CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 giugno 2017, n. 14399
Tributi – ICI – Rendita catastale – Rideterminazione – Maggiore imposta dovuta
Rilevato
che la A. s.p.a. propone ricorso, affidato a un motivo, illustrato con memoria, per la cassazione della sentenza del 19/1/12, depositata il 5/3/2012, della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, che in parziale accoglimento dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e dal Comune di Taranto, avverso le riunite decisioni di primo grado, ha rideterminato la rendita catastale riguardante il fabbricato della contribuente, con ogni conseguenza in ordine alla maggiore imposta comunale sugli immobili (ICI) richiesta, dall’ente impositore, con interessi e sanzioni, per ciascuno degli anni (1999, un mese, 2000, 2001 e 2002) di cui agli avvisi di accertamento, oggetto delle distinte impugnazioni proposte dalla contribuente;
che il Giudice di appello, in particolare, ritenendo condivisibili le conclusioni del CTU, accoglieva gli appelli, procedeva alla determinazione della rendita catastale del fabbricato in € 106.515,00, avuto riguardo “alla ubicazione periferica ed alla situazione urbanisticamente limitata” del bene, disponeva che il Comune di Taranto dovesse riquantificare l’imposta in relazione alla rendita giudizialmente determinata, dichiarava non applicabili né sanzioni, né interessi, così come già deciso in prime cure, anche con riferimento alla omessa denuncia contestata alla incorporante società A., compensava infine le spese del giudizio;
che I’ Agenzia delle Entrate ed il Comune di Taranto resistono con controricorso ed entrambi gli intimati propongono ricorso incidentale, illustrato dal Comune con il deposito di una memoria;
Considerato
che la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 29, D.P.R. n. 1141 del 1949, 5, D.Lgs. n. 504 del 1992, 34, D.P.R. n. 917 del 1986, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 54, comma 3, D.L. n. 83 del 2012, avendo la CTR pedissequamente basato la decisione sulle conclusioni del nominato CTU, attribuendo al fabbricato di proprietà della società una rendita catastale eccedente il tasso di fruttuosità del 2% sul valore dello stesso, nonostante l’erroneità del processo di stima fosse stata oggetto delle articolate censure del consulente tecnico di parte, illustrate nella memoria in data 21/12/2011 della contribuente;
che il Comune con il ricorso incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, violazione degli artt. 10 e 11 D.Lgs. n. 504 del 1992, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione, in ordine alla sanzione irrogata per l’anno 1998, per omessa presentazione della denuncia ICI, e in ordine alla sanzione irrogata per l’annualità 1999, sempre per omessa presentazione della denuncia, nonché omessa pronuncia rispetto al rilevato vizio di ultrapetizione, violazione degli artt. 3, 10 e 14 D.Lgs. n. 504 del 1992, nonché carente motivazione della decisione avendo la CTR ritenuto applicabile l’art. 74, L. n. 342 del 2000, quanto alle sanzioni (ed agli interessi), e quindi non dovuta la sanzione irrogata per l’omessa dichiarazione del cespite immobiliare, che pacificamente apparteneva ad altra società (l’incorporata A.), avendo la CTR ritenuto che l’obbligo della dichiarazione poteva riferirsi solo all’anno 1995, nel quale aveva avuto inizio il possesso dell’immobile, sicché per l’annualità 1998 il Comune avrebbe potuto semmai contestare alla incorporante l’omesso versamento dell’imposta, non considerando che siffatto obbligo di dichiarazione permane per ciascuna delle annualità in cui il contribuente ha mantenuto il possesso dell’immobile, per cui la società A. era tenuta a presentare la dichiarazione ICI per il 1999, anno nel quale è iniziato per la incorporante il possesso prima riferibile alla incorporata società A., rispondendo anche per gli anni precedenti, per avere “ereditato tutte le posizioni soggettive” di quest’ultima società; che con il secondo motivo del ricorso incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto la sanzione per l’omessa denuncia, da parte della incorporante, relativamente all’anno 1999, avrebbe dovuto condurre alla conferma della