fatti per i quali la prescrizione era già maturata prima della sentenza dell’8 settembre 2015, i reati contestati in tale procedimento risulterebbero prescritti, per la maggior parte, successivamente a tale data.
3.3.2. – Il caso qui in esame ha invece per oggetto, come visto, reati la cui prescrizione sarebbe maturata – secondo il regime di diritto interno – prima dell’8 settembre 2015, con la conseguenza che la questione di legittimità costituzionale che si propone può essere ritenuta rilevante, a condizione di richiamare e ribadire l’orientamento interpretativo fatto proprio dalla sentenza Cass., sez. 3, n. 2210 del 2015, secondo cui la disapplicazione degli articoli 160 e 161 codice penale opera anche nei confronti di imputati per i quali i termini di prescrizione erano già scaduti prima della decisione della Corte di Giustizia dell’8 settembre 2015, sul rilievo che la sentenza Taricco è da considerarsi meramente dichiarativa del diritto dell’Unione.
E ad avviso di questo collegio non vi è spazio per interpretazioni diverse. Come ben evidenziato nella sentenza sez. 3, n. 2210 del 2015, nel caso Taricco, la Corte di Lussemburgo si è limitata ad interpretare una norma (oggi trasfusa nell’attuale art. 325 TFUE) già da tempo esistente nel diritto primario dell’Unione, che ha soltanto topograficamente mutato numerazione e collocazione con il passaggio dal trattato di Maastricht a quello di Amsterdam e poi a quello di Lisbona. Una norma che, imponendo sin dal 1993 agli Stati membri un obbligo di tutela effettiva degli interessi finanziari dell’Unione e, in ogni caso, di una tutela equivalente a quella apprestata ai corrispondenti interessi finanziari nazionali, era già pienamente applicabile al momento in cui erano stati commessi i fatti da parte degli imputati anche nel caso qui in esame. Gli imputati non possono dunque dolersi ora di un’applicazione, a proprio sfavore, di una norma già pienamente in vigore al momento del fatto, e dalla quale già discendeva l’inapplicabilità nei loro confronti della disciplina di cui agli articoli 160, ultima parte, e 161 codice penale. E non appare persuasivo, in senso contrario, l’argomento – espresso da una parte della dottrina – secondo cui la sentenza della Corte di giustizia, nello stabilire come una norma già esistente nel sistema del diritto UE debba essere interpretata, avrebbe natura solo formalmente dichiarativa. Tale argomento si basa essenzialmente sul duplice assunto che:
a) l’imputato non poteva prevedere, al momento dei fatti, che la disciplina prevista dal codice penale italiano in materia di prescrizione sarebbe stata dichiarata dalla Corte di giustizia, nel 2015, contraria all’art. 325 TFUE, o alle disposizioni dei trattati dì Maastricht e di Lisbona che ne costituiscono gli antecedenti;
b) le condizioni per la disapplicazione della normativa interna sulla prescrizione («gravità della frode», «numero considerevole di casi«, «disparità di trattamento con le frodi che ledono interessi finanziari interni») sono state delineate solo dalla pronuncia della Corte di giustizia e non erano precedentemente prevedibili in via interpretativa. Si tratta di un assunto che non appare condivisibile, perché prende le mosse da un mero inconveniente di fatto, costituito dalla difficile prevedibilità dell’esito interpretativo fatto proprio dalla Corte dell’Unione, e pone, quale ulteriore condizione per la disapplicazione della normativa interna, la circostanza che il termine di prescrizione del reato scada dopo l’8 settembre 2015. Si tratta di una circostanza non richiamata dalla stessa Corte, la quale non ha inteso limitare nel tempo – come invece avvenuto in altri casi con esplicite statuizioni – gli effetti della propria pronuncia. Ed è del resto coerente con i principi di riferimento richiamati dalla sentenza Taricco la conclusione che la tutela dell’affidamento dell’imputato nel decorso della prescrizione sia da ritenere in ogni caso recessiva rispetto al superiore interesse finanziario dell’Unione, trattandosi essenzialmente di un affidamento immeritevole, perché avente ad oggetto l’incapacità dello Stato di perseguire e punire tempestivamente il reato. Questo collegio ritiene, dunque, che non vi sia spazio per la contraria interpretazione – costituzionalmente conforme quanto ai reati già prescritti alla data dell’8 settembre 2015 – secondo cui la sentenza Taricco trova applicazione solo per i reati il cui termine di prescrizione viene a scadere dopo tale data, trattandosi di un’interpretazione che non si presta in alcun modo ad essere conciliata con la lettera e la ratio di tale sentenza.
3.4. – Al fine di fugare ogni ulteriore dubbio circa la rilevanza della questione di legittimità costituzionale che qui si propone, è necessario richiamare i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla prescrizione del reato nel giudizio di cassazione, allo scopo di evidenziare che, sulla base degli atti e dei motivi proposti, non emergono profili pregiudiziali dirimenti; con la conseguenza che sarebbe comunque necessario pronunciare l’annullamento senza rinvio della sentenza della Corte d’appello, per essere i reati sopra elencati estinti per prescrizione.
3.4.1. – Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la prescrizione del reato – come l’esistenza di altre cause di non punibilità – deve essere dichiarata a meno che non vi sia il presupposto per l’applicazione dell’art. 129, comma 2, codice procedura penale è costituito dall’evidenza, emergente dagli atti di causa, che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, o non è previsto dalla legge come reato. Solo in tali casi, infatti, la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti per l’immediato proscioglimento devono, però, risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale. E’ necessario, quindi, che la prova dell’innocenza dell’imputato emerga positivamente dagli atti stessi, senza ulteriori accertamenti, dovendo il giudice procedere non ad un «apprezzamento», ma ad una mera «constatazione». E l’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità vale anche in sede di legittimità, tanto da escludere che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre al suo annullamento con rinvio, possa essere rilevato dalla Corte di cassazione che, in questi casi, deve invece dichiarare l’estinzione dei reato. In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione, che gli impone l’obbligo dell’immediata declaratoria della causa di estinzione del reato. E ciò, anche in presenza di una nullità di ordine generale che, dunque, non può essere rilevata nel giudizio di legittimità, essendo l’inevitabile rinvio ai giudice del merito incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva (ex plurimis, sez. 6, 1° dicembre 2011, n. 5438; sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, rv. 244275; sez. un., 27 febbraio 2002, n. 17179, rv. 221403; sez. un. 28 novembre 2001, n. 1021, rv. 220511). Altro principio costantemente affermato da questa Corte è che la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 codice procedura penale, ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall’inammissibilità del ricorso per cassazione, anche dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex multis, sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 42839; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688; sez. un., 22 marzo 2005, n. 4).
