CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 gennaio 2018, n. 319
Tributi – Avviso di accertamento – IRAP – IRPEF – Imposta di registro
Rilevato
– che, a seguito di rettifica del valore della cessione di un ramo d’azienda della A. di A.N. s.a.s., l’Agenzia delle entrate con riferimento all’anno di imposta 2001 emetteva nei confronti della predetta società un avviso di liquidazione della maggiore imposta di registro nonché avviso di accertamento per recupero a tassazione del maggior reddito di impresa ai fini IRAP accertato in relazione alla plusvalenza derivante dalla predetta cessione nonché un avviso di accertamento ai fini IRPEF nei confronti dell’unica socia per il reddito da partecipazione nella predetta società, ex art. 5 TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986);
– che di tali atti impositivi solo quello relativo alla società veniva impugnato, mentre l’atto di liquidazione della maggiore imposta di registro e l’avviso di accertamento emesso nei confronti della socia divenivano definitivi, pertanto l’Irpef veniva iscritta a ruolo con conseguente emissione della cartella di pagamento; tali atti (avviso di accertamento nei confronti della società e cartella di pagamento) venivano autonomamente impugnati con separati ricorsi, che la CTP riuniva e decideva congiuntamente, rigettandoli; la successiva decisione della CTR, di inammissibilità del ricorso in appello delle parti private, veniva cassata da questa Corte con l’ordinanza n. 22639 del 2014; faceva seguito la riassunzione del giudizio dinanzi alla CTR laziale che,con la sentenza in epigrafe, rigettava l’appello della parte privata sostenendo che la mancata impugnazione dell’avviso di accertamento emesso ai fini IRPEF nei confronti della socia rendeva irrilevante la circostanza che lo stesso fosse illegittimo in quanto emesso successivamente alla scadenza del termine triennale di decadenza del potere accertativo, con la conseguenza che dovevano considerarsi legittimi sia la cartella di pagamento emessa sulla base del predetto atto impositivo, che l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società ai fini IRAP, correttamente emesso ai sensi dell’art. 41 bis d.P.R. n. 600 del 1973;
– che avverso tale statuizione la ricorrente N.A., in proprio e nella qualità di rappresentante legale della predetta s.a.s., propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e dell’Equitalia Gerit s.p.a., che non replicano, e nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che, invece, replica con controricorso;
– che sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. (come modificato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197), risulta regolarmente costituito il contraddittorio, a seguito del quale la ricorrente ha depositato memoria;
– che il Collegio ha deliberato la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata;
Considerato
– che va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze per difetto di legittimazione processuale e perché estraneo ai gradi di merito del giudizio (cfr., ex multis, Cass. n. 19111 del 2016, n. 22992 del 2010, n. 9004 del 2007, nonché Cass. S.U. n. 3118/2006; n. 3116/2006; n. 20781/2016), precisandosi che, in difetto di difese svolte dall’intimato, non occorre disporre sulle spese di lite;
– che con il primo motivo di ricorso, con cui viene contestualmente dedotta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dagli artt. 51, 52 e 76 d.P.R. 131 del 1986 nonché la carente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo del contendere, la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, laddove «ha sancito l’inammissibilità dei motivi di impugnazione riconducibili alla professata violazione degli art. 51, 52 e 76 DPR 131/86 – non appare supportata da idoneo percorso logicoargomentativo» e la CTR avrebbe violato il disposto di cui al citato art. 76, non avrebbe tenuto conto della possibilità per la parte di denunciare in ogni tempo la decadenza prevista da tale disposizione e del fatto che era stata la stessa amministrazione finanziaria ad ammettere che l’atto impositivo era stato emesso tardivamente;
– che con il secondo motivo di ricorso, con cui viene contestualmente dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, 115 e 166 cod. proc. civ., nonché il vizio di travisamento e l’omessa e/o carente motivazione della sentenza impugnata, la ricorrente lamenta che, anche a ritenere connotato di definitività l’avviso di liquidazione della maggiore imposta di registro, la CTR non aveva considerato la mera valenza indiziaria di tale circostanza rispetto agli avvisi di accertamento emessi per la plusvalenza realizzata e non tassata e per il maggiore imponibile IRPEF, peraltro superata dalle contrarie allegazioni probatorie fornite da essa ricorrente, consistenti nella «documentazione volta a comprovare l’effettività e la corrispondenza del valore dichiarato (nell’atto di cessione d’azienda del 30/10/2001) a quanto effettivamente riscosso a titolo di prezzo di vendita;
– che il Collegio, anche alla stregua delle argomentazioni svolte dalla ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380— bis, secondo comma, c.p.c., ritiene di non condividere la proposta del relatore (cfr. Cass., Sez. U., n. 8999 del 2009) in quanto, nonostante la simultanea deduzione, in relazione alla medesima statuizione impugnata, del vizio di violazione di norme di diritto e del vizio logico di motivazione, l’esposizione dei motivi consente di scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, nell’ottica prospettata da Cass. Sez. U., n. 9100 del 2015;
– che il primo motivo è comunque infondato alla stregua del principio affermato da Cass. n. 171 del 2015, secondo cui «il termine di decadenza stabilito, a carico dell’ufficio tributario ed in favore del contribuente, per l’esercizio del potere impositivo, ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto tale decadenza non concerne diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma incide unicamente sul diritto del contribuente a non vedere esposto il proprio patrimonio, oltre un certo limite di tempo, alle pretese del fisco, sicché è riservata alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o no della relativa eccezione, che ha natura di eccezione in senso proprio e non è, quindi, rilevabile d’ufficio, né proponibile per la prima volta in grado d’appello»; pertanto, non è censurabile la statuizione impugnata che si è attenuta al citato principio, con motivazione niente affatto contraddittoria (come ha ribadito la ricorrente nella memoria), avendo la CFR espressamente affermato che la mancata impugnazione dell’atto prodromico, anche ove illegittimo perché emesso tardivamente dall’amministrazione finanziaria, non era rilevabile d’ufficio dal giudice e la sua definitività impediva la caducazione degli atti consequenziali;
– che è invece fondato il secondo motivo di ricorso;
– che al riguardo deve ricordarsi che secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015 — che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva — esclude che l’Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini di altra imposta commisurata al valore del bene, posto che la base imponibile ai fini IRPEF è data non già dal valore del bene, ma dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo. Il riferimento contenuto nella detta norma all’imposta di registro ed alle imposte ipotecarie e catastali svolge una funzione esemplificativa, volta esclusivamente a rimarcare la ratio della norma incentrata sulla non assimilabilità della differente base impositiva (valore) rispetto a quella prevista per l’IRPEF (corrispettivo)» (Cass. n. 19227 del 2017; id est Cass. n. 12265 del 2017 e n. 11543 del 2016)
– che la CTR non si è attenuta al predetto principio avendo ritenuto legittimo un avviso di accertamento di maggiori redditi di impresa ai fini IRAP da plusvalenza derivante dalla cessione di un ramo di azienda, emesso sulla base del solo valore accertato ai fini dell’imposta di registro e risultante da separato avviso di liquidazione di tale imposta, omettendo di accertare, alla stregua degli elementi probatori offerti dall’amministrazione finanziaria e dalla società contribuente — di cui, ancorché genericamente (con elencazione idonea ad escludere comunque il difetto di autosufficienza del ricorso), si dà atto nel ricorso (pag. 17) — la sussistenza della contestata plusvalenza;
– che, in estrema sintesi, va dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, va accolto il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo e la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla competente CTR, in diversa composizione, che provvederà a regolamentare anche le spese del presente giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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