sanzione irrogata alla incorporata per l’anno 1998, cosa invece non avvenuta; che con il terzo motivo del ricorso incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, omessa pronuncia in ordine al rilevato vizio di ultrapetizione, oggetto di specifico motivo di appello, in relazione all’art. 112 c.p.c., giacché la sentenza della CTR, in merito alla sanzione irrogata alla società A., per l’omessa dichiarazione dell’immobile in contestazione nell’anno 1999, pur avendone acquisito il possesso a seguito della incorporazione della società A., è rimasta assolutamente silente; che con il quarto motivo del ricorso incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e 14, D.Lgs. n. 504 del 1993, giacché la CTR non ha considerato che, per effetto della incorporazione, in capo alla società A. è configurabile un nuovo ed autonomo obbligo di dichiarazione, sanzionabile dal Comune in maniera del tutto distinta rispetto all’obbligo gravante sulla società incorporata;
che con il quinto motivo del ricorso incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio giacché la CTR ha respinto il gravame proposto sul punto dal Comune senza dar conto della ragione giustificativa della decisione;
che l’Agenzia delle Entrate con il ricorso incidentale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la nullità della sentenza della CTP di Taranto n. 383/04/2007, depositata il 15/10/2007, e per tale motivo appellata, in quanto il ricorso introduttivo non risulta essere stato notificato ad un litisconsorte necessario, con conseguente caducazione del relativo giudizio;
che la censura oggetto del ricorso principale è fondata e merita accoglimento;
che la contribuente si duole, per violazione di legge e vizio motivazionale, della determinazione di un tasso di fruttuosità diverso da quello del 2% previsto uniformemente ed autoritativamente dalla legge, ritenuto non applicabile dalla CTR con una decisione la cui motivazione per retationem richiama gli argomenti svolti dal CTU senza però confutare le critiche svolte dalla difesa della contribuente e dunque senza dare conto del perché la rendita catastale è stata giudizialmente determinata in € 106.515,00;
che alla unità immobiliare de qua, come risulta dalla stessa sentenza impugnata, è stata attribuita la categoria catastale D, che ricompre gli immobili a destinazione speciale, e per tale tipo di categoria il D.M. Finanze 14 dicembre 1991 (recante determinazioni dei moltiplicatori da applicare a partire dal 1992 alle rendite catastali dei fabbricati e dei terreni per stabilire il valore minimo da dichiarare ai fini della imposta di registro, della imposta sulle successioni e donazioni, e delle connesse imposte ipotecarie e catastali, e dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili) prevede, all’articolo unico, comma 2, che il moltiplicatore di cento volte di cui al D.P.R. n.131 del 1986, art. 52, comma 4, al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 34, comma 5, e al D.L. n. 70 del 1988, art. 12, comma 1, conv. in L. n. 154 del 1988, per le unità immobiliari classificate nei gruppi D ed E, si applica all’ammontare della nuova rendita attribuita per stima diretta, nella misura pari, rispettivamente, a 50 ed a 34;
che tali coefficienti trovano impiego tutte le volte in cui la liquidazione della imposta richieda di determinare il valore degli immobili mediante utilizzo della rendila catastale (a tal fine il moltiplicatore si applica, nella misura prevista dal decreto, all’ammontare della rendita catastale, periodicamente rivalutata), e di conseguenza dalla entità di tali moltiplicatori si ricava, in senso inverso, che il saggio di capitalizzazione delle rendite catastali, quale fa riferimento il D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, art. 2 per la determinazione del capitale fondiario, è rappresentato per le categorie sopra indicate rispettivamente da 2% e dal 3%;
