CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 dicembre 2017, n. 30002
Cartella esattoriale – Obbligo dell’iscrizione della Gestione commercianti – Natura dell’attività svolta – Potere di iscrivere a ruolo un credito in pendenza di un giudizio di opposizione ex art. 25 del D.Lgs. n. 46/1999 – Presenza di provvedimento esecutivo del giudice – Temporanea carenza del potere-dovere della P.A. di agire in via esecutiva – Impugnazione in giudizio di un autonomo credito iscritto a ruolo e portato a conoscenza del debitore – Irrilevanza
Rilevato che
– con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Milano accoglieva parzialmente l’appello proposto nei confronti della pronuncia di prime cure che, previa riunione, aveva respinto il ricorso in opposizione a 2 diversi ruoli esattoriali formati dall’I.N.P.S. (e comunicati con altrettante cartelle esattoriali) e dichiarato pertanto che M.M., in quanto titolare della ditta individuale Manifattura C. fino al dicembre 1999 e dal gennaio 2000 socio accomandatario della Manifattura C. di M.M. & C. s.a.s., fosse obbligato a versare i contributi tenuto conto della natura commerciale e non industriale dell’attività svolta, come tale comportante l’obbligo dell’iscrizione della Gestione Commercianti.
La Corte territoriale riteneva che il giudizio di opposizione ad una cartella esattoriale (o il ricorso in sede amministrativa) non impedisse all’I.N.P.S. l’iscrizione a ruolo di altri crediti ai sensi dell’art. 24, co. 3, del d.lgs. n. 46/1999 che riconnette l’effetto impeditivo all’impugnazione dell’accertamento. Quanto alla natura dell’attività svolta, la Corte di merito ha ritenuto corretta la valutazione di essa quale attività rientrante nel settore terziario e non industriale; non potendo essere considerata quale attività di produzione manifatturiera, come preteso dall’appellante, posto che tutta la lavorazione produttiva, dal materiale grezzo al prodotto finito, non veniva effettuata all’interno dell’azienda M. bensì da aziende terze (o anche artigiani o piccoli imprenditori esterni), così che l’attività dell’appellante si riduceva all’acquisto di materie prime ed alla vendita di prodotti finiti ma senza alcuna lavorazione diretta. La Corte di appello accoglieva invece il motivo di appello riferito al regime delle sanzioni ai sensi dell’art. 116 della legge n. 388/2000 sostenendo che si fosse prodotta la fattispecie dell’omissione e non quella dell’evasione, in quanto l’appellante, anche se a torto, aveva ritenuto che l’attività svolta avesse natura industriale e pertanto pagato la contribuzione riferendosi a tale settore di attività;
– avverso detta sentenza propone, in parte qua, ricorso per cassazione M.M. con tre motivi di censura, cui l’I.N.P.S. resiste con controricorso;
– la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;
– non sono state depositate memorie;
– il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.