3.4.2. – I presupposti per l’applicazione dell’art. 129, comma 2, codice procedura penale, come appena delineati, non sussistono certamente nel caso di specie, con riferimento agli atti di causa e al contenuto della sentenza impugnata.
Infatti, i motivi di ricorso relativi alla responsabilità penale sono tali che il loro eventuale accoglimento renderebbe comunque necessario un rinvio al giudice del merito; rinvio incompatibile – come appena visto – con l’immediata applicabilità della prescrizione.
Essi attengono, infatti, sostanzialmente alla motivazione della sentenza impugnata circa la sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi dei reati contestati, anche con riferimento alla valutazione e all’utilizzabilità delle prove (motivi sopra riportati sub 2.6., 2.7., 2.8., 2.9., 2.10., 2.11., 2.12., 2.13., 3.3., 4., 5.3., 5.4., 5.5., 6.1., 7.2., 7.3., 7.4., 8.1., 8.2., 9., 10.1., 10.2., 10.3., 11.3.). Analoghe considerazioni valgono per le ce nsure che attengono alla regolarità della sottoscrizione della sentenza da parte del presidente del collegio, uscito dall’ordine giudiziario (motivi sopra riportati sub 2.1., 2.2., 2.3., 5.1., 6., 7,6., 11., 11.5.), al tempo trascorso tra la pronuncia della sentenza e il deposito della motivazione (sub 2.4.) a vizi della notificazione dell’estratto contumaciale della sentenza (sub 3.1.), o all’incompetenza territoriale (sub 2.5., 3.2., 5.2., 6., 7.1., 8., 11.1., 11.2.).
Ininfluenti, perché non riferibili neanche indirettamente alla responsabilità penale – e, dunque, all’ambito di applicazione del richiamato art. 129 – sono, infine, le censure relative al trattamento sanzionatorio e a alle circostanze (sub 2.14., 2.15., 6.2., 10.4., 11.4), nonché alla prescrizione (sub 2.16., 11.5.). E ad un primo esame, condotto allo specifico fine della valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, i motivi di ricorso risultano, almeno in parte, non inammissibili; cosicché, quanto meno in relazione alle posizioni di alcuni dei ricorrenti, il rapporto processuale si deve ritenere validamente formato ed impone a questa Corte l’eventuale declaratoria della prescrizione.
4. – Non manifesta infondatezza della questione.
Ricorrendo le condizioni indicate dalla Corte di Giustizia che fondano l’obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare le norme interne di cui agli articoli 160, ult. comma, e 161, comma 2, codice penale, questa Corte dubita della compatibilità di tale obbligo con una serie di fondamentali principi costituzionali. Si sono già evidenziate sub 3.3.2. le ragioni dell’impraticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme dei principi enunciati dalla sentenza Taricco. Né l’oggettiva incertezza di alcuni dei requisiti enunciati da tale sentenza – quali la «frode», la «gravità» della frode, e la ricorrenza del «numero considerevole di casi» – può far propendere per l’alternativa – pur sostenuta da una parte della dottrina – della pratica inapplicabilità dell’obbligo di disapplicazione per indeterminatezza dei presupposti. Tale alternativa non è infatti oggettivamente praticabile, sia per la vigenza di un obbligo di fedeltà «comunitaria», sia per l’applicazione già operata anche da questa Corte (Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121). Deve dunque svolgersi una serie di analitiche considerazioni – in larga parte analoghe a quelle già svolte da questa stessa sezione con l’ordinanza pronunciata il 30 marzo 2016 – circa la portata innovativa della sentenza Taricco e circa l’interpretazione dei parametri costituzionali di riferimento.
4.1. – La dottrina dei controlimiti.
Secondo quanto ripetutamente riconosciuto dalla Corte costituzionale, «la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell’ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare «copertura costituzionale» fornita dall’art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai «principi supremi dell’ordinamento costituzionale» (v. sentenze nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte «in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana» (v. sentenze nn. 183 del 1973, 170 del 1984)» (Corte cost., n. 1146 del 29 dicembre 1988, par. 2.1.).
In particolare, nei rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento (all’epoca) comunitario, la Corte costituzionale ha riconosciuto la prevalenza del diritto sovranazionale nelle materie (in passato molto più circoscritte) di competenza dell’Unione, in ragione delle limitazioni di sovranità cui lo Stato italiano ha consentito sulla base dell’art. 11 Cost.; nondimeno, proprio nell’ambito di tali rapporti, è stata sovente ribadita la «garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali» dell’ordinamento costituzionale o con i «diritti inalienabili della persona umana» (Corte cost., n. 183 del 27 dicembre 1973, par. 9); anche nella sentenza n. 170 del 8 giugno 1984 è stata ribadita la possibilità che «la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e al diritti inalienabili della persona umana», quanto alle disposizioni che «si assumano costituzionalmente illegittime (…) in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi» (par. 7).