che la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel riconoscere che il saggio di capitalizzazione della rendita, in quanto uniformemente ed autoritativamente determinato per ciascun gruppo di categorie catastali, non è suscettibile di essere modificalo dalla PA nell’esercizio del suo potere discrezionale e, correlativamente, la individuazione dello stesso non può essere condizionata in alcun modo dalla “proposta” formulata dal contribuente, attesi i poteri correttivi dell’Ufficio accertatore; che va quindi ribadito il principio diritto secondo cui <<in tema di determinazione della rendita catastale dei fabbricati a fini fiscali, l’Agenzia del Territorio non dispone di alcun potere discrezionale nella individuazione del saggio di interesse da applicare al capitale fondiario, al quale fa riferimento il D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, art. 29, in quanto lo stesso deve essere determinato, anche per gli immobili classificati nei Gruppi D ed E, in misura fissa ed inversa rispetto ai moltiplicatori previsti dal D.M. 14 dicembre 1991, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che, per detti immobili, la rendita deve essere determinata per stima diretta, ai sensi del D.P.R. n. 142 del 1949, art. 30, in quanto ai fini fiscali il valore degli immobili si determina, in generale, applicando all’ammontare delle rendite risultanti in catasto, periodicamente rivalutate, i moltiplicatori previsti dal D.M. 14 dicembre 1991, richiamato dal D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 52 di quali appunto si ricava in senso inverso il saggio di capitalizzazione>> (Cass. n. 25555/2014; n. 27980/2011; n. 5843/2011; n. 133/2006; n. 10361/2006; n. 9056/2005; n. 12446/2004; n. 10037/2002); che, pertanto, la sentenza impugnata merita di essere censurata in quanto il tasso di fruttuosità (2,50%) applicato dal CTU non ha tenuto conto dei suesposti limiti e la motivazione del Giudice di appello si limita, sul punto, ad affermare apoditticamente la correttezza delle conclusioni dell’esperto, così da rendere impossibile determinare l’iter logico della decisione circa la corretta e congrua valutazione del valore attribuito al fabbricato al fine di applicare l’ICI, non risultando prese in considerazione né le argomentazioni del Comune circa la correttezza del proprio operato in sede di stima, né quelle di segno opposto della società contribuente volte a dimostrare il minor valore commerciale del bene;
che le censure oggetto del ricorso incidentale del Comune, scrutinabili congiuntamente, sono fondate e meritano accoglimento;
che l’Ente impositore si duole, per violazione di legge e vizio motivazionale, della ritenuta inapplicabilità della sanzione per omessa dichiarazione ICI, per l’annualità 1999, avendo la incorporante società A. acquisito il possesso dell’immobile nell’anno a seguito della incorporazione della società A. (giusta atto a rogito del notaio Mancuso in data 12/3/1999) ed evidenzia che, stante l’autonomia dei periodi d’imposta, la sanzione, ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, si applica per ciascuna annualità per la quale la denuncia è stata omessa e, quindi, per ciascuno degli anni in contestazione;
che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, <<l’obbligo, posto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, comma 4, di denunciare il possesso ovvero di dichiarare le variazioni degli immobili già dichiarati qualora incidenti sulla determinazione della imposta, non cessa allo scadere del termine fissato dal legislatore con riferimento all’inizio del possesso (e per gli immobili posseduti al 1° gennaio 1993 con la scadenza del termine per la dichiarazione dei redditi relativa all’anno 1992) ma permane finché la dichiarazione (o denuncia) non sia presentata e determina, per ciascun anno di imposta, una autonoma violazione punibile ai sensi del citato D.Lgs, art. 14, comma 1. È infatti errato ritenere che la violazione dell’obbligo di denuncia abbia natura istantanea, ovvero si esaurisca con la mera violazione del primo termine dettato a tal fine dal legislatore, in forza della considerazione che la disposizione in esame produce effetto (in mancanza di variazioni) anche per gli anni successivi, in quanto è ovvio che tale effetto (c.d. ultrattività della dichiarazione) possa solamente verificarsi in presenza di una dichiarazione, e non in assenza della stessa. Per cui, ove detta dichiarazione (o denuncia) sia stata omessa in relazione ad una annualità di imposta, detto obbligo non viene meno in relazione alla annualità successiva, sicché la sanzione può essere evitata solo con la presentazione di una denuncia valida anche ai fini della annualità considerata. Ne consegue che in assenza dichiarazione ogni annualità di imposta deve essere gravata della sanzione di cui all’art. 14 cit., comma 1>> (Cass. n. 8849/2010);