Considerato che
– con il primo motivo il ricorrente lamenta, la violazione e falsa applicazione ed interpretazione dell’art. 24, co. 3, del d.lgs. n. 46/1999, motivazione illogica e contraddittoria, per aver la Corte di merito ritenuto che il giudizio di opposizione al ruolo (o il ricorso in sede amministrativa) non impedisse all’I.N.P.S. l’iscrizione a ruolo di altri crediti ai sensi dell’art. 24 cit.;
– con il secondo articolato motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della L. n. 1088/1971 come sostituito dall’art. 29 della L. n. 160/1975 e dal comma 203 dell’art. 1 della L. n. 662/1996 in relazione all’art. 2195 cod. civ.. Deduce l’insussistenza dell’obbligo di iscrizione al settore terziario perché l’attività svolta non sarebbe riconducibile al settore commercio quale definito dall’art. 2195 cod. civ. né ad alcuna altra dell’attività indicate come del terziario dall’art. 1 della L. n. 1088/1971 e succ. mod. ed integrazioni; rileva l’inapplicabilità dell’art. 49, co. 1, della l. n. 88/1989 in materia di “classificazione delle aziende”, in quanto non era stato adottato alcun atto di inquadramento da parte dell’I.N.P.S. e comunque perché per i c.d. inquadramenti fatti in precedenza, come era nel caso di specie, la classificazione andava operata ai sensi dell’art. 2195 cod. civ. senza alcuna rilevanza degli atti dell’I.N.P.S. aventi natura ricognitiva;
– con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1, co. 203, della l. n. 662/1996 e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione in relazione alla ritenuta insussistenza del requisito della partecipazione personale al lavoro aziendale con carattere di abitualità e di prevalenza;
– il ricorso è infondato alla stregua di Cass. 10 aprile 2017, n. 9159 resa in fattispecie del tutto analoga e relativa alle stesse parti;
– quanto al primo motivo, come è stato precisato, il potere di iscrivere a ruolo un credito, in pendenza di un giudizio di opposizione ad altro precedente ruolo, va riconosciuto all’I.N.P.S. non essendo impedito dall’art. 24, co. 3, del d.lgs. n. 46/1999 il quale prevede che “se l’accertamento effettuato dall’ufficio è impugnato davanti all’autorità giudiziaria l’iscrizione a ruolo è eseguita in presenza di provvedimento esecutivo del giudice”;
– tale norma prevede e conferma l’ammissibilità dell’azione di annullamento di un atto di accertamento (spesso contenuto in un verbale ispettivo) in conformità ai principi generali sull’interesse ad agire i quali ammettono un’azione di accertamento negativo contro un atto della P.A. da cui derivano, in base al principio di legalità, indefettibili conseguenze sanzionatorie. Si tratta inoltre di una disposizione che agevola, attraverso un unico preliminare accertamento giurisdizionale, la risoluzione di una serie di controversie distinte che potrebbero derivare dallo stesso atto di accertamento in tempi e con soggetti pubblici diversi (ad es. I.N.P.S., I.N.A.I.L., D.T.L.) in applicazione del principio di economia dei mezzi giuridici, ed anche allo scopo di evitare il proliferare dei processi, con rischio di esiti contraddittori;
– dal tenore della norma si deduce, inoltre, che in caso di proposizione dell’azione di accertamento negativo delle pretese contributive iscrivibili in ruoli, si determina una stasi nel procedimento amministrativo di formazione del ruolo, ovvero una temporanea carenza del potere-dovere della p.a. di agire in via esecutiva. Infatti in pendenza del ricorso in prevenzione contro l’accertamento, l’iscrizione a ruolo non potrà essere eseguita ed occorrerà attendere un provvedimento esecutivo del giudice (che convalidi in tutto o in parte la pretesa previdenziale di cui all’atto impugnato) ed in conformità allo stesso;
– coerentemente, l’art. 25 del d.lgs. n. 46/99 collega il decorso dei termini di decadenza per l’iscrizione a ruolo all’avvenuta pronuncia di un provvedimento giurisdizionale definitivo (“i contributi o premi dovuti agli enti pubblici previdenziali.. in forza di accertamenti effettuati dagli uffici.. .sottoposti a gravame giudiziario ..sono iscritti in ruoli resi esecutivi a pena di decadenza… entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello- in cui il provvedimento è divenuto definitivo”);
– il potere di iscrizione a ruolo non subisce invece alcuna interdizione quando è stato impugnato in giudizio un autonomo credito iscritto a ruolo e portato a conoscenza della parte debitrice, in quanto la legge riferisce il divieto di proseguire nell’azione esecutiva soltanto all’impugnazione dell’accertamento che sta a monte e non già dell’atto esecutivo che sta a valle; e ciò anche nell’ipotesi in cui, come avviene nel caso di specie, sia stato già impugnato un ruolo che si fondi sulle medesime premesse di fatto e diritto di quelli successivamente formati;
– nulla perciò impedisce che in pendenza di un’opposizione a ruolo esattoriale se ne emetta un altro; salvo ovviamente l’effetto preclusivo vincolante derivante dalla formazione del giudicato su uno dei giudizi di opposizione a ruolo fondato sulle medesime premesse di fatto e di diritto;
– quanto alla censura di cui al secondo motivo, se ne rileva innanzitutto l’inammissibilità nella parte in cui si deduce per la prima volta in Cassazione la questione della corretta classificazione dell’impresa in relazione all’adozione o meno di un atto di inquadramento – dell’I.N.P.S., ai sensi della legge 88/1989, la quale questione implica accertamenti di fatto che non risultano mai discussi prima nel giudizio di merito.
