CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 dicembre 2017, n. 29335
Tributi – IVA – Credito – Richiesta di rimborso – Diniego – Risarcimento danni
Rilevato che
G. L. T. s.r.l. in liquidazione convenne in giudizio con atto di citazione del 13 aprile 2000 innanzi al Tribunale di Roma il Ministero delle Finanze (in seguito Agenzia delle Entrate) chiedendo il risarcimento del danno conseguente all’illegittimo diniego del rimborso ai sensi dell’art. 30 d. P.R. n. 633 del 1972 del credito IVA relativo all’anno 1991 ed al ritardo nella liquidazione del rimborso relativo all’anno 1992. Espose la parte attrice che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale il ricorso proposto avverso il diniego del credito relativo all’anno 1991 e che successivamente era stata presentata istanza di rimborso contro rilascio di garanzia fideiussoria, come consentito da risoluzione ministeriale che autorizzava il rimborso in presenza di contenzioso mediante la prestazione di fideiussione, istanza rimasta priva di esito. Aggiunse che la Commissione tributaria regionale aveva accolto l’appello dell’Ufficio e che era stato presentato anche ricorso in relazione all’anno d’imposta 1992, ricorso accolto dalla Commissione tributaria provinciale, con rigetto poi dell’appello non impugnato in sede di legittimità. Il Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza propose appello la società. Con sentenza di data 16 novembre 2009 la Corte d’appello di Roma rigettò l’appello.
Osservò la corte territoriale che, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante, il Tribunale non aveva ritenuto esistente la prova del danno e del nesso di causalità, essendosi limitato ad affermare in linea di principio la potenziale lesività del comportamento dell’Amministrazione e che prima di affrontare la questione del quantum doveva accertarsi se vi fosse stato un comportamento colpevole dell’Amministrazione. Precisò che l’Ufficio, rifiutando il rimborso per gli anni 1991 e 1992, aveva legittimamente interpretato la normativa secondaria di settore, resistendo anche nei giudizi tributari. Aggiunse che il pagamento dei rimborsi IVA per gli anni 1991 e 1992 era avvenuto in osservanza delle decisioni del giudice tributario, investito di una questione interpretativa di ragionevole disputabilità ed onerosa per l’Erario, e che mancava quindi la prova che nel rifiuto del controverso rimborso dell’IVA vi fosse stata una deliberata violazione delle regole di imparzialità e correttezza in danno del contribuente, né poteva parlarsi di inescusabile errore di diritto, suscettibile di integrare il comportamento colposo dell’Amministrazione. Osservò quindi che la garanzia fideiussoria, «in corso di formalizzazione», non era stata presentata contestualmente alla presentazione dell’istanza di rimborso (rispetto alla quale l’Amministrazione aveva peraltro comunque il potere discrezionale di concedere il rimborso).
Ha proposto ricorso per cassazione G. L. T. s.r.l. in liquidazione sulla base di tre motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, comma 2, cod. proc. civ.. E’ stata presentata memoria.
Considerato che
con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.. Osserva il ricorrente che, avendo il Tribunale riconosciuto l’esistenza del danno ingiusto («non vi è dubbio che il mancato e tempestivo pagamento degli importi dovuti a titolo di rimborso IVA ha potuto comportare alla società attrice un pregiudizio economico…occorre allora accertare se l’evento dannoso in questione sia o meno qualificabile quale danno ingiusto…»), non si comprende come il giudice di appello abbia potuto sostenere che il Tribunale non ha ritenuto esistente la prova del danno e del nesso di causalità e che tale statuizione non rispetta il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato e quello dell’effetto devolutivo dell’appello Il motivo è infondato. Il ricorrente desume la violazione degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ. da una mera affermazione del giudice di appello di portata interpretativa della statuizione di primo grado. La mera interpretazione di quanto statuito dal giudice di primo grado non integra, in mancanza di altre circostanze caratterizzanti il fatto processuale, la violazione dei principi alla base delle norme menzionate. Peraltro non è inutile aggiungere che il passaggio motivazionale menzionato dal ricorrente, nel quale il giudice di merito afferma che si deve «accertare se l’evento dannoso in questione sia o meno qualificabile quale danno ingiusto», non corrisponde ictu oculi a riconoscimento dell’esistenza del danno ingiusto.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2727 e 2729 cod. civ., 43 cod. pen., 28 e 97 Cost., ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.. Osserva il ricorrente che secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato è sufficiente per il danneggiato allegare l’illegittimità dell’atto amministrativo annullato, in quanto attestante la violazione dei parametri che specificano la colpa della pubblica amministrazione, con inversione dell’onere della prova a carico di quest’ultima, e che non era prospettabile l’errore scusabile avendo l’Amministrazione denegato il rimborso sulla base di una tesi in contrasto insanabile con le norme primarie e smentita dalla pronuncia n. 5651 del 2001 della Corte di cassazione (confermativa dell’indirizzo espresso da Cass. n. 5532 del 1999), che aveva cassato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di accoglimento dell’appello dell’Ufficio. Aggiunge che quello che rileva è la pervicace resistenza dell’Amministrazione finanziaria che ha insistito nella errata lettura della normativa e che in relazione alla mancata prestazione della garanzia fideiussoria era interesse dell’Amministrazione, pur titolare del potere discrezionale di erogare il rimborso, sollecitarne la presentazione in presenza di una decisione favorevole per il contribuente.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ. in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva il ricorrente che in presenza di comportamento illegittimo ciò che spettava dimostrare al contribuente era l’avvenuto annullamento del diniego, mentre era onere dell’Amministrazione finanziaria dimostrare l’esclusione di ogni ipotesi di colpa.
Il secondo ed il terzo motivo, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono infondati.
