CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 novembre 2017
Reati e pene – Bancarotta fraudolenta – Pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. – Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), artt. 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma.
Ritenuto in fatto
1. Gli eventi di cui al processo in esame si inseriscono nella più ampia vicenda relativa al tracollo del gruppo Parmalat e delle società riconducibili alla famiglia T., il cui stato di insolvenza culminò (tra il 2003 e il 2004) nella dichiarazione di fallimento di molte compagini (Parmalat, Parmatour, Parmalat Finanziaria ed altre);
gli addebiti molteplici si collegano alla concessione di un prestito-ponte (destinato a soddisfare esigenze di liquidità nelle more della definizione di una complessiva ristrutturazione dei debiti e dei flussi creditori nei confronti di istituti bancari) pari a 50 milioni di euro da parte di Banca di Roma a Parmalat S.p.a. e da quest’ultima veicolato in parte al sottogruppo turismo – già versante in stato di virtuale decozione – e in parte utilizzato per il pagamento di una rata del prezzo dell’azienda «Ciappazzi», caldeggiato in modo pressante dal gruppo Capitalia – verso cui T. e Parmalat erano fortemente indebitati – il quale era interessato a ristrutturare il debito del gruppo Ciarrapico, che versava in condizioni critiche e che era grande debitore di Capitalia. Gli imputati erano appartenenti al ceto bancario e finanziario da cui erano scaturite le operazioni incriminate: G. quale presidente di Capitalia, T. quale responsabile dell’Area legale ed affari generali dapprima di Banca di Roma e poi di Capitalia, A. quale Direttore generale di Capitalia, F. quale responsabile della funzione «Large Corporate» di Capitalia; M. quale responsabile della funzione Crediti di Capitalia, M. quale Direttore centrale di Banca di Roma.
1.1. G. rispondeva del capo A) della rubrica (bancarotta impropria continuata e fatti di bancarotta semplice per avere assicurato l’appoggio finanziario al gruppo turistico Tanzi, in assenza dei presupposti di merito creditizio: pur consapevole che il gruppo emetteva bonds per fronteggiare costanti perdite e distrazioni di fondi occultate in modo sempre più grossolano, egli aveva comunque assicurato a T. un fondamentale contributo per consentire una artificiosa sopravvivenza che aggravava ancor più il dissesto).
G. rispondeva anche del capo B) della rubrica (bancarotta impropria fraudolenta in concorso, per avere concordato con T. l’impiego di risorse per attuare finalità illecite e realizzare interessi dell’istituto di credito connessi alla ristrutturazione delle esposizioni vantate nei confronti del Gruppo Ciarrapico, facendo pressioni su T. per fargli acquistare l’azienda Ciappazzi per un prezzo esorbitante nonostante avesse valore nullo, profittando della impellente necessità di T. di ottenere il prestito-ponte).
Il capo C) della rubrica comprendeva condotte criminose di bancarotta impropria e fatti di bancarotta semplice poste in essere dagli altri imputati in concorso comunque con T.
Per il capo D) della rubrica si giungeva alla prescrizione del reato di usura, dichiarata in sede di legittimità.
Quanto agli altri imputati.
M., F., M., A. e T. rispondevano del capo C) della rubrica e cioè di bancarotta impropria continuata e di fatti di bancarotta semplice nonché distrattiva per avere concorso con G. e T. nella consumazione di varie condotte criminose descritte analiticamente nel capo A e nel capo B (ritardare la dichiarazione di insolvenza delle società del gruppo Parmalat/Tanzi; indebitare Parmalat per 50 milioni di euro attraverso un finanziamento di Banca di Roma;
organizzare una convenzione interbancaria di ristrutturazione del debito del gruppo Viaggi integralmente basata su di un piano di rilancio industriale non credibile per macroscopiche falsificazioni del valori patrimoniali; prorogare il finanziamento-ponte nonostante la palese decozione del gruppo; stipulare la convezione interbancaria che occultava la reale situazione debitoria; distrarre in parte il patrimonio della società Parmalat e Cosal con operazioni strumentali connesse ad una ristrutturazione delle esposizioni del gruppo Ciarrapico).
A. F. era stato contestato di avere partecipato all’approvazione del parere favorevole all’erogazione del finanziamento-ponte da parte di Capitalia, contribuendo poi ad attuare una strategia dilatoria che permetteva di fare pressione su T. per assentire ad una transazione nonché alla ritenzione di fondi necessari al pagamento della seconda rata di vendita dell’azienda «Ciappazzi».
A. M. era stato contestato di avere partecipato alle trattative per la definizione del piano di ristrutturazione, curando l’avvio della procedura di approvazione del finanziamento, proponendo al Comitato Crediti di Capitalia di esprimere parere favorevole all’adesione di varie banche del gruppo alla ristrutturazione del gruppo turistico Tanzi e partecipando alle trattative per la proroga del finanziamento-ponte.
A. T. era stato contestato di avere coadiuvato nella realizzazione della strategia dilatoria che permetteva di fare pressione a T., trasmettendo le direttive per la sospensione dapprima e la riattivazione poi dell’operatività del finanziamento-ponte.