– in secondo luogo la questione non può essere esaustiva ai fini della decisione della causa sotto il profilo giuridico, posto che la normativa citata attiene alla classificazione dell’impresa essenzialmente ai fini dell’entità dell’obbligazione contributiva gravante sull’impresa quale datrice di lavoro per i contributi da versare ,per i propri dipendenti e collaboratori. Nel caso in esame, invece, si discute dell’identificazione della gestione contributiva presso cui è tenuto ad iscriversi il lavoratore autonomo o il socio di società di persone sulla base del lavoro da esso svolto all’interno dell’impresa; accertamento da effettuare alla luce di differenti presupposti normativi;
– infine pure infondata è la tesi secondo cui l’attività esercitata non sarebbe riconducibile a quale commerciale quale definita dall’art. 2195 cod. civ. né ad alcuna della attività indicate come del terziario dall’art. 1 l. n. 1088/1971 e succ. mod. e integrazioni, talché la Corte di merito avrebbe finito per estendere l’obbligo assicurativo e contributivo presso la Gestione Commercianti a fattispecie estranea alla previsione normativa disciplinante tale obbligo;
– si tratta di una censura che denuncia in maniera generica e meramente contrappositiva un vizio di interpretazione di parametri normativi a carattere generale, senza però una specifica denuncia di quali siano gli elementi definitori della fattispecie trascurati o violati dai giudici di merito; limitandosi esclusivamente ad affermare che, a giudizio della stessa parte ricorrente, l’attività esercitata (di acquisto e vendita di filati lavorati da terzi) non potrebbe essere ricondotta al commercio perché non costituirebbe attività commerciale, bensì altro. Sicché anche sotto questo profilo la violazione della legge non è stata correttamente dedotta e la sentenza impugnata non efficacemente censurata;
– neppure è ipotizzabile alcun vizio di sussunzione il quale implica il rispetto dei fatti accertati dai giudici di merito, non solo perché l’operazione qualificatoria operata dai giudici di merito appare comunque rispettosa dei parametri normativi rilevanti ai fini della soluzione della questione (artt. 2195 cod. civ. e art. 1 L. n. 1937/60 come sostituito dall’art. 29 l. n. 160/1975 ed art. 1, co. 203, l. n. 1662/1996);
ma anche perché come si è detto parte. ricorrente in alcun modo specifica per quali motivi quanto accertato e ritenuto dai giudici di merito non sarebbe sussumibile all’interno, della attività commerciale, limitandosi a prospettare una generica rivisitazione del giudizio di merito evidentemente non consentita in questa sede;
– quanto infine al terzo motivo e l’autonoma censura relativa alla valutazione delle circostanze di fatto in base alle quali andrebbe operata la classificazione dell’attività dell’impresa (come manifatturiera o commerciale), per i riflessi che pure potrebbe avere sull’oggetto della pretesa proveniente dell’I.N.P.S., la stessa doglianza investe di per sé il merito della causa e come tale non è conforme al paradigma del nuovo art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ. in seguito alla modifica apportata dall’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge n. 134/2012 a termini della quale l’inosservanza dell’obbligo di motivazione integra violazione della legge processuale, denunciabile con ricorso per cassazione, solo quando si traduca in mancanza della motivazione stessa, e cioè nei casi di radicale carenza di essa o nel suo estrinsecarsi in argomentazioni inidonee a rivelare la ratio decidendi (Cass., sez. un., n. 8053/2014, n. 8054/2014);
– pertanto, essendo da condividere la proposta del relatore, il ricorso va rigettato;
– la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;
– va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, della l. n. 228/2012;
P. Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’I.N.P.S., delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre accessori- come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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