che la sentenza impugnata non si è attenuta al suesposto principio e merita di essere cassata posto che <<l’inosservanza dello specifico obbligo di facere (“dichiarare”, “denunciare”) nel termine fissato, imposto dalla norma, evidenzia una condotta inadempiente del comportamento attivo richiesto, quindi, un comportamento omissivo del soggetto passivo, e connota aderentemente la violazione di quell’obbligo (sanzionata dall’art. 14), dallo stesso commessa>> (Cass. n. 932/2009), per cui l’obbligo permane anche successivamente alla scadenza del limite temporale fissato per la presentazione della dichiarazione dei redditi relativamente all’anno in cui il possesso ha avuto inizio;
che il possesso dell’immobile in capo alla società A. risale pacificamente al 1999, essendo tenuta, per l’anno precedente (1998), la incorporata società A., il cui possesso risaliva all’anno 1995, società quest’ultima a cui la sanzione “per omessa denuncia ICI … fu già comminata alla società incorporata”, come testualmente riportato nella sentenza impugnata, per cui alcuna rilevanza assumono, ai fini qui considerati, le vicende che interessarono le due società nel corso dell’anno 1999, in quanto l’art. 15, comma 1, D.Lgs. n. 472 del 1997, recita: “La società o l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni. Si applica l’articolo 2499 c.c.”;
che, dunque, la diposizione disciplina la responsabilità relativa al pagamento delle sanzioni nei casi di trasformazione, fusione e scissione di società o enti non dissimilmente da quanto previsto dall’art. 2504 bis c.c. in forza del quale – si tratta di fattispecie antecedente l’introduzione delle modifiche (1° gennaio 2004) recate dal D.lgs. n. 6 del 2003 – “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte”, per cui la società A. è senza alcun dubbio subentrata nei rapporti sostanziali e processuali alla società incorporata; che, pertanto, il Comune di Taranto può legittimamente riscuotere dalla società risultante dalla fusione l’importo della sanzione in precedenza accertata nei confronti della società A. e non pagata, essendo il relativo rapporto obbligatorio inquadrabile, per quanto sopra detto, nello schema successorio (Cass. n. 13059/2015, in tema di scissione parziale);
che la censura oggetto del ricorso incidentale dell’Agenzia delle Entrate è inammissibile;
che la ricorrente deduce la nullità della sentenza della CTP di Taranto n. 383/04/2007, depositata il 15/10/2007, per non essere stato notificato il ricorso introduttivo del giudizio all’Agenzia del Territorio, litisconsorte necessario, e sostiene che la decisione sarebbe stata per tale ragione appellata ma nel ricorso per cassazione non vengono riportate le parti dell’atto di appello necessarie a dimostrare la proposizione della relativa questione, né fornito alcun utile elemento per vagliare la fondatezza della doglianza concernente la mancata integrazione del contraddittorio con riferimento al giudizio di primo grado, non avendo l’Agenzia ricorrente neppure considerato l’effetto sanante della intervenuta trattazione unitaria dei giudizi in grado di appello, sicché trova applicazione il principio, che questa Corte ha avuto modo di precisare anche di recente, secondo cui <<Nel giudizio di legittimità, il ricorrente che censuri la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, deve specificare, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione>> (Cass. n. 9888/2016);
che, in conclusione, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata, per nuovo esame, alla medesima CTR, la quale provvederà anche sulle spese di questa fase di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale ed il ricorso incidentale del Comune di Taranto, dichiara inammissibile il ricorso incidentale dell’Agenzia delle Entrate, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.