La dottrina dei «controlimiti», elaborata come argine rispetto ad eventuali violazioni dei principi fondamentali della Costituzione e dei diritti inviolabili da parte delle fonti degli ordinamenti sovranazionale e internazionale, del diritto concordatario e delle stesse leggi costituzionali e di revisione, è stata concretamente “azionata” con riferimento al principio – ritenuto, appunto, supremo – del diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost., nei rapporti con il diritto concordatario (Corte cost., n. 18 del 2 febbraio 1982, par. 5), e, più di recente, nel rapporto con l’ordinamento internazionale, a proposito della norma consuetudinaria internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione per atti jure imperii (Corte cost., n. 238 del 22 ottobre 2014). In particolare questa seconda sentenza ha evidenziato, sula scia della dottrina, l’oggettività del «limite» (non rimovibile neppure da chi lo oppone), a differenza della declinazione soggettiva e relativa insita nell’originaria formula, elaborata da pur autorevolissima dottrina costituzionale, delle «controlimitazioni» alle limitazioni di sovranità; la sentenza n. 238 del 2014, nell’individuare i «controlimiti» nei «principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale dello Stato (…) che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali della persona» (par. 3.1.), ha ribadito efficacemente la natura dei «principi supremi» ed il sindacato di costituzionalità ad essa riservato in caso di loro compressione: «Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali «controlimiti» all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (articoli 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988). In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. (…) Anche di recente, poi, questa Corte ha ribadito che la verifica di compatibilità con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale e di tutela dei diritti umani è di sua esclusiva competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed ancora, precisamente con riguardo al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), che il rispetto dei diritti fondamentali, così come l’attuazione di principi inderogabili, è assicurato dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120 del 2014)» (par. 3.2.).
Sulla base di tali rilievi vanno, dunque, articolati i dubbi di costituzionalità che l’obbligo di disapplicazione delle norme sul prolungamento dei termini di prescrizione solleva con riferimento a plurimi parametri costituzionali, ritenuti coessenziali al nucleo dell’identità costituzionale dell’ordinamento nazionale. Infatti, oltre al profilo del principio dell’irretroattività della legge penale, sul quale si sono soffermate la già citata ordinanza della Corte di Appello di Milano, nonché le prime pronunce di legittimità, e la dottrina, a parere di questa Corte la dubbia costituzionalità dell’obbligo di disapplicazione deriva in maniera significativa dal principio di riserva di legge, e dagli altri principi fondamentali (articoli 3, 11, 27, comma 2, 101, comma 2, Cost.) invocati quali parametri di costituzionalità, talmente avvinti al «nucleo essenziale» della legalità da dover essere assunti in una considerazione sistematica e complessiva.
4.2. – Il principio di irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.).
La disapplicazione delle norme di cui agli articoli 160, ult. comma, e 161, comma 2, codice penale, imposta dall’art. 325 TFUE, nell’interpretazione attribuita dalla Corte di Giustizia, determinerebbe la retroattività in malam partem della normativa nazionale risultante: l’effetto sarebbe, infatti, quello di allungare i tempi della prescrizione anche in relazione a fatti commessi prima della sentenza Taricco.
Al riguardo, la Corte di Giustizia ha affrontato il problema della potenziale violazione del principio di legalità in materia penale, giungendo ad una conclusione negativa. Adottando quale parametro di riferimento l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (CDFUE) – secondo cui «Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima» – che, in forza del successivo art. 52 CDFUE, recepisce il principio del nullum crimen nell’estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla corrispondente previsione dell’art. 7 CEDU, la Corte di Lussemburgo ha affermato che la materia della prescrizione del reato concerne il profilo processuale delle condizioni di procedibilità del reato, e dunque non è coperta dalla garanzia del nullum crimen; in tal senso, infatti, anche l’applicazione del termine di prescrizione a fatti già commessi, ma non ancora giudicati in via definitiva, deve ritenersi compatibile con l’art. 7 CEDU, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un «fatto» o con una «pena» non previsti dalla legge al momento della sua commissione.
La sentenza Taricco espressamente afferma: «la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana. Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’art. 49 della Carta» (par. 55); di conseguenza, «non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale (v., per analogia, sentenza Niselli, C.457/02, EU:C:2004:707, punto 30), né l’applicazione di una sanzione che; allo stesso momento, non era prevista da tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste» (par. 56); pertanto, nel richiamare la giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla previsione dell’art. 7 CEDU, «che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 49 della Carta», sostiene che «la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’art. 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti» (par. 57).
La minore estensione del riconoscimento offerto, nell’ordinamento sovranazionale e nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, al principio di legalità in materia penale, in quanto limitato alla previsione del fatto e della sanzione, implica, per la Corte di Giustizia, che la disciplina della prescrizione venga attratta nel regime processuale, non già sostanziale, governato dal principio del tempus regit actum.
4.2.1. – Ma la conclusione alla quale giunge la Corte di Giustizia non appare conforme al più esteso riconoscimento del principio di legalità in materia penale nell’ordinamento nazionale, come delineato dalla giurisprudenza costituzionale, e di conseguenza, al principio di irretroattività della legge penale. Al riguardo, infatti, ciò che rileva è che l’obbligo di disapplicazione determinerebbe l’applicazione di una disciplina complessivamente più sfavorevole anche ai fatti commessi prima della sentenza Taricco. L’art. 53 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea sancisce il criterio del best standard del livello di protezione nella tutela multilivello dei diritti fondamentali: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri»; ed il precedente art. 49 della Carta di Nizza riconosce proprio il principio di legalità, ed il corollario dell’irretroattività, tra i diritti fondamentali dell’Unione. Ebbene, pur nella consapevolezza che, nel recente caso M., il più elevato standard di tutela garantito dal sistema domestico (spagnolo) è stato ritenuto recessivo rispetto alla primautè del diritto eurounitario (CGUE, GS, 26 febbraio 2013, M. c. Ministerio Fiscal), la Carta di Nizza afferma che, in caso di asimmetria nella tutela di un diritto fondamentale tra l’ordinamento nazionale e quello europeo, il diritto deve essere riconosciuto e salvaguardato nella sua più ampia estensione, secondo il criterio del best standard, rappresentando la tutela europea il livello di protezione minimo (in tal senso, di recente, si è espresso il Bundesverfassungsgericht, 15 dicembre 2015, R., nella medesima materia, oggetto del caso M., del mandato di arresto europeo, affermando che la protezione dei diritti inalienabili garantiti dalla Costituzione tedesca prevale sull’applicazione della legislazione comunitaria).