Va premesso che, secondo il costante orientamento di questa Corte, nel caso in cui venga introdotta, avanti al giudice ordinario, una domanda risarcitoria, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio di una funzione pubblica, il giudice deve procedere, in ordine successivo, alle seguenti indagini: a) in primo luogo, deve accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) deve, poi, stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) deve, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della P.A.; d) infine, deve verificare se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., considerando che tale imputazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell’illegittimità del provvedimento, richiedendosi, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana e non può essere reputato sussistente in re ipsa (Cass. 31 ottobre 2014, n. 23170; 15 marzo 2012, n. 4172; 10 novembre 2011, n. 23496; 8 marzo 2010, n. 5561; 27 maggio 2009, n. 12282; 15 marzo 2007, n. 6005; 29 marzo 2004, n. 6199).
Anche la giurisprudenza amministrativa reputa che elemento costitutivo della fattispecie sia il requisito soggettivo della colpa, coerentemente alla natura del danno ingiusto. Sulla base di tale comune presupposto secondo un indirizzo, al di fuori del peculiare settore degli appalti pubblici – dove la specialità del sistema di tutela (fortemente connotato dall’impronta derivante dalla normativa U.E.) giustifica un regime speciale di responsabilità di natura essenzialmente “oggettiva ” -, negli altri ambiti la responsabilità civile della Pubblica amministrazione continua ad essere di natura “soggettiva ” e, quindi, fondata anche sull’elemento della colpa, in conformità con la regola che vale nei rapporti tra privati (art. 2043, c.c.), ma la colpa non si identifica nell’illegittimità del provvedimento, richiedendo un quid pluris, rappresentato dalla rimproverabilità soggettiva, in termini di inescusabilità, dell’errore che ha determinato il vizio di invalidità del provvedimento amministrativo, fonte materiale del danno (Cons. Stato, sez. V, 19 giugno 2017, n. 2986; sez. V, 21 aprile 2016, n. 1584; sez. Ili, 9 giugno 2014, n. 2896; sez. V, 27 maggio 2014, n. 2708; sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 744; sez. IV, 12 febbraio 2014, n. 674).
Secondo altro indirizzo il privato può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto dovendosi per il resto fare applicazione, al fine della prova dell’elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’art. 2727 c.c.; di conseguenza spetta all’Amministrazione dimostrare che si è verificato un errore scusabile, il quale è configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, d’influenza determinante di comportamenti di altri soggetti o di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione d’incostituzionalità della norma applicata; graverebbe quindi sulla p.a. la prova della particolare complessità del quadro giurisprudenziale e normativo relativamente ai profili di illegittimità della procedura di assunzione ai fini della scusabilità dell’errore (Cons. Stato, sez. IV, 6 aprile 2017, n. 1607; sez. IV, 22 novembre 2016, n. 4896; sez. VI, 28 agosto 2013, n. 4310; sez. V, 12 febbraio 2013, n. 798; sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482). Questo secondo indirizzo non esclude l’autonomia del requisito soggettivo della colpa, ma sul piano probatorio attribuisce all’illegittimità il carattere di indice presuntivo della sua esistenza.
Deve inoltre essere considerato che le peculiarità dell’obbligazione tributaria impongono che l’azione dell’Amministrazione finanziaria sia vincolata al dettato normativo nella determinazione dell’an e del quantum del tributo fissato dal legislatore e che non residua in linea di principio alcuno spazio valutativo degli interessi del privato coinvolti nella fattispecie concreta, diversi da quello della applicazione del tributo in misura conforme alla capacità contributiva espressa dal presupposto. L’errore scusabile dell’Amministrazione non attiene quindi alla complessità del fatto relativa gli interessi da ponderare, implicata dall’esercizio della discrezionalità amministrativa.
Ciò premesso, va detto che la regola dell’onere della prova è una regola residuale di giudizio in conseguenza della quale la mancanza, in seno alle risultanze istruttorie, di elementi idonei all’accertamento della sussistenza del diritto in contestazione determina la soccombenza della parte onerata della dimostrazione dei relativi fatti costitutivi (Cass. 16 giugno 1998, n. 5980). Il giudice di merito ha affermato che mancava la prova che nel rifiuto del controverso rimborso dell’IVA vi fosse stata una deliberata violazione delle regole di imparzialità e correttezza in danno del contribuente e ha posto le conseguenze sfavorevoli di tale mancanza di prova in capo al contribuente. In tale modo ha correttamente posto a carico del contribuente l’onere della prova in ordine al requisito della colpa. Anche seguendo l’indirizzo di parte della giurisprudenza amministrativa secondo cui l’illegittimità dell’azione amministrativa è indice presuntivo della presenza della colpa, il giudice di merito ha escluso l’efficacia presuntiva in discorso perché ha valutato, in base ad un proprio giudizio di merito impugnabile nella presente sede di legittimità solo nei limiti del vizio motivazionale, che l’Ufficio ha legittimamente interpretato la normativa con riferimento ad «una questione interpretativa di ragionevole disputabilità», sicché ha ritenuto insussistente un profilo colposo nella condotta dell’Amministrazione (la stessa ricorrente deduce del resto che il primo intervento della Corte di Cassazione, a chiarimento della normativa, è del 1999 e dunque successivamente alla condotta dell’Amministrazione per la quale è stato promosso il giudizio).
Per il resto la censura, in particolare nel secondo motivo, confluisce nella rivisitazione del giudizio di merito in ordine all’esistenza della condotta colposa dell’Amministrazione, che è profilo valutabile nella presente sede di legittimità esclusivamente nei limiti del vizio motivazionale quale omesso esame di fatto decisivo e controverso (art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.), vizio nella specie non denunciato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo sulla base del valore della domanda in appello così come indicato a pag. 13 del ricorso, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
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