CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 novembre 2017, n. 27054
Tributi – Reddito d’impresa – Accertamento – Attività di rivendita di tabacchi – Prestazione lavorativa – Vertenza – Verbale di conciliazione
Rilevato che l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, nei confronti di L.B. (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in epigrafe con la quale la Commissione tributaria regionale della Sicilia ha confermato la decisione di primo grado che aveva parzialmente annullato l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio – sulla base di pp.vv.cc. elevati dalla Guardia di Finanza in data 15 e 21 gennaio 2004, dai quali era emerso che la contribuente, esercente attività di rivendita di tabacchi, aveva avuto alle dipendenze una lavoratrice per la quale risultavano dichiarate solo in parte le ore di lavoro effettivamente svolte – recuperava a tassazione, a fini Iva, Irpef e Irap per l’anno d’imposta 2000, il ricavo presuntivamente rapportabile al costo relativo alle ore non dichiarate;
che, conformemente alla valutazione operata in primo grado, i giudici d’appello hanno ritenuto che «il maggior reddito d’impresa accertato debba essere determinato sulla base delle somme concordate tra la contribuente e l’Inps, con l’accordo transattivo relativo alla chiusura della vertenza, stipulato dinanzi alla … Commissione provinciale del lavoro di Palermo; ciò in quanto dagli atti … risulta controversa la durata della prestazione settimanale lavorativa della dipendente in questione»;
considerato che, con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 39, comma primo, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché dell’art. 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ.: sostiene che il predetto verbale di conciliazione, atto stragiudiziale determinato dalla volontà delle parti di non coltivare un contenzioso in tema di lavoro, «non può … costituire elemento di prova idoneo a sconfessare, neanche parzialmente, il risultato dell’attività istruttoria e la conseguente pretesa tributaria accertata con l’avviso di accertamento in discussione», ma anzi costituisce ulteriore elemento di conferma dell’esistenza di un rapporto di lavoro non dichiarato;
che, con lo stesso motivo, la ricorrente denuncia altresì l’erroneità dell’affermazione secondo cui è «controversa» la «durata della prestazione settimanale lavorativa della dipendente in questione», rilevando che «dalle dichiarazioni rese dalla dipendente, anche se successivamente ritrattate, che ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 546 del 1992 non possono essere prese in considerazione, il calcolo del periodo di lavoro in nero è stato determinato sulla base della differenza tra le ore dichiarate e quelle effettivamente svolte conformemente a quelle previste per l’orario di lavoro svolto dal contratto nazionale di categoria (40 ore settimanali)»;
che con il secondo motivo la ricorrente denuncia inoltre nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 113 cod. proc. civ., in rapporto all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., rilevando che la decisione impugnata si conforma «più ad un giudizio di equità, precluso al giudice tributario, che di merito, anche avuto riguardo alla circostanza che … l’accordo in tema di lavoro riguarda un più esteso arco temporale (dal 1993 al 2002)»; lamenta inoltre che anche il dispositivo «è estremamente succinto e sostanzialmente inintelligibile non consentendo … di determinare quale sia l’effettivo carico tributario deciso con la predetta sentenza»;
ritenuto che il primo motivo di ricorso si appalesa inammissibile e, comunque, infondato, in relazione ad entrambi i rilievi critici nei quali esso si articola;
che, quanto al primo, invero, l’affermazione secondo cui il risultato dell’attività istruttoria posto a base dell’avviso di accertamento non può essere sconfessato dall’accordo stragiudiziale raggiunto tra le parti per la conciliazione della controversia lavoristica parallelamente sorta, postula che agli esiti di quell’attività lecita i giudici d’appello avessero riconosciuto idoneità a sorreggere l’atto impositivo, impedita solo da quell’accordo; postula cioè un accertamento di fatto opposto rispetto a quello in realtà contenuto nella sentenza impugnata, la quale muove infatti dal contrario assunto secondo cui «la durata della prestazione settimanale lavorativa della dipendente in questione … risulta controversa» (assunto evidentemente implicante il disconoscimento di sufficiente efficacia probatoria agli esiti dell’attività d’indagine condotta dalla Guardia di Finanza);
che, poi, quanto al secondo rilievo critico, diretto per l’appunto a contestare tale ultima affermazione, esso evidentemente investe la ricognizione del fatto e la valutazione delle prove operate in sentenza ed è come tale estraneo al vizio, qui in esame, di violazione di legge, essendo con riferimento ad esso qui sufficiente rilevare che non si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata l’applicazione di una regola di giudizio e/o di un criterio di riparto dell’onere probatorio difformi da quelli dettati delle norme richiamate;
ritenuto che è altresì inammissibile, poiché generico e sostanzialmente apodittico, il secondo motivo di ricorso, non essendo spiegate le ragioni per cui la decisione impugnata dovrebbe considerarsi espressiva di un giudizio di equità piuttosto che secondo legge, né (essendo spiegate) le ragioni per le quali il decisum risulterebbe in concreto inintelligibile e non consentirebbe di comprendere il carico tributario che si è inteso rideterminare;
che in ogni caso tale profilo investe più propriamente la concreta attuazione del precetto contenuto in sentenza, la cui difficoltà deve se del caso essere fatta valere attraverso il giudizio di ottemperanza, ma non ridonda quale motivo di nullità della sentenza medesima, predicabile soltanto in ipotesi – certamente non configurabile nella specie – di radicale mancanza o irriducibile contraddittorietà del dispositivo rispetto alla motivazione;
che peraltro può al riguardo incidentalmente osservarsi che il rimando (contenuto nella motivazione, trascritta nello stesso ricorso, della sentenza di primo grado, confermata da quella d’appello), quale base della rettifica del reddito imponibile, agli emolumenti transatti con l’Inps, non può ritenersi a priori inidoneo a consentire la determinazione di tale reddito per ciascuno degli anni cui è riferito l’accordo transattivo, essendo invero sufficiente operare una semplice proporzione tra il carico per ciascun anno determinato sulla base degli emolumenti spettanti in rapporto alle ore considerate non dichiarate dagli agenti verificatori e quello corrispondentemente calcolabile sulla base degli emolumenti transatti;
che in ragione delle considerazioni che precedono deve pertanto pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;
rilevato che, risultando soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.
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