Ad A. era stato contestato di avere attivamente partecipato alle operazioni necessarie per la concessione e il rinnovo del finanziamento-ponte e a quelle di realizzazione della convenzione interbancaria relativa al progetto di ristrutturazione del gruppo turistico Tanzi.
A. M. era stato contestato di avere dato impulso alla fase istruttoria del finanziamento-ponte, di avere partecipato alla redazione del parere della Struttura di supporto degli Organi deliberanti inserendovi un riferimento (strumentale) a presunte esigenze stagionali della Tesoreria Parmalat e infine proponendo al Comitato crediti l’approvazione del finanziamento.
1.2. Il Tribunale di Parma, con sentenza in data 29 novembre 2011, aveva condannato gli imputati nel modo seguente: A. alla pena di anni tre e mesi sette di reclusione; M. e F. alla pena di anni tre e mesi tre di reclusione ciascuno;
M. ad anni tre e mesi tre di reclusione; T. ad anni tre e mesi quattro di reclusione; G. ad anni cinque di reclusione. Tutti i suddetti imputati erano stati dichiarati inabilitati all’esercizio di una impresa commerciale ed incapaci ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci, nonché interdetti dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. A dette condanne si aggiungevano le statuizioni civili.
2. A seguito di impugnazione degli imputati, la Corte di appello di Bologna con sentenza in data 7 giugno 2013 confermava integralmente la condanna di primo grado.
3. La Corte di cassazione, Quinta Sezione penale, con sentenza in data 5 dicembre 2014 dichiarava inammissibili o infondati per gran parte i ricorsi proposti dagli imputati. In particolare, per quanto rileva ai fini della presente decisione, riteneva inammissibile l’eccezione di legittimità costituzionale relativa alla misura fissa decennale della durata delle pene accessorie, sulla scorta della sentenza n. 134 del 2012 della Corte costituzionale che, nell’affrontare analoga questione, l’aveva ritenuta inammissibile in quanto relativa a materie riservate alla discrezionalità del Legislatore e rivolta a chiedere una pronunzia addittiva a contenuto non costituzionalmente obbligato, e cioè un intervento manipolativo consistente nell’inserire la locuzione «fino a» dinanzi all’indicazione della durata edittale, così da configurare una forbice idonea a garantire, in sede applicativa, un’effettiva dosimetria della sanzione accessoria. Osservava la Corte di legittimità che la questione nuovamente promossa (dal ricorrente F.) – pur nella diversa prospettiva di provocare l’eliminazione dal testo della norma la formula «per la durata di dieci anni», in modo da rendere indeterminata la previsione sanzionatoria e ricondurla nella sfera di operatività della disposizione generale di cui all’art. 37 cod. pen. – era dunque parimenti inammissibile, rilevando che la sentenza n. 134 del 2012 aveva ricordato che soltanto in linea di principio le previsioni sanzionatorie determinate in misura fissa non erano in armonia con il «volto costituzionale» del sistema penale, ma che, nel caso concreto, considerata la natura dell’illecito, la misura della sanzione poteva anche essere considerata proporzionata: e comunque, anche nella nuova riproposizione, la questione tendeva a provocare una pronunzia a contenuto costituzionalmente non obbligato, poiché l’eliminazione prospettata non era l’unica soluzione possibile per rimediare all’eventuale sproporzione, potendo il legislatore ritenere necessaria la predeterminazione in misura fissa ma magari ridotta oppure utile la previsione di una cornice edittale con una gamma differenziata rispetto a quella della pena principale.
La questione quindi suggeriva un intervento non soltanto demolitorio, ma anche intrinsecamente manipolativo, apparendo così funzionale all’esercizio di un potere che esulava da quelli che competono al giudice delle leggi.
Con riferimento specifico ai reati contestati, riteneva, poi, assorbito il capo A1) – relativo al finanziamento-ponte di circa € 46.500.000,00 – in quello di bancarotta per distrazione di cui al capo B) ed annullava la sentenza con riferimento al G., al M., al F. e all’A. limitatamente al capo A3) come richiamato nel capo C).
Annullava, altresì, la sentenza della Corte di appello nei confronti del G. limitatamente al reato di cui al capo A4), rinviando per nuovo giudizio e rideterminazione del trattamento sanzionatorio, ove necessario.
A ragione, osservava che il 15 aprile 2003 il Consiglio di amministrazione della Banca di Roma aveva deliberato di prorogare l’originario finanziamento di 50 milioni di euro concesso a Parmalat – considerato distrattivo – sostituendolo con quattro prestiti dell’importo di 12,5 milioni di euro ciascuno a scadenze diverse, così confermando l’obbligo di restituzione gravante su Parmalat per un finanziamento di cui essa non aveva goduto poiché adoperato per pagamenti al gruppo Turismo e Cosal (quest’ultimo per l’acquisto abnormemente sovrastimato dell’azienda Ciappazzi del gruppo Ciarrapico). La decisione di Parmalat di chiedere una proroga onerosa del finanziamento era certamente addebitabile al ceto gestorio di quella società, tuttavia, per poterlo addebitare anche al creditore, occorreva stabilire quale fosse stato l’effettivo contributo concorsuale, che non poteva identificarsi con la mera decisione di concedere la proroga. Detto aspetto non era stato adeguatamente esaminato dalla sentenza di condanna.
