CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 gennaio 2018, n. 635
Accertamento lavoratori irregolari – Evasione contributiva – Sanzione ex art. 36-bis, co. 7 del D.L. n. 223 del 2006 – Commisurazione
Ritenuto che
L’Agenzia delle Entrate notificava alla società T. Costruzioni s.r.l. un atto di irrogazione di sanzioni per evasione contributiva, relativa all’anno 2002, per prestazioni lavorative irregolari di tre dipendenti, ai sensi dell’art. 3, comma 3, d.l. 22.2.2002, n. 12, conv. nella L. n. 73 del 2002. L’atto veniva impugnato innanzi alla CTP di Como, che accoglieva parzialmente il ricorso. La società contribuente proponeva appello, che veniva respinto dalla CTR della Lombardia con sentenza n. 37/35/09. La società T. Costruzioni s.r.l. propone ricorso per cassazione, affidandolo a tre motivi. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso, deducendo l’inammissibilità del ricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per omessa motivazione, per violazione dell’art. 360, n. 4, c.p.c., atteso che il giudice di appello avrebbe completamente omesso l’esame delle domande riguardanti: a) l’inapplicabilità dell’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002; b) la commisurazione della sanzione con riguardo all’effettiva durata del rapporto di lavoro relativamente ai due lavoratori extracomunitari, valutando, al riguardo, le specifiche dichiarazioni e giustificazioni fornite dalla società ricorrente relativamente all’effettiva durata del periodo di lavoro irregolare per i due dipendenti extracomunitari; c) la commisurazione della sanzione in base al criterio dettato dall’art. 36 bis comma 7 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 conv. in legge 248 del 2006, che determina la sanzione in base ad una quota fissa, per ciascun lavoratore irregolare, e ad una quota variabile in funzione dei giorni di effettivo lavoro.
Conclude formulando il seguente quesito di diritto: “Premesso che le domande dirette al giudice di appello avevano ad oggetto l’accertamento della sanzione da irrogare in base al periodo effettivo di lavoro ed in base al nuovo criterio dettato dall’art. 36 bis comma 7 del d.l. 223 del 2006, conv. in legge n. 248 del 2006, considerato che la sentenza impugnata si è limitata a confermare la sentenza di primo grado, senza nulla dire al riguardo, dica la Suprema Corte di Cassazione: Se la sentenza impugnata viola l’art. 36 d.lgs. 546 del 1992 e sia, pertanto, viziata ex art. 360, n.4, c.p.c., per omessa pronuncia in quanto non ha deciso sull’intera domanda ovvero sulle domande proposte e sopra indicate sub 1), sub 2), sub 3), risultando, peraltro, del tutto oscura nella parte in cui afferma ” non adeguatamente provata la circostanza che i due lavoratori…abbiano smesso la loro attività dopo tale periodo”.
2. Con il secondo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, c. p.c.): atteso che la CTR ha omesso di considerare la commisurazione della sanzione con riguardo all’effettiva durata del rapporto di lavoro relativamente ai due lavoratori extracomunitari, sia non valutando le specifiche dichiarazioni e giustificazioni fornite dalla società ricorrente relativamente all’effettiva durata del periodo di lavoro irregolare per i due dipendenti extracomunitari; sia omettendo di applicare il criterio dettato dall’art. 36 bis comma 7 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in legge 248 del 2006 che determina la sanzione in base ad una quota fissa, per ciascun lavoratore irregolare, e ad una quota variabile in funzione dei giorni di effettivo lavoro.
