CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2018, n. 4160
Tributi – Accertamento catastale – Avviso di accertamento – Attribuzione di rendita – Omessa notifica dell’avviso all’usufruttuaria – Mancata integrazione del contraddittorio – Rideterminazione della rendita in autotutela con emissione di nuovo avviso – Nullità – Esclusione
Fatti di causa
I fatti rilevanti
S.C. impugnava dinanzi alla CTR di Salerno l’avviso di accertamento col quale gli era stata comunicata l’attribuzione della rendita catastale definitiva all’immobile sito in Conca dei Marini del quale egli era nudo proprietario. Nelle more del giudizio, su sollecitazione del medesimo C., l’Ufficio in sede di autotutela provvedeva a rideterminare la rendita dell’immobile (riducendola da € 65.500,00 a € 43.955,00) ed il relativo provvedimento di rideterminazione della rendita catastale veniva notificato, oltre che al C., anche a G.A., madre del predetto ed usufruttuaria dell’immobile in questione.
Entrambi, con separati ricorsi, impugnavano il provvedimento loro notificato dinanzi alla CTP di Salerno e successivamente, rimasti soccombenti, ricorrevano in appello dinanzi alla CTR della Campania – sezione distaccata di Salerno, che respingeva entrambe le proposte impugnazioni.
Avverso le sentenze d’appello S.C. e G.A. ricorrono separatamente in questa sede. L’Agenzia delle Entrate resiste ad entrambi i ricorsi con controricorso.
Le ragioni della decisione
Va innanzitutto disposta la riunione dei ricorsi per connessione oggettiva in quanto, pur proposti avverso sentenze diverse, hanno ad oggetto l’accertamento della rendita del medesimo immobile.
Vanno esaminati congiuntamente il primo motivo del ricorso proposto dal C.ed il primo motivo del ricorso proposto dalla Anastasio, coi quali si denuncia nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 14 d.lgs. n. 546 del 1992 nonché (nel solo ricorso A.) per violazione degli artt. 7 I. n. 212 del 2000 e 3 I. n. 241 del 1990.
I ricorrenti si dolgono sostanzialmente del fatto che il primo avviso (n.0546039/2009) col quale l’Agenzia determinava in € 65.500,00 la rendita definitiva attribuita all’immobile fu notificato al solo C. e che neppure nel corso del procedimento instaurato a seguito dell’opposizione proposta dal suddetto fu integrato il contraddittorio nei confronti della A.. Quest’ultima inoltre si duole del fatto che, in relazione all’avviso successivo all’esercizio dell’autotutela, le fu notificata una nota priva di motivazione, resa in un segmento sub-procedimentale al quale ella era rimasta estranea, in difetto di notifica dell’atto presupposto (identificato nel suddetto avviso n. 546039/2009).
Le censure sono infondate.
L’avviso di accertamento iniziale (non notificato alla A.) è stato “travolto” dal secondo avviso emesso in sede di autotutela, con conseguente venir meno anche del processo instaurato per impugnarlo; pertanto non è tecnicamente possibile (e peraltro nessuna delle parti vi avrebbe interesse) dichiarare la nullità – per difetto di contraddittorio – di un processo relativo alla impugnazione di un atto che è stato ritirato in via di autotutela, determinando così la cessazione della materia del contendere e l’estinzione del processo relativo alla sua impugnazione.
Né è possibile ritenere che quell’originario difetto di notifica si riverberi sul diverso processo instaurato con l’impugnazione di un differente e successivo avviso di accertamento ritualmente notificato alla A. e da questa impugnato.
In proposito è sufficiente evidenziare quanto esplicitamente ed implicitamente ritenuto sia da questa Corte, anche a sezioni unite, sia dalla Corte costituzionale (v. da ultimo C.Cost. n. 181 del 2017 e la giurisprudenza di legittimità ivi richiamata), e cioè che l’autotutela tributaria costituisce un potere esercitabile d’ufficio da parte delle Agenzie fiscali, sulla base di valutazioni largamente discrezionali, e non uno strumento di protezione del contribuente.
Il privato può, naturalmente, sollecitarne l’esercizio, segnalando l’illegittimità degli atti impositivi, ma la segnalazione non trasforma il procedimento officioso e discrezionale in un procedimento ad istanza di parte da concludere con un provvedimento espresso con la conseguenza che il silenzio dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela non è contestabile davanti ad alcun giudice. Dai principi sopra riportati discende, a fortiori, l’assoluta “indipendenza” tra le iniziative di parte e quelle dell’Agenzia in sede di autotutela, con la conseguenza che l’eventuale impugnazione del provvedimento assunto in autotutela dà vita ad un procedimento autonomo, non ad una “fase” del procedimento eventualmente in precedenza instaurato per impugnare il provvedimento poi caducato a seguito dell’esercizio dell’autotutela e con l’ulteriore conseguenza che quest’ultimo provvedimento non costituisce “atto presupposto” dell’atto eventualmente assunto in autotutela. E’ peraltro da aggiungere che neppure sotto altro profilo si configura il difetto di motivazione dell’atto di rideterminazione della rendita denunciato dalla Anastasio, posto che nell’atto, siccome parzialmente riportato nel ricorso dalla predetta, sono chiaramente sia pure sinteticamente individuate le ragioni della rideterminazione della rendita.
