CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 settembre 2017, n. 21810
Imposte – Accertamento – Maggiori imposte – Campeggio – Contenzioso tributario – PVC
Premesso
– che con la sentenza n. 42/07/2010 la Commissione Tributaria Regionale del Veneto accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva a sua volta accolto il ricorso proposto da V.M., titolare di un camping con annessi bar ristorante e minimarket, avverso l’avviso di accertamento di maggiori imposte ai fini IVA, IRPEF ed IRAP per l’anno di imposta 2003, sostenendo che i giudici di primo grado non avevano esaminato gli elementi contenuti nell’avviso di accertamento, che, di contro, stavano ad attestare la fondatezza della pretesa tributaria stante la posizione del campeggio in posto turisticamente rilevante, le 270 giornate di apertura dichiarate dallo stesso gestore, il numero dei posti del bar ristorante, il costo del venduto, la correttezza della percentuale di ricarico applicata dall’ufficio finanziario nella misura del 170 per cento, tenuto altresì conto della carenza strutturale dello stesso e dell’area piuttosto piccola destinata a campeggio, che comunque non poteva aver ospitato meno di 3750 ospiti e 1500 tra tende, caravans ed autovetture;
– che avverso la sopra indicata sentenza, notificata in data 29/10/2010, il contribuente propone tempestivo ricorso per cassazione affidato a due motivi, variamente articolati ed illustrati con memoria, cui l’intimata resiste con controricorso;
Considerato
– che con il primo motivo di cassazione il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., la carenza e la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che i giudici di appello avevano fatto riferimento: a) ad una ricettività in tenda del camping, di cui non si faceva menzione nell’avviso di accertamento; b) alle gravi carenze strutturali del camping, risultante pure da una delibera del 26/09/2006 dell’Ente comunale proprietario dell’area di campeggio, e poi contraddittoriamente rilevando un’operatività piena ed una normale redditività della stessa; c) ad una percentuale di ricarico erroneamente determinata (nella misura del 170 per cento), non avendo i giudici di appello considerato che l’accertamento era stato effettuato nel 2007 quando l’attività era cessata nel 2004, che le merci venivano utilizzate anche per la vendita nello spaccio interno del campeggio e non soltanto nel ristorante, cosicché era coerente e corrispondente alla realtà il ricarico applicato nella misura del 97 per cento;
– che con il secondo motivo ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 nonché il vizio di contraddittoria ed insufficiente motivazione per avere i giudici di appello ritenuto l’anno di imposta 2003, precedente a quello di cessazione dell’attività, come periodo di normale svolgimento dell’attività;
– che entrambi i motivi sono inammissibili e vanno rigettati;
– che, invero, il primo motivo è carente sotto il profilo dell’autosufficienza, in quanto formulato in violazione del disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., che ha codificato il principio di autosufficienza, in base al quale, secondo l’insegnamento costantemente impartito da questa Corte , nel ricorso devono essere presenti tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass. n. 15952 del 2007), imponendosi al ricorrente per cassazione di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, “gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso si fonda mediante riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura, oppure attraverso una riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione” (cfr. Cass. n. 1142 del 2014);
– che nella specie il ricorrente non si è attenuto ai suddetti principi; invero, il vaglio di fondatezza della censura presuppone l’esame e, quindi, la conoscenza del contenuto degli atti cui si fa riferimento nel motivo di ricorso e cioè delle motivazioni dell’avviso di accertamento, del processo verbale di constatazione (di cui è trascritto soltanto un brevissimo quanto incompleto passo argomentativo) nonché della delibera comunale del 26/09/2006, peraltro successiva di ben due anni rispetto alla data di cessazione dell’attività da parte della società ricorrente su quell’area di campeggio;
– che il motivo è inammissibile anche perché con esso il ricorrente sollecita non un controllo di adeguatezza e logicità del giudizio di fatto, ma una revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito alla soluzione della questione esaminata, non consentita alla Corte, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un altro giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 14233 del 2015) non eludibile nemmeno attraverso il principio di autosufficienza (mediante la trascrizione, o addirittura riproduzione e materiale allegazione degli atti di causa), spettando in via esclusiva al giudice di merito la selezione degli elementi del suo convincimento (Cass. n. 26860 del 2014; n. 962 e n. 20952 del 2015);
– che al riguardo è emblematica la questione posta dal ricorrente con riferimento all’entità percentuale del ricarico applicato dall’ufficio e confermato dai giudici di merito, rispetto a quello, decisamente inferiore, praticato in concreto dal contribuente e che lo stesso ritiene ovviamente da preferirsi sulla base di una mera valutazione soggettiva di migliore coerenza e congruità;
– che, infine, il motivo in esame è anche infondato in quanto la motivazione della sentenza impugnata non presenta i profili di contraddittorietà prospettati dal ricorrente, posto che i verificatori, prima, e la CTR, poi, hanno correttamente rilevato le carenze strutturali del campeggio in questione e ne hanno fatto discendere quella consistente riduzione della capacità ricettiva (da 300 a 50 persone al giorno), che il ricorrente (v. pag. 8 del ricorso) erroneamente attribuisce a «benevola concessione» e a ricettività in tende, che invece dalla sentenza impugnata risulta chiaramente attribuita a presenza di tende, caravans e auto (v. pag. 4 della sentenza in esame);
– che il secondo motivo è inammissibile per avere il ricorrente dedotto contemporaneamente il vizio di violazione di legge e quello motivazionale e con argomentazioni tra loro inestricabili, non essendo possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio (cfr. Cass. n. 9793 del 2013; v. anche Sez. U., n. 9100 del 2016 e, in motivazione, Cass. n. 17526 del 2016), in spregio al requisito di specificità di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., attesa l’ontologica distinzione non solo tra le censure prospettate, ma anche tra i diversi e configgenti profili della insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti discussi e decisivi, ripetutamente ribadita dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. n. 17526 del 2016 cit.), che di recente, a Sezioni Unite, al cospetto di un motivo che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., ha avuto modo di ribadire la propria giurisprudenza che stigmatizza tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando «la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da […] irredimibile eterogeneità» (Cass. Sez. U. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. Sez. U. n. 17931 del 2013);
– che in ogni caso il motivo è anche palesemente infondato laddove il ricorrente imputa ai giudici di appello di avere ritenuto l’anno di imposta 2003, precedente a quello di cessazione dell’attività, come periodo di normale svolgimento dell’attività, risultando invece, da quanto detto sopra in ordine alla consistente riduzione del numero di presenze giornaliere, come tale circostanza sia stata adeguatamente considerata;
– che, in estrema sintesi, i motivi di ricorso vanno dichiarati inammissibili ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo;
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i motivi di ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
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