3. Con il terzo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata, denunciando violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 3, c. p.c., e precisamente per violazione dell’art. 3, comma 3, d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73, nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale 12 aprile 2005, n. 144, e dell’art. 3, comma 3, d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73, nel testo risultante a seguito della modifica ex art. 36 bis comma 7 d.l. 223 del 2006, conv. in legge 248 del 2006, e dell’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 472 del 1997 che sancisce il principio del favor rei richiamato dall’art. 3, comma 5, d. l. 12 del 2002 vigente ratione temporis, e dell’art. 2697 c.c. in ordine all’onere della prova. Conclude formulando il seguente quesito di diritto: “Preso atto della sentenza della Corte costituzionale e del nuovo criterio dettato dall’art. 36 bis comma 7 d. l. n. 223 del 2006 conv. in legge n. 248 del 2006, dica la Suprema Corte di Cassazione: se la sentenza impugnata sia viziata ex art. 360 n. 3 c.p.c. per violazione dell’art. 3, comma 3, del d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73 nel testo risultante a seguito della pronuncia della Corte costituzionale del 14 aprile 2005, n. 144 che, nell’ammettere la prova in ordine all’effettività e durata del rapporto di lavoro, aveva sostanzialmente dichiarato l’illegittimità della presunzione legale assoluta circa tali circostanze, e conseguentemente inficiato il calcolo delle sanzioni, basato appunto sulla prova legale suddetta; per avere, pertanto, deciso la controversia in base ad una normativa non più vigente perché parzialmente dichiarata incostituzionale; se la sentenza impugnata sia viziata ex art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione dell’art. 3, comma 3, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (principio del favor rei e di legalità) applicabile per effetto del rinvio dell’art. 3, comma 5, del d.l. 12 del 2002, vigente sino alla modifica apportata con l’art. 36 bis comma 7 d.l. 223 del 2006 (in vigore dal 4 luglio 2006); se la sentenza impugnata sia viziata ex art. 360 n. 3, c.p.c. per violazione dell’art. 3 del d.l. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. in legge 23 aprile 2002, n. 73, nella nuova versione risultante dalla modifica apportata dall’art. 36 bis comma 7 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. in legge 24 agosto 2006, n. 248 (applicabile in virtù del richiamo del principio del favor rei) secondo cui la sanzione, quanto meno per la parte di 150 euro giornalieri, va commisurata all’effettiva durata del rapporto che è onere dell’ufficio accertare; se la sentenza impugnata sia viziata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in ordine all’onere della prova configurando un vizio censurabile ex art. 360, n. 3, c.p.c., per non avere il giudice di secondo grado tenuto in minimo conto che, a fronte della modifica apportata ex art. 36 bis comma 7 d.l. n. 223 del 2006, era onere dell’Ufficio fiscale ( e non più del contribuente) dare prova dell’effettivo periodo lavorato al fine di applicare la sanzione pecuniaria per la parte variabile commisurabile in 150 euro per ogni giorno di effettivo lavoro”.
4. I motivi di ricorso sono inammissibili sotto vari profili.
a) I motivi sono inammissibili per totale carenza di autosufficienza, dovendosi ritenere fondate le eccezioni proposte dall’Agenzia delle entrate con controricorso, riguardo alla violazione del disposto dell’art. 366, n. 6, c.p.c., mancando nel ricorso “la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso, si fonda”, avendo il ricorrente omesso di precisare i dati necessari alla loro individuazione con riferimento alla fase del merito ( Cass. n. 23575 del 2015, Cass. n. 22726 del 2011). Qualora si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, parte ricorrente è tenuta ad indicarli compiutamente nel ricorso, riportandoli nella loro integralità, si da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 1709 del 2015).
b) I motivi sono, altresì, inammissibili per non corretta redazione del quesito di diritto. Al proposito occorre ribadire il principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in termini tali da costituire una sintesi logico – giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regola iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366 bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie, non potendo mai risolversi il quesito nella generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, dovendo invece investire la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto (Cass. n. 26020 del 2008; Cass. n. 4044 del 2009; Cass. n. 12712 del 2010; Cass. n. 21672 del 2013). Orbene i motivi di ricorso devono essere dichiarati inammissibili, in quanto i quesiti di diritto formulati sono assolutamente inidonei ad evidenziare: a) la questione controversa; b) l’errore in cui è incorso il giudice di appello; c) la “regola iuris” che avrebbe dovuto essere correttamente applicata al caso deciso.
5. In ragione dei rilievi espressi, consegue il rigetto del ricorso. La parte soccombente è tenuta alla rifusione delle spese di lite, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte soccombente alla rimborso delle spese di lite che liquida in complessivi euro 4.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
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