4. Il giudizio di rinvio veniva definito dalla Corte di appello di Bologna il 14 dicembre 2015.
Rilevava la Corte di merito che il capo A3) oggetto dell’annullamento faceva riferimento alla proroga del prestito-ponte e concludeva per l’assoluzione di G., i M., i F. e A. poiché non risultava una loro responsabilità concorsuale.
Perveniva alla medesima conclusione per il capo A4 (stipula della convenzione interbancaria con cui era stata consentita la ristrutturazione dell’indebitamento del comparto turistico delle società del T.), rilevando che tutte le emergenze probatorie offrivano soltanto supporti indiziari di natura logica, ma nessun altro elemento oltre quelli già ritenuti insufficienti dalla Corte di cassazione; assolveva quindi anche con riferimento al capo A4).
Quanto al trattamento sanzionatorio, premesso che il capo A1) di bancarotta societaria era stato già ritenuto assorbito nei fatti distrattivi di cui al capo B), la Corte di appello rideterminava le pene complessive: per G. in anni quattro e mesi sei di reclusione;
per M. in anni tre e mesi due di. reclusione; per F. in anni due e mesi due di reclusione; per A. in anni tre e mesi sei di reclusione;
per M. in anni tre e mesi due di reclusione; per T. in anni tre e mesi tre di reclusione. Confermava per tutti le pene accessorie sopra indicate.
La Corte territoriale nella sentenza citata esaminava nuovamente il tema della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 216 e 223 legge fallimentare nella parte in cui prevedono che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta sanzionati, si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata, in misura fissa, di dieci anni (questione sollevata dai difensori di M. A. con riferimento agli artt. 3, 4 e 27 Cost.). La censura evidenziava che tali pene accessorie conseguono a comportamenti di gravità assolutamente diversa, essendo profondamente differenziate le varie condotte sussunte nella norma incriminatrice – bancarotta distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – difformi tra loro sul piano oggettivo e punite con una pena che spazia in un ambito ampio, e cioè da tre a dieci anni di reclusione; al contrario, la misura fissa della durata delle pene accessorie poteva prolungarsi ben oltre la durata della pena principale, senza alcuna reale giustificazione e violando il principio di eguaglianza. La Corte di appello, in risposta, osservava previamente che identica questione era stata sollevata dalla difesa F. (con prospettazione della violazione dell’art. 27, comma terzo, Cost.) con il ricorso per Cassazione e che la Corte di cassazione ne aveva statuito la inammissibilità: da ciò traeva la conclusione dell’inammissibilità dell’identica questione nel giudizio di rinvio, nel occorre uniformarsi alla decisione rescindente per ciò che concerne ogni questione di diritto decisa; in proposito, opinava la Corte territoriale che i precedenti giurisprudenziali (tanto della Corte costituzionale quanto della Corte di cassazione) non lasciavano spazio ad una possibilità di deroga all’obbligo di conformarsi del giudice del rinvio, prevedendo essi questa possibilità in relazione ad ipotesi di «nuovo» dubbio di costituzionalità o di novelle normative o di intervenute sentenze della Corte di giustizia europea, e non anche nell’ipotesi di riproposizione della medesima questione negli stessi termini. Nondimeno (pur considerando l’applicazione e la durata della pena accessoria interdittiva come un aspetto già in giudicato parziale per tutti gli imputati che avevano riportato condanna), la Corte territoriale rilevava che la questione di legittimità costituzionale poteva considerarsi formalmente nuova nella parte riferita alla violazione dei precetti costituzionali posti dagli artt. 3 e 4 Cost., in precedenza non richiamati, ma veniva comunque ritenuta manifestamente infondata. In primo luogo, si notava che, nel caso concreto, il trattamento sanzionatorio doveva determinarsi con riferimento ad ipotesi pluriaggravate di bancarotta, la cui pena massima edittale era superiore alla durata delle pene accessorie; in secondo luogo, si sottolineava che le pene accessorie avevano anche una specifica funzione specialpreventiva e che il sistema penale conosceva sanzioni accessorie «perpetue» (perdita di potestà genitoriale, esclusione dai diritti successori, interdizione da funzioni tutoriali) che prescindono dalla commisurazione della pena principale e che si connettono a violazioni della normativa considerate particolarmente significative in senso negativo; in terzo luogo, l’importanza della correttezza dell’agire commerciale – posta al centro dell’attività sociale e del bene comune dei traffici economici – rendeva non irragionevole (nell’ambito della discrezionalità della potestà normativa) che le norme poste a presidio di quella correttezza si commisurassero ad un periodo di durata fissa ritenuta congrua rispetto a finalità specialpreventive e risocializzanti. Di conseguenza, pur annotando la Corte territoriale che il sistema complessivo necessitava di una riforma, la previsione afflittiva di una durata fissa anche in misura superiore al minimo edittale o alla pena concretamente irrogata, non violava il principio di eguaglianza né la tutela del diritto al lavoro, la cui diminuzione era giustificata nel bilanciamento con altre esigenze pubblicistiche.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, chiedendone l’annullamento.
