CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 febbraio 2017, n. 3685
Tributi – IRAP – Professionisti – Accertamento – Autonoma organizzazione
Massima:
L’esercizio della libera professione nei locali di uno studio associato non è per la Corte sufficiente a fare presumere l’autonoma organizzazione ed il successivo ricupero dell’IRAP in quanto, ai fini della sussistenza dell’autonoma organizzazione, rileva sempre il preventivo accertamento di non avvalersi, nell’esercizio della libera professione, di beni strumentali superiori al minimo indispensabile e/o di personale dipendente e/o di collaboratori. Pertanto, spetta all’Amministrazione la prova contraria
In fatto
L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti di C.M. (che non resiste), avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 70/36/2011, depositata in data 13/05/2011, con la quale – in controversia concernente le riunite impugnazioni di due avvisi di accertamento, emessi per maggiore IRAP dovuta in relazione agli anni di imposta 2005 e 2006 ed all’attività di dottore commercialista, sindaco di società e curatore fallimentare – è stata confermata la decisione di primo grado, che aveva accolto il ricorso del contribuente.
In particolare, i giudici d’appello, nei respingere (in dispositivo) il gravame dell’Agenzia delle Entrate, hanno sostenuto che il contribuente aveva dimostrato, in difetto di prova contraria da parte dell’Ufficio, di svolgere l’attività professionale in assenza di un’autonoma organizzazione, stante “la non rilevanza di beni strumentali, personale dipendente o collaboratori e l’assenza di compensi a terzi”.
A seguito di deposito di relazione ex art. 380 bis c.p.c., è stata fissata l’adunanza della Corte in camera di consiglio, con rituale comunicazione alle parti.
Si dà atto che il Collegio ha disposto la redazione della ordinanza con motivazione semplificata.
In diritto
La ricorrente lamenta, con il primo motivo, la nullità della sentenza della C.T.R., ex art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione degli artt. 36 e 61 d.lgs. 546/1992, essendovi un’inconciliabile contrasto tra motivazione (ove si legge: “l’appello è fondato, quindi andrà accolto” e “la decisione di primo grado, in conclusione, va riformata accogliendosi l’appello del contribuente”) e dispositivo (ove si legge: “la Commissione conferma la sentenza di primo grado”).
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia poi la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., non avendo la C.T.R. “fatto buon governo delle regole di riparto dell’onere della prova in tema di diritto di rimborso dell’IRAP”, avendo, ritenuto dimostrata l’assenza di autonoma organizzazione sulla base delle sole dichiarazioni allegate dal contribuente. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta, ex art. 360 n. 5 c.p.c., l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso, avendo trascurato di dare il giusto rilievo al fatto che il contribuente svolgeva attività “similari e contigue (commercialista nonché sindaco di società e curatore fallimentare)” in una “associazione di dottori commercialisti”, i cui mezzi “presumibilmente” erano stati utilizzati anche per lo svolgimento dell “attività di sindaco e curatore.
La prima censura è infondata.
Come chiarito da questa Corte (Cass. 26077/2015):
“sussiste contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza, solo quando il provvedimento risulti inidoneo a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale e, conseguentemente, del diritto o bene riconosciuto” (nella specie, la Corte ha rigettato la doglianza, atteso l’inequivoco contenuto del dispositivo di accoglimento parziale dell’appello, peraltro, coerente con la motivazione della sentenza, fondata sulla continuità rispetto alla decisione di primo grado). Invero, in generale, nel giudizio d’impugnazione non sussiste contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo qualora entrambi siano tesi a disattendere il gravame ove la divergenza sia dovuta a mero errore materiale, sicché, in tale evenienza, va esclusa la nullità della sentenza (Cass. 24841/2014; Cass. 10305/2011).
Ora, la fattispecie consente di escludere la sussistenza dei presupposti perché l’impugnata sentenza possa essere considerata affetta dal denunciato vizio, stante l’inequivoco tenore del dispositivo che ha esplicitato il dictum giudiziale, disponendo la “conferma della sentenza di primo grado”, e non essendo inoltre ravvisabile il denunciato contrasto tra parte motiva e dispositivo, atteso che le argomentazioni espresse sono tutte incentrate sull’assenza del requisito dell’autonoma organizzazione dello svolgimento dell’attività professionale, già affermato dai giudici della C.T.P..
Anche la seconda censura non è fondata.
Invero, l’Agenzia delle Entrate richiama principi sul riparto dell’onere probatorio tra contribuente ed Amministrazione finanziaria in ipotesi di impugnazione del diniego del rimborso di imposta non pertinenti, essendo oggetto del giudizio l’impugnazione di avvisi di accertamento.
Del pari, la terza censura non è meritevole di accoglimento.
Invero, al di là del fatto che l’allegazione in ordine alla presenza di uno studio associato nel quale il contribuente svolge l’attività professionale non emerge né dalla sentenza né dalle controdeduzioni in primo grado e dall’atto di appello quale ritrascritto nel ricorso dalla ricorrente (e non si verte in un vizio ex art. 360 n. 4 c.p.c.), in quanto in tali ultimi atti di parte si parla solo di ‘”uno studio di 40 mq” e di beni strumentali “di cospicua entità”, il fatto allegato (svolgimento dell’attività in uno studio associato) non risulta di per sé solo rilevante, avendo, in ogni caso, la Commissione accertato, con sufficiente e compiuta motivazione, che il contribuente non si avvaleva, per l’esercizio della libera professione, di beni strumentali superiori al minimo indispensabile, di personale dipendente o di collaboratori.
Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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