Nel caso in esame, dunque, il principio di irretroattività dovrebbe essere garantito nella più ampia estensione riconosciuta dall’ordinamento costituzionale italiano, che vi ricomprende tutti i presupposti della punibilità, compresa la prescrizione.
4.2.2. – Va, del resto, osservato che la prescrizione rientra nell’ambito dei presupposti e delle condizioni della punibilità, ed in ragione di tale dimensione ne viene affermata la natura sostanziale, con conseguente riconoscimento della garanzia dell’irretroattività.
Sul punto, giova rammentare che la prescrizione è configurata nel nostro ordinamento come causa di estinzione del reato, come si evince ad abundantiam dall’inserimento nel relativo Capo I del Titolo VI del codice penale: sebbene la collocazione legislativa delle relative norme non assuma un carattere decisivo, ma sia comunque pregnante – soprattutto ove si pensi al diverso inquadramento del previgente codice Z. del 1889, che qualificava la prescrizione come causa di estinzione dell’azione penale (art. 91) – la concezione sostanziale si fonda anche sull’Interpretazione letterale dell’art. 157 codice penale («la prescrizione estingue il reato») e sulla possibilità, sancita dall’art. 129 codice procedura penale, di un accertamento giudiziale, sia pure nei limiti dell’evidenza probatoria, che il fatto non sussiste o non è preveduto dalla legge come reato o che l’imputato non lo ha commesso, anche allorquando sia maturata la prescrizione; la norma, infatti, induce a ritenere che la prescrizione non incida sull’azione penale, atteso che, non avendo natura processuale, non ha efficacia preclusiva di ogni provvedimento sul merito.
Del resto, l’opinione minoritaria che in dottrina ha sostenuto la natura processuale della prescrizione, ha fondato la propria ricostruzione sull’ultrattività di alcuni effetti (confisca dei beni, obbligazioni civili) derivanti dal reato, seppur prescritto; ma la percorribilità di tale tesi sembrerebbe ancor più problematica alla luce dell’orientamento, ancora controverso, espresso in recenti pronunce, anche della giurisprudenza europea (Corte EDU, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia), sulla illegittimità di una misura ablativa senza una definitiva affermazione di responsabilità penale, in quanto impedita dalla prescrizione.
E tale conclusione trova conferma nella relazione che si instaura tra la prescrizione e altri istituti, che affidano la non punibilità del reato a giudizi ex post ed in concreto (sulla particolare tenuità dell’offesa, nell’art. 131-bis codice penale, sull’esito positivo della prova, nell’art. 168-ter, comma 2, codice penale), che presuppongono il perfezionamento di un fatto astrattamente punibile; tant’è che, nella messa alla prova, il corso della prescrizione del reato – in quanto presupposto astratto della punibilità – è sospeso (art. 168-ter, comma 1, codice penale), e la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis codice penale sia perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 3, n. 27055 del 26 maggio 2015, Sorbara, Rv. 263885).
4.2.3. – Nel senso della natura sostanziale si è espressa anche la giurisprudenza costituzionale, che nella sentenza n. 393 del 23 novembre 2006, pronunciata a proposito della disciplina transitoria della prescrizione introdotta dalla legge n. 251 del 2005, ha espressamente affermato: “la locuzione «disposizioni più favorevoli al reo» si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000; n. 288 e n. 51 del 1999; n. 219 del 1997; n. 294 e n. 137 del 1996). Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione (sentenza n. 275 del 1990) e con l’effetto da essa prodotto, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva» (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (…) l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del materiale probatorio» (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999)”.
E la natura sostanziale della prescrizione è stata di recente ribadita anche dalla sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del raddoppio dei termini di prescrizione per l’incendio colposo (par. 3). Sulla stessa linea si collocano le sentenze con cui, proprio sul presupposto della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione, si è dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale proposte in malam partem, poiché il principio di riserva di legge impedisce di incidere in peius non soltanto sulla fattispecie incriminatrice e sulla pena, ma altresì sugli altri presupposti e sulle condizioni della punibilità. In particolare, secondo quanto sottolineato da Corte cost. n. 324 del 1° agosto 2008, sono da ritenere “Inammissibili pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti, o, comunque, «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi» (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)”. Non contrasta con tale orientamento la sentenza n. 236 del 2011, richiamata da Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121. Con tale pronuncia, infatti, la Corte costituzionale ha semplicemente ribadito che il principio della retroattività della lex mitior non riceve la medesima copertura costituzionale dell’art. 25, comma 2, Cost. riservata all’irretroattività della norma penale sfavorevole, e, vertendo il sindacato sulla disciplina transitoria della prescrizione, ha osservato come il parametro interposto invocato, rappresentato dall’art. 7 CEDU, non fornisse copertura «convenzionale» alla prescrizione, perché estranea al perimetro del principio di legalità nella declinazione della giurisprudenza europea.
4.2.4. – Come già in parte anticipato in sede di motivazione sulla rilevanza della questione (sub 3.3., 3.3.1., 3.3.2.), non ricorrono i presupposti per una interpretazione costituzionalmente conforme dell’obbligo di disapplicazione individuato dalla Corte di Giustizia: al riguardo, non appare persuasiva la tesi, pur autorevolmente sostenuta in dottrina, secondo la quale la disciplina della prescrizione avrebbe natura sostanziale prima dell’esercizio dell’azione penale, assumendo invece natura processuale dopo l’attivazione della pretesa punitiva, con la conseguenza che solo la disciplina dell’interruzione della prescrizione sarebbe attratta nella logica del processo, e dunque sottratta alla garanzia dell’art. 25, comma 2, Cost.; in tal senso, l’obbligo di disapplicazione dei termini «ordinari» di interruzione della prescrizione, sancito dalla sentenza Taricco, e comportanti un prolungamento dei termini massimi della causa estintiva, sarebbe governato dal principio tempus regit actum. La tesi esposta, infatti, si pone in contraddizione con la giurisprudenza costituzionale già richiamata, che ritiene coperti dalla garanzia della riserva di legge tutti gli “aspetti inerenti alla punibilità, (…) fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)” (Corte cost., n. 324 del 2008. E non risulta comunque condivisibile l’assunto di fondo dal quale tale tesi muove, e cioè che la ratio della prescrizione sarebbe duplice: prima del processo, sarebbe legata al «tempo dell’oblio»; dopo l’esercizio dell’azione penale sarebbe governata da una logica di contenimento dei tempi processuali. Infatti, la prescrizione, almeno nella attuale disciplina positiva, non può essere ritenuta funzionale alla salvaguardia del principio della durata ragionevole del processo, perché – come condivisibilmente osservato da autorevole dottrina – la conformazione positiva dell’istituto, il cui corso continua a decorrere pure successivamente all’esercizio dell’azione penale, rende la causa estintiva un (legittimo) obiettivo dell’imputato di definizione processuale che determina, al contrario, una significativa dilatazione dei tempi processuali.