5. Ricorso E. F. a mezzo del difensore, avv. Alessandro Diddi.
5.1. Con il primo motivo ripropone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, legge fallimentare, poiché predetermina in misura fissa le pene accessorie sganciandole dalla considerazione della specifica gravità dei comportamenti così accomunando condotte e situazioni molto eterogenee.
5.2. Con il secondo motivo deduce omessa od illogica motivazione circa l’aumento di pena a titolo di continuazione.
5.3. Con il terzo motivo deduce erronea applicazione di legge per avere la sentenza escluso la circostanza attenuante della minima partecipazione a causa del numero dei partecipanti, che però non era mai stato contestato formalmente.
5.4. Con il quarto motivo deduce inosservanza di norme relativamente alla conferma delle statuizioni civilistiche poiché, pur con una assoluzione per parte della condotta, non vi era stata modifica delle statuizioni sugli interessi civili.
6. Ricorso A. M. a mezzo dei difensori, avv. Gianluca De Fazio e avv. Alessandro Diddi.
6.1. Con il primo motivo ripropone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, legge fallimentare, poiché predetermina in misura fissa le pene accessorie sganciandole dalla considerazione della specifica gravità dei comportamenti così accomunando condotte e situazioni molto eterogenee.
6.2. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione di legge nel non avere il giudice ritenuto prevalenti le circostanze attenuanti generiche.
6.3. Con il terzo motivo deduce omessa od illogica motivazione circa l’aumento a titolo di continuazione.
6.4. Con il quarto motivo deduce erronea applicazione di legge per avere la sentenza escluso la circostanza attenuante della minima partecipazione a causa del numero dei partecipanti, che però non era mai stato contestato formalmente.
6.5. Con il quinto motivo deduce inosservanza di norme relativamente alla conferma delle statuizioni civilistiche poiché, pur con una assoluzione per parte della condotta, non vi era stata modifica delle statuizioni sugli interessi civili.
7. Ricorso C. G. a mezzo dei difensori, avv. Franco Coppi ed avv. Ennio Amodio.
7.1. Con il primo motivo deduce mancanza e contraddittorietà della motivazione, lamentando che, nonostante il venire meno di ben quattro declaratorie di colpevolezza su sette, la pena complessiva finale inflitta era di soli sei mesi inferiore a quella originaria, e la pena-base era stata individuata non tenendo conto dell’assoluzione per il capo A3).
7.2. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione di legge: denuncia che il giudice di rinvio aveva ritenuto che all’interno del capo B) residuassero due distinti fatti di bancarotta, con la conseguenza di rendere applicabile l’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fallimentare: in realtà proprio la Corte di cassazione, nel dichiarare assorbito il capo Al) nel capo B), aveva ritenuto quelle operazioni come un unicum.
In ogni caso, poi, il giudizio di equivalenza tra circostanze attenuanti e circostanze aggravanti era stato generico e privo di congrua motivazione, soprattutto alla luce delle assoluzioni per due capi di imputazione.
7.3. Con il terzo motivo deduce mancanza ed illogicità della motivazione: censura la misura dell’aumento di pena per la continuazione, che era rimasto uguale nonostante originariamente fosse motivato dalla condanna per due distinti reati, mentre era ormai venuto meno il reato di cui al capo A4), con radicale mutamento della catena di episodi ravvisati in continuazione.
8. Ricorso R. T. a mezzo dei difensori, avv. Giuseppe Bana ed avv., Giorgio Perroni.
8.1. Con il primo motivo deduce erronea applicazione di legge: sostiene che la Corte territoriale non si era uniformata alla decisione della Corte di legittimità, la quale aveva ritenuto la necessità di rimodulare il trattamento sanzionatorio, con nuova valutazione nel merito e non un semplice scomputo.
8.2. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione di legge in merito alla pena inflitta, ritenuta sproporzionata per la non ritenuta prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.
9. Ricorso R. M. a mezzo dei difensori, avv. Guido Carlo Alleva ed avv. Nicola Apa.
9.1. Con il primo motivo deduce erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione relativamente al bilanciamento tra circostanze ed alla determinazione della pena, effettuata senza considerare che la condotta addebitata era stata realizzata in un limitato arco di tempo e senza effettuare una reale verifica della condotta del ricorrente.
9.2. Con il secondo motivo censura poi la ritenuta mera equivalenza delle circostanze attenuanti generiche alle circostanze aggravanti contestate.
10. Ricorso M. A. a mezzo dei difensori, avv. Valerio Onida ed avv. Domenico Pulitanò.
10.1. Con il primo motivo deduce, con il primo motivo, erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione circa la commisurazione della pena: la pena era stata ridotta di un solo mese, senza considerare l’assorbimento di un reato in un altro, la marginalità dì condotta e la mancanza di interessi illeciti personali.
