CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 ottobre 2017, n. 23824
Tributi – Accertamento – Contenzioso tributario – PVC – Evasione fiscale
Rilevato
che A.T. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, illustrato con memoria, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, indicata in epigrafe, con la quale era stato respinto l’appello proposto avverso la sentenza della C.T.P. di Bari, sfavorevole al contribuente, in controversia concernente tre avvisi di accertamento per recupero Iva, Irpef ed Irap, oltre interessi e sanzioni, relativamente agli anni d’imposta 1998, 1999 e 2000, emessi nei confronti del predetto, a seguito di verifica fiscale della Guardia di Finanza, giusta verbale di constatazione redatto il 23/7/2001;
che il giudice a quo, per quanto qui interessa, riteneva legittime le riprese a tassazione contenute negli atti di accertamento, ed affermava, in relazione alla questione relativa alla utilizzabilità della documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza, e versata in atti a sostegno della pretesa impositiva, che l’autorizzazione all’accesso domiciliare rilasciata dal Procuratore della Repubblica di Bari è sufficientemente motivata, in punto di gravi indizi di violazione tributaria, considerato il largo margine di discrezionalità nell’adozione del provvedimento ed il richiamo al contenuto della nota in data 16/6/2001 dei militari; che l’Agenzia delle entrate resiste controricorso;
Considerato
che, con il motivo di ricorso, il contribuente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 52, D.P.R. n. 633 del 1972, 33, D.P.R. n. 600 del 1973, 2730 e 2735 c.c., nonché omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 e n. 5, giacché la C.T.R., errando, non ha dato rilievo all’evidenziata impossibilità di comprendere in cosa consistessero i gravi indizi di violazione tributaria legittimanti la perquisizione domiciliare, la cui mancanza era stata allegata a sostegno della prospettata illegittimità degli atti accertativi impugnati, stante l’inutilizzabilità delle prove raccolte dalla Guardia di Finanza;
che la censura non merita accoglimento per le ragioni di seguito precisate; che, in tema di accertamento delle imposte, questa Corte, con la sentenza n. 9565/2007, alla quale il Collegio intende dare continuità, ha affermato che “l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prescritta in materia di IVA dall’art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), in quanto sottesa all’acquisizione degli elementi di riscontro della supposta evasione fiscale, al fine di evitarne l’occultamento o la distruzione, è contraddistinta da un largo margine di discrezionalità, da cui discende il carattere necessariamente sintetico della relativa motivazione: l’obbligo motivazionale deve pertanto ritenersi assolto nel caso in cui risultino indicate la nota e l’autorità richiedente, con la specificazione che il provvedimento trova causa e giustificazione nell’esistenza di gravi indizi di violazione della legge fiscale, la cui valutazione dev’essere effettuata “ex ante” con prudente apprezzamento.”;
che va ricordato che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, con il comma 1, il quale attiene all’accesso nei locali adibiti all’esercizio di attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero ad uso promiscuo, ossia anche ad abitazione, si limita a richiedere, rispettivamente, l’autorizzazione del capo dell’ufficio, e quella del Procuratore della Repubblica, senza però fissare specifici presupposti, in entrambi i trattandosi “di un mero adempimento procedimentale, la cui ratio è individuabile nell’opportunità che la perquisizione trovi l’avallo di un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata”, mentre con il comma 2, il quale attinente all’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma, cioè in locali ad uso esclusivamente abitativo, si “richiede, invece, – anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione trova base logica nell’art. 14 Cost., sull’inviolabilità del domicilio – non solo l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ma anche la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria”, previsione che conferisce “all’autorizzazione medesima la portata, non di semplice nulla-osta da parte di un organo superiore, bensì di provvedimento valutativo della ricorrenza nella concreta vicenda di specifici presupposti giustificativi dell’ingresso nell’abitazione” (Cass. n. 26829/2014); che, inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 16424/2004, hanno avuto modo di precisare che il giudice tributario, dinanzi alla contestazione della pretesa impositiva avanzata sui risultati dell’accesso domiciliare, “può essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del pubblico ministero e la presenza in esso degli indispensabili requisiti”, e che, nel valutare la legittimità del provvedimento di autorizzazione all’accesso domiciliare, terrà conto, “quanto al requisito motivazionale, che l’apprezzamento della gravità degli indizi è esternabile anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorità richiedente”;
che, nel caso di specie, la C.T.R. ha ritenuto legittimo l’accesso domiciliare atteso che la preventiva autorizzazione del pubblico ministero non è priva di motivazione in quanto essa – pacificamente – richiama la nota n. 4938/22 del Comando di Brigata della Guardia di Finanza di Gioia del Colle e, in relazione agli “elementi esposti dal richiedente Comando”, dà atto della ricorrenza dei “gravi indizi di violazione alla normativa tributaria”, sicché lo schema procedimentale disciplinato dalla legge appare rispettato;
che il giudice di appello ha, quindi, accertato, in base al materiale probatorio acquisito, che nonostante il mancato reperimento della contabilità, e sulla scorta del p.v.c. del 23/7/2001, delle dichiarazioni rese dal contribuente, delle attrezzature di lavoro rinvenute, delle annotazioni di acconti ricevuti e di prezzi di materiali edili, l’evasione fiscale contestata può dirsi sussistente;
che, in conclusione, il ricorso va respinto con ogni conseguenza anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre rimborso spese prenotate a debito.
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