4.2.5. – Peraltro, l’eventuale distinzione tra disciplina sostanziale della prescrizione e disciplina processuale dell’interruzione della prescrizione apparirebbe una fictio insuscettibile di fondare, comunque, un’applicazione di più lunghi termini di prescrizione a fatti commessi in precedenza. Deve infatti ribadirsi che, sotto il profilo del principio di irretroattività della legge penale non rileva che l’aspettativa dell’imputato non riguardi più il tempo di commissione dei reato, ma, dopo l’esercizio dell’azione penale, il tempo del processo. Infatti, un’aspettativa declinata in tali termini sarebbe da qualificare quale interesse di fatto irrilevante sotto il profilo processuale, e ancor prima costituzionale. Ciò che, al contrario, viene in rilievo è il diritto dell’imputato a non subire l’applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente più rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del fatto.
Tale essendo la dimensione sistematica della prescrizione, non merita di essere condivisa, la tesi dottrinale e giurisprudenziale – già analizzata sub 3.3.2. – che propone di delimitare gli effetti dell’obbligo di disapplicazione in malam partem imposto dalla sentenza Taricco ai soli reati per i quali la prescrizione non era ancora maturata al momento della pubblicazione della decisione (8 settembre 2015), escludendo quelli per i quali il termine di prescrizione era già decorso. Tale tesi appare infatti fondata su un duplice argomento fallace: la natura processuale della prescrizione, che ne consentirebbe l’applicazione secondo il principio tempus regit actum, e la natura costitutiva della sentenza della Corte di Giustizia, assunta a fonte diretta del diritto penale. Deve infatti ribadirsi che la sentenza Taricco, non può essere considerata, nell’ordinamento nazionale, alla stregua di una legge processuale, la cui entrata in vigore segna il limite temporale di applicazione. E in ogni caso, anche se l’obbligo di disapplicazione in malam partem dovesse ritenersi riferito ad una disciplina processuale, governata dai principio tempus regit actum, va evidenziato che il dispositivo della sentenza Taricco non indica alcuna delimitazione temporale. E, del resto, anche l’espressione «quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti», contenuta al par. 57 della motivazione, appare quantomeno controversa, potendo riferirsi l’esclusione dell’allungamento dei termini di prescrizione ai soli reati per i quali la prescrizione sia stata già dichiarata; un riferimento, dunque, che, anche in considerazione dell’oggetto del rinvio pregiudiziale, riguardante un procedimento nel quale i reati non erano già prescritti, né si sarebbero prescritti in un lasso imminente di tempo, sembra concernere soltanto i «rapporti esauriti», ovvero i rapporti definiti con sentenza passata in giudicato, con espressa declaratoria di estinzione per prescrizione, e non anche i rapporti ancora pendenti.
4.3. – Il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).
La violazione del diritto dell’imputato a non subire l’applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente più rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del fatto può essere inoltre apprezzata sotto un diverso profilo, che coinvolge la garanzia sancita del diritto di difesa dall’art. 24 Cost., in relazione alla quale la Corte costituzionale ha già fatto valere i controlimiti, quanto alla compressione del diritto di difesa (cfr., supra, 4.1.). Infatti, nel caso qui in esame, un’applicazione retroattiva (ai fatti commessi prima della sentenza Taricco) del prolungamento dei termini massimi di prescrizione comprometterebbe la posizione dell’imputato, che, legittimamente, e sulla base delle informazioni sui presupposti della punibilità vigenti al momento della scelta processuale, abbia deciso di non beneficiare dei vantaggi premiali connessi alla scelta dei riti alternativi, e, sulla base dei nuovi presupposti, più sfavorevoli, non possa più esercitare le facoltà difensive riconosciutegli nella competente scansione procedimentale.
E il sostanziale «cambiamento delle regole in corsa» che conseguirebbe all’obbligo di disapplicazione sancito dalla sentenza Taricco appare suscettibile di violare non soltanto il «nucleo essenziale» del diritto di difesa, riconosciuto e garantito dall’art. 24 Cost., ma altresì il principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento con chi, in analoga situazione processuale, e nella consapevolezza dei nuovi presupposti della punibilità legati al prolungamento dei termini di prescrizione, è ancora in tempo per esercitare le facoltà difensive connesse alla scelta dei riti alternativi, ed ai conseguenti trattamenti sanzionatori premiali.
4.4. – Il principio di tassatività e determinatezza (art. 25, secondo comma, Cost.)