10.2. Con il secondo motivo denunzia violazione di legge in relazione alla questione di costituzionalità dell’art. 216, ultimo comma, legge fallimentare, proposta con riferimento all’art. 27 della Costituzione relativamente alla durata fissa della pena accessoria interdittiva.
La Corte territoriale aveva ritenuto preclusa la questione poiché già affrontata dalla Corte di Cassazione; ma l’applicazione di quella norma veniva in rilievo soltanto con la condanna, per cui la questione andava affrontata in sede di rinvio. La questione non poteva ritenersi inammissibile e non appariva legittima l’applicazione di una norma basata su concezioni di tradizionale autoritarismo, ormai superata da principi costituzionali che impongono di rifuggire da sanzioni in misura fissa. La norma censurata appare inoltre in contrasto con l’art. 8 CEDU (relativo alla vita privata, rispetto al quale le limitazioni vanno considerate come ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita professionale) e con l’art. 14 CEDU (relativo al godimento dei diritti di proprietà ed uso dei beni). Ripropone, per l’effetto, la questione menzionata.
Con successiva memoria, a firma dei difensori avv. Domenico Pulitanò e avv. Valerlo Onida, venivano ulteriormente sviluppati i denunziati profili di illegittimità costituzionale; veniva illustrata ancora l’assenza di preclusione (ritenuta invece sussistente dalla Corte di appello) all’esame della questione di legittimità costituzionale medesima, evidenziando che la valutazione della sussistenza dei requisiti per la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale non costituisce una «questione di diritto decisa» ai sensi dell’art. 627, comma 3, codice di procedura penale poiché la norma indicata dalla Corte di cassazione deve poi essere applicata nel giudizio di rinvio ed il giudice di rinvio non può non essere legittimato ad eccepire una illegittimità costituzionale (la memoria richiama l’ordinanza n. 118 del 2016 della Corte Costituzionale). In ogni caso, la questione dedotta dinanzi alla Corte di Appello di Bologna era diversa e più ampia rispetto a quella non accolta dalla Corte di Cassazione con la sentenza di annullamento parziale, non chiedendo essa di eliminare dal testo di una norma una limitata formula («per la durata di dieci anni»), ma di dichiarare l’illegittimità costituzionale degli articoli 2016, ultimo comma, e 223, ultimo comma, legge fallimentare in quanto comportanti l’automatica applicazione della pena accessoria in misura fissa e senza alcun apprezzamento del caso concreto.
Considerato in diritto
1. I ricorsi oggetto di esame attengono tutti, nella sostanza, al trattamento sanzionatorio e le censure relative alle pene principali inflitte – ivi comprese quelle con cui si sostiene la unitarietà del fatto di bancarotta per distrazione riferibile al patrimonio della medesimo ente, ancorché posto in essere con pluralità di atti o dando al compendio distratto diverse destinazioni (Sezione U, n. 21039 del 27 gennaio 2011, L) – potrebbero in larga misura essere risolte direttamente in questa sede.
Non altrettanto, invece, può dirsi per le doglianze riferite alla durata delle pene accessorie inflitte.
2. Nella sentenza di annullamento con rinvio, a seguito della quale è stata pronunziata la sentenza oggi impugnata, è stato affermato il principio di diritto che, «stante l’inequivocabile tenore letterale dell’ultimi comma dell’art. 216 legge fallimentare, deve ritenersi legittimamente applicata la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e [dell’] incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa nella misura di dieci anni e, pertanto, anche in misura superiore a quella della pena principale inflitta, trattandosi di pene accessorie la cui durata è fissata dal legislatore in misura determinata e fissa e, quindi, a prescindere dalla durata della pena principale, con conseguente inapplicabilità dell’art. 37 del codice penale e del potere del giudice di modularne la durata». E tale interpretazione, vincolante per il giudice di rinvio, non può essere più posta in discussione, neppure nel nuovo giudizio di legittimità, rappresentando la regola iuris a cui occorre conformarsi per il caso concreto in esame.
Tanto posto, deve essere esaminata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (recante «disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa»), nella parte in cui prevedono che la condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e la incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni, prospettata con riferimento agli articoli 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 CEDU e 1 Protocollo n. 1 CEDU.
3. Quanto a rilevanza, non può condividersi la tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, secondo cui tale questione era ormai inammissibile poiché sulla stessa si era già pronunziata la Corte di cassazione con la sentenza di annullamento con rinvio.
La questione non poteva difatti intendersi riferita a situazione esaurita, perché, proprio in ragione dell’annullamento, la norma doveva ancora essere applicata dal giudice del rinvio.
