CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 dicembre 2017, n. 29613
Assenze per infortunio e per assistenza disabile – Contestazione disciplinare – Svolgimento di altra attività lavorativa
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale di Foggia che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento intimato da F. S.p.A. a G.P., addetto all’assistenza presso il Centro medico di riabilitazione vita, a seguito di contestazione disciplinare del 5/3/2012 con la quale gli si addebitava di avere svolto altra attività lavorativa, nel corso di assenze per infortunio e per assistenza disabile ex art. 33 comma 3 della legge n. 104 del 1992;
2. per la cassazione della sentenza G.P. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi:
2.1. come primo motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione della legge n. 300 del 1970 art. 7 comma 2, e della legge n. 604 del 1966 art. 2, per avere la Corte territoriale ritenuto specifiche le contestazioni disciplinari;
2.2. con il secondo motivo, attinge la sentenza nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto provata la circostanza che il soggetto riprodotto nelle foto e controllato dagli investigatori privati fosse il ricorrente, così violando e falsamente applicando gli articoli 115 e 116 c.p.c.;
2.3. come terzo motivo, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto rispettato il principio di gradualità e proporzionalità nell’applicazione della sanzione disciplinare, nonché l’esistenza della giusta causa di recesso, violando e falsamente applicando l’articolo 41 del C.C.N.L., che prevede l’applicazione di sanzioni comportanti la conservazione del posto di lavoro per le ipotesi di “condotte comportanti pregiudizio all’economia, all’ordine e all’immagine della struttura sanitaria”. Lamenta che la Corte abbia ignorato le seguenti circostanze, che attenuavano la gravità del fatto: che l’assenza dal lavoro era giustificata e legittima; che non sussiste per il lavoratore un divieto assoluto di prestare attività presso terzi durante l’assenza per malattia; che egli in 23 anni di servizio non aveva subito alcuna sanzione disciplinare;
3. la F. s.p.a. ha resistito con controricorso.
Considerato che
1. il primo motivo non è fondato.
Il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità nella materia delle sanzioni disciplinari, come regolata dall’art. 7 St. lav., è nel senso che la previa contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, integrato esclusivamente qualora vengano fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari. L’accertamento relativo alla sussistenza di tale requisito costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e di congruità delle ragioni esposte dal giudice del merito (ex multis, Cass. 21/04/2017, n. 10154; Cass. 13/06/2013, n. 14880, Cass. 6 maggio 2011,n. 10015);
1.1. la Corte territoriale si è attenuta a tale principio, rilevando che il fatto materiale addebitato al P. era adeguatamente circostanziato e idoneo a consentire un’adeguata difesa, considerato che l’indicazione delle giornate in cui sarebbe stata svolta l’attività lavorativa era sufficiente a porre il lavoratore in grado di difendersi;
1.2. occorre peraltro puntualizzare che la contestazione disciplinare deve delineare l’addebito così come individuato dal datore di lavoro e quindi la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo da perimetrare anche l’ambito dell’ attività difensiva del lavoratore: nel caso, non era quindi necessario che il datore di lavoro indicasse, per assolvere agli oneri imposti dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, anche di quale attività lavorativa si trattasse, considerato che nella sua prospettazione qualunque attività lavorativa era ritenuta inconciliabile con le ragioni dell’assenza (diverso problema essendo il controllo, successivo, dell’idoneità della condotta contestata a costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso);
2. il secondo motivo è inammissibile.
Al di là della rubrica di stile, si chiede in definitiva una rivalutazione delle risultanze probatorie al fine di giungere da un risultato difforme da quello della Corte di merito e più consono alle aspettative del ricorrente in merito al riconoscimento del soggetto che, nelle giornate indicate, svolgeva attività di venditore ambulante.
Occorre tuttavia rilevare che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8Q53 del 2014, secondo il quale la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, né può fondare il motivo in questione l’omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque -valutata dal giudice del merito, come è stato nel caso;
3. infondato è infine il terzo motivo.
In virtù di costante giurisprudenza di questa S.C., per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (cfr., per tutte, Cass. n. 13149 del 24/06/2016, Cass. n. 25608 del 03/12/2014).
3.1. A tali principi si è attenuta la Corte di merito, che, nel valutare l’incidenza della condotta contestata sul vincolo fiduciario, ha tenuto conto di rutti gli elementi del caso concreto, ma ha valorizzato in particolare la condotta fraudolenta del P. che, ingannando la parte datoriale sull’effettività delle ragioni dell’astensione dal lavoro, svolgendo attività lavorativa in luogo distante da quello di lavoro per impedire l’accertamento della propria condotta, sottraendosi al proprio lavoro che comportava anch’esso cura e assistenza verso soggetti abbisognevoli, aveva realizzato una condotta idonea a ledere il vincolo fiduciario, “avuto riguardo altresì alla causale del permesso per disabilità disonorata dall’evidente disinteresse manifestato nei riguardi del familiare meritevole di negata assistenza”.
3.2. Le circostanze valorizzate dal ricorrente non sono state quindi trascurate dalla Corte territoriale, che ha ritenuto però di attribuire decisiva rilevanza al fatto che il comportamento del dipendente che si avvalga del beneficio di cui all’art. 33 della legge n. 104 del 1992 per attendere ad esigenze diverse dall’assistenza al disabile integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, realizzando una condotta che assume anche disvalore morale e sociale, in coerenza con i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 17968 del 13/09/2016, Cass. n. 8784 del 30/04/2015, Cass. n. 4984 del 04/03/2014);
4. per tali motivi, condividendo il Collegio la proposta del relatore, il ricorso, manifestamente infondato, va rigettato con ordinanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.;
5. la regolamentazione delle spese processuali segue la soccombenza;
6. sussistono i -presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 28
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in 3.000,00 per compensi, oltre ad € 200,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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