CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 novembre 2017, n. 26868
Mobbing – Condotte datoriali – Intento persecutorio e vessatorio – Deposizioni dei testi – Inammissibilità – Vizio di motivazione – non conferisce al Giudice di legittimità – Potere di riesaminare autonomamente il merito della vicenda processuale – Non sussiste – Profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale
Rilevato
1. che la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la decisione di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di E.M. intesa all’accertamento della illiceità della condotta della datrice di lavoro S. s.p.a., asseritamente adottata in violazione dell’art. 2087 cod. civ., ed alla condanna della società al risarcimento del danno biologico, all’immagine, professionale, esistenziale e per perdita di chances;
1.1. che, in particolare, il giudice di appello ha escluso, sulla base della prova orale, che le condotte datoriali denunziate si connotassero per I’intento persecutorio e vessatorio nei confronti del lavoratore ed evidenziato che l’appellante, pur dolendosi della preponderanza attribuita in prime cure alle deposizioni dei tesi indotti dalla società, non aveva indicato le deposizioni contrapposte dei propri testi, destinate ad avvalorare l’assunto di una condotta mobbizzante della società datrice di lavoro;
2. che per la cassazione della decisione ha proposto ricorso E.M. sulla base di quattro motivi, ciascuno articolato in più profili;
3. che la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso;
4. che entrambe le parti hanno depositato memori;
Considerato
1. che con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 115, 116 e 246 cod. proc. civ., censurandosi la decisione per avere implicitamente disatteso la richieste di verifica dell’attendibilità dei testi indotti da controparte, ed in particolare dei testi M., R., M. e D. i quali, avendo posto in essere le condotte in danno del M., avevano un interesse obiettivo rispetto all’esito del giudizio e non potevano, pertanto, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., essere chiamati a deporre; si deduce, inoltre, l’inattendibilità delle deposizioni dei testi di controparte sotto il profilo della contraddittorietà tra le medesime deposizioni rese dai detti testi e tra queste e quelle dei testi indotti da parte ricorrente;
2. che con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 1363 cod. civ. 46, 61 e 64 (anche con riferimento all’art. 2013 cod. civ.) ccnl per la disciplina dei rapporti fra le imprese di Assicurazione e il personale dipendente non dirigente; si censura, in sintesi, la decisione in punto di interpretazione della norma collettiva in tema di durata massima dei periodi di missione, affermandosi, sulla base del richiamo all’art. 46 ccnl, che nel computo di tale durata doveva tenersi conto anche dei periodi di malattia; sotto altra prospettiva si assume che sebbene la norma collettiva (art. 61) consentiva al datore di lavoro di inviare il dipendente in missione per periodi superiori a due mesi, in concreto la reiterazione delle missioni, sempre per far fronte alla medesima esigenza, non era in alcun modo giustificabile configurandosi, piuttosto, quale strumento utilizzato per ovviare alla necessità del previo consenso del lavoratore, in caso di trasferimento ;
3. con il terzo motivo di ricorso si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, censurandosi, in sintesi, la decisione per avere escluso la natura persecutoria delle condotte datoriali; in questa prospettiva si argomenta diffusamente in ordine alle emergenze della prova orale e documentale e si contestano le conclusioni da esse attinte dal giudice d’appello;
4. che con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 cod. civ. nonché carenza e/o contraddittorietà della motivazione circa fatti controversi e decisivi, censurandosi la decisione di appello per avere escluso la natura persecutoria delle condotte adottate dalla società ;
5. che il primo motivo di ricorso è inammissibile, assumendo rilievo dirimente, rispetto alla prospettata violazione dell’art. 246 cod. proc. civ., la circostanza della mancata allegazione e dimostrazione da parte del ricorrente di avere tempestivamente formulato la relativa eccezione nel giudizio di merito. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, qualora in sede di ricorso per cassazione, venga dedotta l’omessa motivazione del giudice d’appello sull’eccezione di nullità della prova testimoniale (nella specie, per incapacità ex art. 246 c.p.c.), il ricorrente ha l’onere, anche in virtù dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l’assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c., dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo (Cass. 23/11/2016 n. 23896);
5.1. che deve essere disattesa la ulteriore censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., configurabile non in presenza di deduzione attinente alla valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, come avvenuto nel caso di specie, ma, rispettivamente, solo allorché questi abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27/12/2016 n. 27000)
5.2. che è infondata l’ulteriore doglianza intesa a censurare la implicita valutazione di attendibilità di alcuni testi indotti da controparte; premesso infatti che la sentenza impugnata, fra quelle rese dai testi del quale il ricorrente deduce l’inattendibilità, fa riferimento solo alla deposizione del teste M., si evidenzia che l’accertamento di fatto alla base della decisione di secondo grado, è frutto di una complessiva valutazione del materiale probatorio, che tiene conto anche delle deposizioni dei testi indotti da parte ricorrente, evidentemente ritenute non significative al fine della ricostruzione della condotta datoriale in termini di mobbing, della cui prova era onerato il lavoratore. In questa prospettiva la deduzione di parte ricorrente risulta priva del tutto di decisività ;
6. che il secondo motivo è inammissibile in quanto parte ricorrente nel denunziare l’errata interpretazione delle norme del contratto collettivo, in violazione dell’onere su di essa gravante ai sensi dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., non indica se ed in quale fase del giudizio di merito esso era stato prodotto come invece prescritto (Cass. 12/127/2014 n. 26174);
7. che il terzo motivo di ricorso è anch’esso inammissibile in quanto inteso a sollecitare, attraverso il raffronto delle deposizioni testimoniali richiamate, un diverso apprezzamento del materiale probatorio; parte ricorrente, infatti, non individua specifiche omissioni incongruenze della motivazione destinata a sorreggere l’accertamento alla base della decisione di appello ma si limita a offrire una diversa ricostruzione della vicenda lavorativa del M. sulla base delle stesse;
7.1. che tale modalità di articolazione della censura non è coerente con l’insegnamento costante di questa Corte, secondo il quale la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì, soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonché scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4/11/2013 n. 24679, Cass. 16/12/2011 n. 2197, Cass. 21/9/2006 n. 20455, Cass. 4/4/2006 n. 7846, Cass. 7/2/2004 n. 2357);
8. che il quarto motivo di ricorso è anch’esso inammissibile;
8.1. che, invero, con tale motivo, parte ricorrente, pur deducendo formalmente, anche violazione di norme di diritto, incentra le proprie doglianze esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione e, senza individuare specifiche e decisive omissioni, contraddittorietà o insufficienze dell’argomentazione della sentenza impugnata, si limita a propugnare una diversa valutazione delle circostanze emergenti dal materiale probatorio, intesa ad avvolarare l’assunto della sussistenza di un complesso di condotte mobbizzanti nei confronti di esso M.;
8.2. che, pertanto, valgono le considerazioni già espresse in relazione al terzo motivo in ordine ai limiti del sindacato di legittimità;
9. che a tanto consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di lite;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15 %, oltre accessori di legge.
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