Nessuna preclusione può ritenersi formata sul punto poiché, come rimarcato dalla stessa Corte costituzionale, «Non può invero condividersi il dubbio che il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio impedisca la proposizione della questione di legittimità costituzionale di quella norma da cui è stato tratto il principio di diritto cui deve uniformarsi il giudice di rinvio; e ciò quando anche questi si sia già pronunciato con decisione impugnata. Infatti la contraria interpretazione contrasta con il chiaro disposto degli articoli 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e 23 della legge n. 87 del 1953, secondo cui tali questioni possono essere sollevate nel corso del giudizio, senza alcuna specifica limitazione. In tal senso è del resto la comune interpretazione giurisprudenziale e dottrinale. Si può inoltre aggiungere che, altrimenti, la Corte costituzionale non potrebbe pronunciarsi sulle questioni di legittimità costituzionale relative a norme che devono ancora ricevere applicazione nella fase di rinvio, con conseguente violazione della disposizione costituzionale sopra indicata» (Corte costituzionale, sentenza n. 138 del 1977, e conformi, fra molte, n. 11 del 1981; n. 138 del 1993; n. 257 del 1994, nonché con specifico riguardo al giudizio di cassazione conseguente ad annullamento con rinvio, n. 305 del 2008).
Ed anzi, come osservato dalle difese, l’art. 24 legge n. 87 del 1963, disponendo al secondo comma che l’eccezione può essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore del processo, implicitamente parrebbe ammettere come unico limite quello della sua non riproponibilità nell’ambito del medesimo grado.
Deve aggiungersi che, come pure correttamente evidenziato dalle difese, da un lato la risoluzione di un dubbio di legittimità costituzionale non può considerarsi questione di diritto decisa con effetti preclusivi dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di cassazione perché unico organo che può definitivamente pronunciare sulla legittimità costituzionale di una norma è la Corte costituzionale; dall’altro che la questione oggi prospettata non corrisponde esattamente a quella esaminata nel precedente giudizio di legittimità, avendo questa riguardo ad ulteriori, differenti parametri.
Ne discende che unico fattore decisivo è che la norma della cui legittimità costituzionale si dubita dovrebbe essere definitivamente applicata solo all’esito del presente giudizio, nel quale, come anticipato, ogni altra questione potrebbe essere definitivamente risolta.
4. Neppure può condividersi, ad avviso del Collegio, la conclusione cui è pervenuta la sentenza di annullamento con rinvio circa l’inammissibilità della questione già in quella sede prospettata facendo riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale n. 134 del 2012. E ciò per plurime ragioni.
Con la sentenza n. 134 del 2012 la Corte costituzionale ritenne inammissibile la questione allora a lei sottoposta poiché i rimettenti, nel prospettare la violazione degli articoli 3, 4, 27, terzo comma, 41 e 111 della Costituzione, e, in particolare, del principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) e del principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, comma terzo, Costituzione), sostanzialmente chiedevano «alla Corte di aggiungere le parole «fino a» all’ultimo comma dell’art. 216 del regio decreto n. 267 del 1942 al fine di rendere possibile l’applicazione dell’art. 37 del codice penale. In tal modo, ritenne la Corte, si richiedeva una addizione normativa che – essendo solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili – non costituiva una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccedeva i poteri di intervento della Corte costituzionale, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore.
Detta decisione si occupò, dunque, di questione di legittimità costituzionale analoga, ma, come detto, non perfettamente corrispondente a quella ora in esame.
Rileva, per altro, che nell’ambito di tale decisione la Corte ebbe a «ribadire (da ultimo, ordinanza n. 293 del 2008) l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma».
Tale proposizione, riconoscendo la non conformità ai parametri evocati della disciplina censurata, si presta ad assumere la valenza di monito a cui non ha fatto seguito, ad oggi, alcun intervento legislativo adeguatore. Sicché la precedente pronunzia non sembra potere esimere la Corte di cassazione dal sollecitare nuovamente la Corte costituzionale a porre rimedio all’illegittimità costituzionale già accertata ma non dichiarata mediante una pronunzia demolitiva strettamente ancorata alla questione sottopostale (mutatis, tra più, Corte costituzionale n. 45 del 2015).
In tale contesto, appare quindi opportuno rimettere alla Corte costituzionale la valutazione circa la fondatezza dell’osservazione di una delle difese, secondo la quale il sindacato del giudice ordinario sulla rilevanza e non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale non può intendersi esteso anche alla rilevazione della eventuale inammissibilità della questione per discrezionalità del legislatore.
5. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il Collegio stima ì dubbi di illegittimità costituzionale prospettati non meramente plausibili, ma seri e meritevoli di vaglio da parte dell’organo giurisdizionale istituzionalmente deputato al controllo di costituzionalità delle leggi.
In sintesi, la questione, relativa all’art. 216, ultimo comma, legge fallimentare, attiene alla durata della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali ed alla incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, fissata inderogabilmente – alla luce del principio di diritto vincolante fissato nel presente giudizio – nella misura di dieci anni.