Come anticipato in sede di motivazione sulla rilevanza della questione, la Corte di Giustizia individua ì presupposti dell’obbligo di disapplicazione delle norme sull’interruzione della prescrizione in concetti vaghi ed indeterminati – il cui richiamo sembra dunque comportare una violazione dei principi di tassatività e determinatezza che regolano anche l’istituto della prescrizione – quali «la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE» ed il «numero considerevole di casi di frode grave» che dovrebbe essere oggetto di accertamento giudiziale. Si deve qui ribadire, sotto un primo profilo, che la nozione di «frode grave» è rimessa alla valutazione del giudice, in assenza di parametri normativi univoci e direttamente applicabili. E anche la delimitazione dell’ambito di operatività dell’obbligo di disapplicazione, riconosciuto dalla Corte di Giustizia a «la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE», resta del tutto affidata al giudice, non essendo specificate le fattispecie incriminatrici per le quali tale obbligo dovrebbe valere. Resta, dunque, l’oggettiva indeterminatezza dell’ambito di operatività dell’obbligo di disapplicazione, non essendo disposto, in maniera precisa, se esso operi soltanto con riferimento ai reati tributari con condotta fraudolenta (articoli 2, 3 e 11 – decreto legislativo n. 74/2000), o anche con riferimento ai reati tributari che non descrivono una fraudolenza della condotta (articoli 4, 5, 8, 10, 10-bis, 10-ter, 10-quater – decreto legislativo n. 74/2000), ovvero anche con riferimento ad altri reati potenzialmente offensivi degli interessi finanziari dell’UE (tra i quali l’art. 640-bis codice penale , sovente contestato nei procedimenti penali per le c.d. «frodi carosello»). Deve inoltre osservarsi che l’art. 325 TFUE non pare essere una regola suscettibile di applicazione giudiziale automatica, ma, al più, una regola sulla produzione di norme, diretta all’UE e agli Stati membri; in ambito giurisdizionale, invece, può essere assunta non già come regola, che risponde alla logica della tassatività, bensì come principio, che risponde alla diversa logica del bilanciamento di interessi.
Parimenti indeterminato risulta il parametro costituito dalla valutazione, rimessa al giudice nazionale, dell’ineffettività delle sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave» che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea. E’ sufficiente ribadire, sul punto, quanto già osservato in sede di valutazione della rilevanza della questione di costituzionalità. Tale requisito può essere considerato in astratto, ovvero con riferimento all’integralità dei procedimenti pendenti dinanzi alle autorità giudiziarie italiane; in tal caso, tuttavia, esso implicherebbe una prognosi di natura statistica che esula dai limiti cognitivi e valutativi del giudice, e anche di questa Corte; a ciò ostando non soltanto l’assenza di dati statistici affidabili, ma soprattutto l’orizzonte conoscitivo del singolo giudice, necessariamente limitato, dal vigente sistema processuale, ai fatti di causa, ovvero i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e dai quali dipenda l’applicazione di norme processuali (art. 187 codice procedura penale) rilevanti nel singolo processo, non già nella generalità degli altri processi. In una seconda ipotesi ricostruttiva, il presupposto potrebbe risolversi in una prognosi meramente empirica, del singolo giudice, e dell’esperienza soggettivamente espressa; in tal caso, tuttavia, esso sarebbe del tutto vago ed indeterminato, in quanto fondato su soggettivismi di difficile verificabilità. In una terza ipotesi, seguita da questa Corte ai diversi fini della valutazione della rilevanza della questione, il requisito del «numero considerevole di casi di frode grave» può essere inteso in concreto, con riferimento alle fattispecie oggetto del giudizio rimesso al singolo giudice. In tutti i casi, dunque, anche in quest’ultimo, che sembra affidare al giudice una più ristretta base cognitiva, la valutazione sul «grado» (statistico, soggettivo, empirico) di ineffettività delle previsioni sanzionatorie resta comunque rimessa all’esclusiva decisione del giudice nazionale, sulla base di parametri non predeterminati né predeterminabili; con la conseguenza che la disapplicazione in malam partem finirebbe per fondarsi su vere e proprie valutazioni politico-criminali, riservate, nel nostro ordinamento al potere legislativo.
4.5. – Il principio di separazione dei poteri e di sottoposizione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.). La censurata mancanza di tassatività dei principi-guida espressi dalla sentenza Taricco ha – come anticipato – anche l’effetto di attribuire all’ordine giudiziario un anomalo potere normativo riservato al legislatore, che pare violare il principio fondamentale della separazione dei poteri e il precetto che impone che il giudice sia soggetto «soltanto alla legge». Al riguardo, va ribadito che la soggezione del giudice «soltanto alla legge» comprende certamente anche le fonti sovranazionali che, in virtù delle limitazioni di sovranità consentite con la stipula dei Trattati, integrano il nostro sistema costituzionale delle fonti. Tuttavia, la frizione con il principio di separazione dei poteri non deriva, nel caso in esame, dalla «provenienza» europea, o giurisprudenziale della norma, bensì dal contenuto della norma, che rimette direttamente al giudice la valutazione di adeguatezza di una disciplina penale ai fini di prevenzione. In altri termini – come già visto – al giudice viene affidata una valutazione di natura politico-criminale, relativa all’efficacia general-preventiva della complessiva disciplina penale a tutela degli interessi finanziari dell’U.E., che, in base ai principio della divisione dei poteri, non può che competere al legislatore, nazionale o comunitario che sia.
4.6. – Il principio della finalità rieducativa della pena e il principio di ragionevolezza (artt. 27, terzo comma, e 3 Cost.).
Come già più volte ricordato, l’obbligo di disapplicazione delle norme sull’interruzione della prescrizione, con il conseguente prolungamento dei relativi termini, viene affermato dalla Corte di Giustizia con riferimento ai «casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea». La disciplina, derogatoria rispetto a quella generale, rinviene dunque la propria ratio nella tutela degli interessi finanziari dell’U.E., che fonderebbe una maggiore estensione della punibilità delle «frodi gravi» per la salvaguardia dell’interesse alla percezione dei tributi in ambito comunitario. Tuttavia, il prolungamento dei termini di prescrizione, e quindi della punibilità, in ragione della tutela degli interessi finanziari dell’U.E., comporta una funzionalizzazione della pena che risulta eccentrica rispetto al teleologismo costituzionale: la pena non tende più alla rieducazione del condannato, secondo quanto previsto dall’art. 27, terzo comma, Cost., ma diviene strumento di tutela degli interessi finanziari dell’Unione. In tal modo, la visione personalistica sottesa alla funzione rieducativa della pena affermata dalla Costituzione soccombe alla visione patrimonialistica e finanziaria sottesa alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Né potrebbe fondatamente obiettarsi che gli interessi finanziari dell’Unione sono un legittimo bene giuridico suscettibile di tutela, perché, in tal modo, si incorrerebbe in una inversione metodologica: invero, è pacifico che gli interessi finanziari dell’U.E. (e qualsiasi interesse patrimoniale ritenuto meritevole di tutela da parte del legislatore) fondano la tutela penale apprestata con le relative fattispecie incriminatrici a salvaguardia dell’interesse alla percezione dei tributi (anche “comunitari”); ma l’assetto della punibilità non può essere modificato, mediante prolungamento dei termini di prescrizione, consentendo l’applicazione della sanzione penale all’esclusivo fine di tutelare gli interessi finanziari, anziché al fine di tendere alla risocializzazione del condannato.
