CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2017, n. 17913
Inps – Sospensione dei ruoli – Cartella esattoriale – Impugnazione – Decadenza
Rilevato che
la C. s.p.a. ricorre per cassazione contro la sentenza, pubblicata in data 30/8/2010, della Corte d’appello di Perugia che ha confermato la sentenza del tribunale che ha dichiarato la società decaduta dal diritto di proporre opposizione contro la cartella esattoriale, notificata il 3/4/2006, in relazione a due (dei tre) ruoli emessi, rispettivamente di € 15.021,41 e di 19.236,71;
la sentenza impugnata ha dato atto che il ricorso in opposizione è stato proposto in data 24/5/2006, e dunque oltre il termine di 40 giorni fissato dall’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999; al riguardo, ha ritenuto irrilevante la circostanza, dedotta dall’opponente-appellante, che l’Inps avesse sospeso l’efficacia del ruolo e avesse comunicato solo in data 8/5/2006 la revoca della sospensione, in ragione della perentorietà del termine previsto dalla norma citata;
i motivi di ricorso proposti sono due, e ad essi l’Inps resiste con controricorso; non svolge attività difensiva Equitalia Umbria s.p.a.; Considerato che:
il primo motivo ha ad oggetto la violazione o falsa applicazione dell’art. 24 del d.lgs. n. 46/1999, in relazione agli art. 1322, 1324, 1175 e 1375 cod. civ. In sintesi, la parte rileva che il provvedimento del febbraio 2006 con cui l’Inps di Città di Castello aveva disposto la sospensione dei ruoli, poi revocata, aveva il valore negoziale di sospensione unilaterale dell’efficacia della cartella sicché solo per effetto della revoca della sospensione, e da tale data, era sorto l’onere di impugnazione;
il motivo è infondato alla luce dei precedenti di questa Corte, secondo cui il termine previsto dalla norma citata ha natura perentoria e la sua decorrenza produce l’effetto di rendere incontestabile la pretesa consacrata nella cartella di pagamento (Cass. 12/03/2015, n.4978; Cass. ord. 15/10/2010, n. 21365; Cass. 1/07/2008, n. 17978; Cass. 25/06/2007,n. 14692); il principio è stato di recente riaffermato con sentenza di questa Corte del 6/6/2016, n. 11596, in un caso del tutto sovrapponibile alla fattispecie in esame, in cui si è ribadito che il potere di sospensione riconosciuto all’ente dall’art. 25, comma 2 d.lgs. 46/1999, incide soltanto sulla riscossione del credito (ovvero sugli effetti esecutivi successivi alla formazione del ruolo), ma non ha invece alcun effetto sul termine per impugnare in giudizio il ruolo, in seguito alla notifica della cartella, da esercitarsi entro il termine di decadenza;
d’altra parte, venendo in questione un termine di impugnazione previsto a pena di decadenza, vale pure il principio stabilito dall’art. 2964 cod.civ. secondo il quale la decadenza non può essere sospesa, salvo che sia altrimenti disposto; e nella fattispecie la legge nulla dispone in tal senso;
neppure può assumere rilievo, ai fini del rispetto del termine di impugnazione, la motivazione del provvedimento di sospensione che, secondo la prospettazione della ricorrente, era stato assunto in attesa di verificare Vari ed il quantum dei crediti: tale motivazione vale al solo scopo di giustificare l’esercizio del potere discrezionale riconosciuto all’ente di sospendere la riscossione coattiva del credito, ma non implica alcuna rinuncia della pretesa sostanziale, né può assumere valenza negoziale di sospensione del termine in questione, il quale è fissato dalla legge a tutela dell’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche e alla definitività delle sue pretese;
sotto tale riguardo, il provvedimento di sospensione non era idoneo a prorogare il termine di impugnazione sine die o, quanto meno fino alla sua revoca e, per le stesse ragioni, non era idoneo a suscitare un legittimo affidamento in tal senso; è invece inammissibile il secondo motivo di ricorso, prospettato come violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. per omessa pronuncia, da parte della Corte d’appello, sul motivo di gravame avente ad oggetto la richiesta di applicazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241/1990: a prescindere dalla genericità della censura, che sembra sollecitare un inammissibile potere di controllo del giudice ordinario sul mancato esercizio da parte dell’amministrazione dell’autotutela, (Cass. Sez. Un., 4/10/1996, n. 8685; Cons. Stato, 3/5/2012, n. 2549), la ricorrente ha omesso di trascrivere gli esatti termini in cui la questione sarebbe stata sottoposta alla cognizione del giudice di merito, nonché le ragioni del suo rigetto;
al fine di dedurre utilmente in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è invero necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra sarebbero state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi (Cass. 4/7/2014, n. 15367);
dalla lettura del ricorso per cassazione si rileva che la questione (che sembra più un argomento difensivo che una vera e propria domanda) è stata introdotta solo nelle note difensive del 2/5/2008, e dunque tardivamente rispetto al regime di preclusioni che governa la fase introduttiva del giudizio, sicché il suo mancato esame da parte del giudice di merito appare implicitamente sorretto dalla inammissibilità per novità della questione;
a ciò deve aggiungersi che, essendo la questione intrinsecamente attinente al merito della pretesa contributiva azionata, correttamente il giudice non l’ha esaminata essendosi spogliato della potestas judicandi con la declaratoria di inammissibilità dell’opposizione (Cass. Sez. U., 17/6/2013, n. 15122);
in definitiva il ricorso deve essere rigettato e la società deve essere condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura indicata in dispositivo;
nessun provvedimento sulle spese deve adottarsi nei confronti della parte che non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in € 3.700,00, di cui 3.600,00 per compensi professionali, oltre al 15% per spese generali nella misura del 15% e agli altri accessori di legge. Nulla sulle spese del presente giudizio nei confronti della parte rimasta intimata.