5.1. Sulla questione medesima si era registrato un contrasto giurisprudenziale all’interno di questa Corte. La sentenza di annullamento con rinvio che ha fissato la regola per il caso concreto aderisce all’orientamento maggioritario, che ritiene che la durata delle pene accessorie di cui all’art. 216 citato è fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni, tanto emergendo dal dato testuale della disposizione, e che, per conseguenza, detta pena è sottratta alla regola prevista dall’art. 37 del codice penale (tra le altre, Sezione 5, 20 settembre 2007, n. 39337, B., Rv. 238211; Sezione 5, 18 febbraio 2010, n. 17690, Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a. ed altro, Rv. 247319; Sezione 5, 10 novembre 2010, n. 269, M., Rv. 249500). Si è argomentato in tal senso valorizzando anche la diversità del testo della norma in esame rispetto a quello previsto dall’art. 217, legge fallimentare per il reato di bancarotta semplice documentale, laddove la pena accessoria, determinata solo nel massimo, sarebbe invece soggetta al principio generale previsto dall’art. 37 del codice penale (Sezione 5, 15 marzo 2000, n. 4727, A. ed altro, Rv. 215987). Questa lettura, pur contrastata da altro indirizzo giurisprudenziale secondo il quale anche la pena accessoria prevista dall’art. 216, legge fallimentare non sarebbe sottratta alla regola di cui all’art. 37 del codice penale (essenzialmente sul rilievo che tale diversa opzione ermeneutica sarebbe necessitata da una lettura costituzionalmente alla luce di Corte costituzionale n. 91 del 2008 e della richiamata sentenza n. 50 del 1980), risulta, per altro, assolutamente consolidata dopo l’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 134 del 2012, essendosi in più occasioni ritenuto che la pronuncia della Consulta avrebbe «implicitamente» confermato la validità dell’interpretazione recepita dall’indirizzo maggioritario (Sezione 5, n. 30341 del 30 maggio 2012, P., Rv. 253318; Sezione 5, n. 11257 del 31 gennaio 2013, R. F., Rv. 254641; Sezione 5, n. 42731 del 20 settembre 2012, R., Rv. 254736; Sezione 5, n. 51526 del 18 ottobre 2013, B., Rv. 258665; Sezione 5, n. 628 del 18 ottobre 2013, dep. 2014, D. C., Rv. 257947).
5.2. Le osservazioni poste a base dell’indirizzo interpretativo abbandonato – e, comunque, non coltivabile in questa sede per le ragioni esposte – continuano tuttavia a sostenere, ad avviso del Collegio, la non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale prospettato.
Corte costituzionale sentenza n. 50 del 1980, richiamata dalla sentenza n. 91 del 2008, aveva affermato il principio che la «mobilità» della pena, cioè la sua predeterminazione tra un minimo ed un massimo, costituisce corollario, da una parte, del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, per la necessità di proporzionarla all’effettiva entità ed alle specifiche esigenze dei singoli casi, e, dall’altra, di quello di legalità, di cui all’art. 25, secondo comma, Costituzione, che «dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali – come quelli indicati dall’art. 27, primo e terzo comma, Costituzione – ed in cui «l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità» (sentenza n. 104 del 1968)». Nella occasione la Corte costituzionale spiegò altresì che «l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti – in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento – contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile “personale” la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma; e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile “finalizzata”, nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma, Costituzione. Il principio d’uguaglianza trova in tal modo dei concreti punti di riferimento, in materia penale, nei presupposti e nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli altri) espressamente assegnati alla pena nello stesso sistema costituzionale. L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, “proporzione” della pena rispetto alle “personali” responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale». E concluse nel senso che «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale; ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato».
La durata invariabile delle pene accessorie previste dall’art. 216 della legge fallimentare, che, ancorché temporanee, hanno indubbiamente natura afflittiva, risolvendosi in una incisiva ma anelastica limitazione di beni di rilevanza costituzionale, quali la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41, il diritto al lavoro di cui all’art. 35, le finalità rieducative della pena di cui all’art. 27, secondo comma, Costituzione, indipendentemente dall’entità della pena principale irrogata – che per la bancarotta fraudolenta può essere pari al minimo edittale di anni tre, o nettamente inferiore per effetto di circostanze attenuanti e del ricorso a riti alternativi -, non appare, dunque, in sintonia con i principi e i valori della Carta costituzionale sopra enunciati.
La fissità della sanzione accessoria sembra, in altri termini, contrastare con «il volto costituzionale» dell’illecito penale il quale postula adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, al fine di permettere l’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete. A siffatta impostazione sembra rifarsi altresì Corte costituzionale sentenza n. 91 del 2008.