Va, al riguardo, richiamata la giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha valorizzato il principio di rieducazione sul piano della struttura del reato (sentenza n. 364 del 1988), e sul piano della dimensione teleologica della pena, mediante l’affermazione dell’immanenza della finalità rieducativa alla fase dell’astratta previsione normativa, della concreta commisurazione, e dell’esecuzione (sentenza n. 313 del 1990).
Sotto diverso ed ulteriore profilo, va sottolineato che il fondamento della prescrizione è stato individuato, dalla dottrina prevalente e dalla stessa giurisprudenza costituzionale, nella funzione special-e general-preventiva della pena, sul rilievo che il decorso del tempo dal reato affievolirebbe le esigenze di prevenzione, sia sotto il profilo dell’allarme sociale, sia sotto il profilo dell’attitudine rieducativa di una pena che verrebbe applicata nei confronti di una persona potenzialmente «diversa», che potrebbe, in ipotesi, essersi nel frattempo integrata e, magari, riappropriata del valore precedentemente offeso. La Corte costituzionale, nella sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con la quale ha dichiarato l’illegittimità del raddoppio dei termini di prescrizione per l’incendio colposo, significativamente evidenzia la connessione tra prescrizione e funzione rieducativa della pena. Afferma, altresì, che entrambi gli elementi, di natura general-e e special-preventiva, sono strettamente collegati alla gravità del reato, come dimostrato dall’ancoraggio legislativo del termine prescrizionale alla pena massima prevista in astratto per il reato; nondimeno, ammette che il legislatore dispone di una ampia discrezionalità nello stabilire termini prescrizionali derogatori rispetto alla mera gravità dei reati; tuttavia, delimita il perimetro di legittimità dell’esercizio di tale discrezionalità, individuando nel particolare allarme sociale di alcuni reati, ovvero nella particolare difficoltà di indagine e di accertamento processuale, che incida in maniera rilevante sulla durata media del processo, le ragioni che possono fondare la previsione di più ampi termini di prescrizione.
Ebbene, nel caso dell’obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di Giustizia, il prolungamento dei termini di prescrizione riguarderebbe non già «alcuni tipi di reato», ma soltanto i reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE. In altri termini, il prolungamento dei termini non coinvolgerebbe tutte le fattispecie astratte di dichiarazione fraudolenta, omessa dichiarazione, emissione di fatture per operazioni inesistenti, previste dagli articoli 2, 5 e 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000, bensì soltanto le fattispecie concrete che «ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea»; non è il «tipo di reato» che viene assunto a discrimen del differente trattamento, ragionevole in virtù del maggior allarme sociale o della complessità dell’accertamento, ma il «tipo di fatto», in quanto offensivo degli interessi finanziari dell’UE.
Tale conseguenza pare comportare una violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto determina ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee: la stessa fattispecie, in ipotesi di dichiarazione fraudolenta, ove lesiva degli interessi finanziari dell’UE, sarebbe sottoposta ad un prolungamento dei termini di prescrizione; ove risulti lesiva di interessi finanziari domestici, sarebbe disciplinata dagli ordinari termini di prescrizione. La medesima tipologia di fattispecie astratta, del resto, esclude che la sperequazione di trattamento possa essere giustificata da un maggior allarme sociale ovvero da una maggior complessità di accertamento.
4.7. – Il principio del rispetto da parte dell’Unione europea dei controlimiti alle limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.).
I controlimiti – a cui si è già fatto riferimento sub 4.1. – assumono rilevanza sia in negativo, nella prospettiva nazionale (ai sensi dell’art. 11 Cost.) e nella prospettiva eurounitaria (ai sensi dell’art. 4.2 TUE), sia in positivo, quali riflessi dei limiti alle attribuzioni dell’Unione imposti dagli stessi Trattati (articoli 83, 258 e 325 TFUE).
In tal senso, va evidenziato che il profilo dei «controlimiti» è legato non soltanto all’individuazione ed alla salvaguardia dei principi supremi, ma altresì alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. Ebbene, le limitazioni di sovranità, oltre a non poter tracimare in vere e proprie cessioni di sovranità, in tanto sono costituzionalmente legittime, in quanto siano adottate «nelle forme e nei limiti» previsti dalle fonti che le consentono. Al riguardo, va ricordato che il Trattato sull’Unione europea, fonte delle «limitazioni di sovranità» consentite ai sensi dell’art. 11 Cost., prevede, all’art. 4.2: «L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». Va anche ribadito che i parametri costituzionali invocati, come si è già osservato, connotano l’identità costituzionale del nostro ordinamento, essendo «insiti» nella struttura fondamentale dello Stato italiano e devono perciò fungere da limite alìambito di applicazione del diritto dell’Unione. E, in tale quadro, deve rilevarsi che la sentenza Taricco sembra travalicare i confini delle attribuzioni riconosciute dal Trattato alle istituzioni dell’Unione. Invero, la Corte di Giustizia individua la «base legale» per la tutela penale degli interessi finanziari dell’U.E. nell’art. 325 TFUE, che, come si evince dalla collocazione e dal tenore, non è una norma penale; l’art. 325 TFUE, infatti, è una disposizione sulla produzione delle leggi, rivolta agli Stati membri, a carico dei quali pone un obbligo di risultato preciso, come si evince dal comma 2, secondo cui «Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari». Da tale disposizione, e dal complessivo quadro istituzionale dell’Unione, deriva che l’eventuale inadeguatezza della tutela penale apprestata da un ordinamento nazionale potrebbe essere sanzionata con una procedura di inadempimento dello Stato membro (art. 258 e ss. TFUE), non già con l’affermazione di un obbligo di disapplicazione con effetti penali in malam partem rivolto ai giudici nazionali; oppure l’Unione avrebbe la possibilità, alternativa, di esercitare i poteri conferiti dall’art. 83 TFUE, mediante adozione di direttive, previo inserimento della materia delle frodi nell’ambito delle competenze penali indirette dell’Unione. E qui si coglie l’ulteriore profilo di travalicamento dei limiti – che, come si è evidenziato, incide sul rispetto dell’art. 11 Cost. – in quanto il Trattato U.E. riconosce alle istituzioni dell’Unione, nell’ambito di quelle «limitazioni di sovranità» consentite dall’art. 11 Cost., competenza penale soltanto indiretta, prevedendo l’adozione di direttive in alcune sfere di criminalità caratterizzate da una dimensione transnazionale; in tal senso, l’art. 83 TFUE prevede che «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni»; e tra tali “materie” non rientrano, allo stato, le frodi agli interessi finanziari dell’Unione, essendo previste le seguenti “sfere di criminalità”: «terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata».
L’assunzione dell’art. 325 TFUE quale «base legale» per la tutela penale di interessi finanziari dell’U.E., dunque, oltre ad eccedere la natura programmatica della disposizione, finisce per attribuire una competenza penale diretta all’Unione, al di fuori degli stessi limiti istituzionali previsti dal Trattato.
5. – Alla stregua delle considerazioni che precedono, va dunque proposta la questione di legittimità costituzionale che può essere sintetizzata come segue:
Se l’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l’esecuzione del Trattato sui funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte in cui impone di applicare l’art. 325, par. 1 e 2, TFUE, dal quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 8 settembre 2015, causa C – 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza europea, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato; violi i controlimiti alle limitazioni di sovranità previste dall’art. 11 Cost. e, in particolare, 1) l’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della irretroattività della legge penale, perché la disapplicazione delle norme di cui agli articoli 160, ult. comma, e 161, comma 2, codice penale, imposta dall’art. 325 TFUE, nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia, determina la retroattività in malam partem della normativa nazionale risultante, con l’effetto di allungare i tempi della prescrizione anche in relazione a fatti commessi prima della sentenza Taricco;
2) gli articoli 24 e 3 Cost., perché un’applicazione retroattiva (ai fatti commessi prima della sentenza Taricco) del prolungamento dei termini massimi di prescrizione comprometterebbe la posizione dell’imputato, che, legittimamente, e sulla base delle informazioni sui presupposti della punibilità vigenti al momento della scelta processuale, abbia deciso di non beneficiare dei vantaggi premiali connessi alla scelta dei riti alternativi, e, sulla base dei nuovi presupposti, più sfavorevoli, non possa più esercitare le facoltà difensive riconosciutegli nella competente scansione procedimentale; con disparità di trattamento con chi, in analoga situazione processuale, e nella consapevolezza dei nuovi presupposti della punibilità legati al prolungamento dei termini di prescrizione, è ancora in tempo per esercitare le facoltà difensive connesse alla scelta dei riti alternativi, ed ai conseguenti trattamenti sanzionatori premiali;
3) l’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della tassatività e determinatezza delle disposizioni penali, perché la Corte di Giustizia individua i presupposti dell’obbligo di disapplicazione delle norme sull’interruzione della prescrizione in concetti vaghi ed indeterminati, quali «la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE» ed il «numero considerevole di casi di frode grave»;
4) l’art. 101, secondo comma, Cost., sotto il profilo della separazione dei poteri e della sottoposizione del giudice soltanto alla legge, perché l’individuazione dei presupposti dell’obbligo di disapplicazione delle norme sull’interruzione della prescrizione in concetti vaghi ed indeterminati ha l’effetto di affidare al giudice una valutazione di natura politico-criminale, relativa all’efficacia generai-preventiva della complessiva disciplina penale a tutela degli interessi finanziari dell’U.E., che spetta, invece, al legislatore;
5) gli articoli 27, terzo comma, e 3 Cost., quanto alla finalità rieducativa della pena e alla ragionevolezza nella determinazione della stessa, perché il prolungamento dei termini di prescrizione, e quindi della punibilità, in ragione della tutela degli interessi finanziari dell’U.E., comporta una funzionalizzazione della pena non più alla rieducazione del condannato, ma alla tutela di tali interessi finanziari, senza il necessario collegamento con la gravità del reato, e con ingiustificabili sperequazioni di trattamento nei confronti di chi commetta analoghi reati con esclusiva lesione di interessi finanziari domestici;
6) l’art. 11 Cost., il quale prevede il rispetto, da parte dell’Unione europea, dei controlimiti alle limitazioni della sovranità degli Stati membri, perché i principi espressi con la richiamata sentenza Taricco travalicano i confini delle attribuzioni riconosciute dal Trattato alle istituzioni dell’Unione, utilizzando come «base legale» per la tutela penale degli interessi finanziari dell’U.E. l’art. 325 TFUE, che non è una norma penale e non attribuisce una competenza penale diretta all’Unione.
P.Q.M.
Letto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare l’art. 325, par. 1 e 2, TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 8 settembre 2015; causa C-105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli articoli 3, 11, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101, secondo comma, Cost.
Sospende il giudizio in corso, ed i relativi termini di prescrizione, fino alla definizione del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Manda la Cancelleria per gli adempimenti di rito, disponendo che gli atti siano immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, e che l’ordinanza sia notificata alle parti ed al Pubblico Ministero, nonché al Presidente del Consiglio dei ministri, e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.