5.3. In questa prospettiva, in particolare, non appare manifestamente infondata la denunzia di contrasto dell’art. 216, ultimo comma, legge fallimentare, laddove fissa per le pene accessorie ivi previste la durata fissa di dieci anni, con i principi complessivamente ravvisabili negli articoli 3 e 27 Carta fondamentale, attesa la rigidità dispositiva della prescrizione penale, a fronte del variare della situazione concreta, caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale. La norma costituzionale, nell’imporre all’ordinamento la celebrazione di processi giusti, non pretende soltanto un corretto svolgimento degli stessi per il rispetto della legge, delle garanzie assegnate alle parti, del contraddittorio, per l’espletamento della decisione in limiti di tempo ragionevoli. Essa prefigura anche la garanzia di un’equa soluzione, alla luce delle risultanze di causa che il giudice acquisisce nella varie fasi processuali. Non è dato, allora, scorgere quale coerenza possa ravvisarsi in un sistema che annovera un dettagliato paradigma valutativo negli articoli 132 e 133 del codice penale, ma impedisce al giudice di ricondurre siffatti esiti ad un’equa e adeguata considerazione sanzionatoria in punto di pene accessorie. E il dubbio è rilevante nel caso concreto, anche alla luce della diversa modulazione delle pene principali inflitte ai ricorrenti.
La violazione dei principi di eguaglianza, colpevolezza, proporzionalità, sta nella indiscriminata preclusione della possibilità di differenziare tra situazioni diverse, secondo criteri già indicati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 50 del 1980, e, in definitiva, nella impossibilità di adeguare la pena accessoria rispetto alle «personali» responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono. Né è dubitabile che la funzione rieducativa della pena presupponga anche la garanzia di un’equa soluzione, alla luce delle risultanze dì causa che il giudice acquisisce nella varie fasi processuali, che tenga conto del tasso di colpevolezza accertato e che moduli in proporzione la risposta punitiva.
L’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio che, anziché prevedere una ingiustificata equiparazione di situazioni profondamente differenti, renda possibile tale adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna, potrebbe, d’altra parte, in larga parte essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’art. 37 del codice penale, così consentendosi al giudice di determinare la durata della pena accessoria in collegamento con la pena principale inflitta e, quindi, in base a valutazioni di gravità del fatto concreto.
Del resto, nella contigua materia penitenziaria, è criterio «costituzionalmente vincolante» quello che esclude «rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata caso per caso» (sentenza n. 436 del 1999). Così, se si esclude radicalmente il ricorso a criteri individualizzanti, «l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo» (sentenza n. 257 del 2006; in senso conforme sentenza n. 79 del 2007) e si instaura di conseguenza un automatismo «sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» (sentenza n. 255 del 2006; sentenza n. 189 del 2010).
5.4. Con riferimento agli articoli 3, 4 e 41 della Costituzione, il menzionato inflessibile rigore della sanzione interdittivi si risolve in una ingiustificata, indiscriminata incidenza sulla possibilità dell’interessato di esercitare il suo diritto al lavoro, non soltanto come fonte di sostentamento ma anche come strumento di sviluppo della sua personalità, e importa una drastica e non proporzionata compressione del diritto di iniziativa economica esercitabile anche attraverso l’attività di impresa, non rispettosa dei principi che indirizzano a fini sociali l’iniziativa economica privata e che ne riconoscono la libertà.
5.5. Infine, la disposizione censurata suscita dubbi di conformità a Costituzione anche con riferimento all’art. 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 8 CEDU e Protocollo n. 1 CEDU.
Secondo la Corte di Strasburgo la nozione convenzionale di «vita privata» di cui all’art. 8 CEDU ricomprende anche le attività professionali e commerciali (sentenza Vitiello c. Italia del 23 marzo 2006), rispetto alle quali le limitazioni derivanti dall’applicazione della pena accessoria devono considerarsi quali ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita privata e, come tali, non soltanto devono essere previste dalla legge e debbono perseguire uno scopo legittimo, ma devono essere proporzionate rispetto a detto scopo, comportando la violazione del divieto di discriminazione nel godimento del diritto al rispetto della vita familiare oltre che una ingerenza nel godimento del diritto di proprietà garantito dall’art. 1 del Protocollo n. 1 che ricomprende anche diritti ed interessi patrimoniali.
Alla categoria di restrizioni automatiche ed indiscriminate, incompatibili con i principi sopra menzionati, parrebbe potersi ricondurre la norma censurata che, se certamente è prevista da una disposizione legislativa, comporta una limitazione, non solo di ampia portata ed omnicomprensiva, considerato il significato che deve attribuirsi all’espressione «impresa commerciale», ma anche per un tempo predeterminato in misura fissa, allo svolgimento di qualunque attività economica in proprio e comunque in posizioni direttive.
Sembrerebbero stridere, perciò, con i principi richiamati sia l’automatismo conseguente alla condanna per bancarotta fraudolenta sia la fissità in termini di durata della sanzione medesima, senza alcuna possibilità di graduarne la misura in base alla gravità delle condotte accertate.
6. Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve in conclusione ritenersi rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 CEDU e 1, Protocollo n. 1 CEDU, la sollevata questione di legittimità costituzionale degli articoli 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa»), nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
Va per l’effetto disposta l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso.
A cura della cancelleria la presente ordinanza sarà notificata ai ricorrenti e alle parti civili, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sarà comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento.
P.Q.M.
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 CEDU e 1, Protocollo n. 1 CEDU, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa»), nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguono obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso.
Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata ai ricorrenti e alle parti civili, al procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento.
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