Nonostante il riferimento fatto alla “istanza prodotta” (dal C.) ed a “tutte le circostanze (ivi) indicate”, nell’atto in autotutela sono chiaramente indicati gli elementi sulla base dei quali si è pervenuti, alla rideterminazione della rendita dell’unità immobiliare. L’Ufficio, nel determinare la nuova rendita, ha proceduto ad una nuova ed autonoma stima del bene, fondata su dati oggettivi, rapportando “al valore unitario di mercato” la superficie “ragguagliata” degli immobili, in considerazione delle caratteristiche specifiche degli stessi.
Nel procedere alla stima l’Agenzia esprime un giudizio sul valore economico dei beni classati di natura eminentemente tecnica, in relazione alla quale la presenza e la adeguatezza o non della motivazione rilevano, non già ai fini della legittimità, ma della attendibilità concreta del giudizio accennato e, in sede contenziosa, della verifica della bontà delle ragioni oggetto della pretesa indicata in motivazione. (Cass. n. 2268/2014; n. 5404 del 2012; Cass. n. 14379 del 2011; Cass. sez. trib. n. 16824 del 2006). Infine per completezza deve rilevarsi che neppure sussiste un difetto di contraddittorio rispetto ai procedimenti separatamente instaurati dal C. e dalla A. per impugnare il provvedimento di determinazione della rendita successivamente assunto in autotutela dall’Agenzia e notificato ad entrambe le parti, procedimenti nei quali non si è proceduto nei giudizi di merito alla integrazione del contraddittorio.
In proposito è sufficiente richiamare, per identità di ratio, la copiosa giurisprudenza di questo giudice di legittimità -formatasi soprattutto in riferimento all’ipotesi di litisconsorzio tra società di persone e relativi soci con riguardo alla rettifica del reddito della società ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio- che ha escluso la dichiarazione di nullità del processo per violazione del principio del contraddittorio in ipotesi di giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari, essendo possibile disporre la riunione in cassazione quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da identità oggettiva dei ricorsi quanto a “causa petendi”, proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica e, perciò, difese sostanzialmente identiche; sostanziale simultaneità della trattazione dei giudizi dinanzi ad entrambi i giudici del merito, identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. In tali casi infatti, secondo la richiamata giurisprudenza alla quale il collegio ritiene di dare continuità, la ricomposizione dell’unicità della causa anche solo in cassazione attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, comma 2, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l’osservanza di formalità superflue, perché non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio (v. per tutte, tra numerose altre, Cass. n. 29843/2017). Nella specie ricorre la situazione considerata dalla richiamata giurisprudenza sposto la A. e il C. sono madre e figlio, che c’è stata una sostanziale simultaneità della trattazione dei ricorsi dinanzi ad entrambi i giudici di merito nonché sostanziale identità di decisione in entrambi i gradi (in appello le cause sono state addirittura trattate una dopo l’altra, affidate al medesimo relatore -mentre le parti erano difese dal medesimo legale- nonché decise nella stessa giornata con sentenze depositate nella medesima data).
Col secondo motivo di ricorso la A. deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 342 e 345 c.p.c. per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In particolare, la ricorrente sostiene che il giudice di appello, facendo proprie le difese dell’Agenzia, si è pronunciato su questioni non solo non appellate ma addirittura estranee alla ricorrente.
La censura è inammissibile.
La semplice affermazione di pronuncia su questioni non dedotte, così come prospettata, risulta in realtà generica in quanto la ricorrente non esplicita con sufficiente chiarezza se le affermazioni del giudice d’appello asseritamente estranee al devolutum abbiano effettivamente inciso sulla decisione o abbiano addirittura comportato, in ipotesi, una omessa pronuncia sulle questioni devolute, oppure se non abbiano inciso sulla decisione assunta restando a livello di semplici obiter dicta. La censura difetta pertanto di specificità ed autosufficienza, anche con particolare riguardo all’interesse che dovrebbe sostenerla. Infine, col terzo motivo di ricorso della Anastasio e col secondo motivo di ricorso del C., si denuncia, sotto diversi profili, il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
In particolare, i ricorrenti si dolgono del fatto che i giudici d’appello: si siano limitati a richiamare l’atto emesso in sede di autotutela dall’Ufficio senza indicare l’iter logico e gli elementi di fatto e di diritto che portavano a ritenere congrua l’effettuata rideterminazione; abbiano fatto propri i calcoli posti dall’Agenzia a sostegno della propria difesa senza fornire i necessari chiarimenti, non potendo ritenersi legittima la mera adesione acritica alla tesi prospettata da una della parti; abbiano in motivazione fatto rinvio a sentenza del giudice tributario – peraltro non conferente – pronunciata in altro processo, senza riportare i contenuti mutuati ed in particolare riportando solo il numero e l’anno della decisione ma non la sezione, senza considerare che, trattandosi di sentenza tributaria di merito, la numerazione delle sentenze viene operata per ogni sezione, e non per commissione.
Le censure presentano diversi profili di inammissibilità per genericità, mancanza di decisività e difetto di autosufficienza.
Innanzitutto deve rilevarsi che, secondo reiterata giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. tra le altre Cass. n. 29883 del 2017; n. 21152 del 2014 e n. 16655 del 2011), anche con riguardo a ricorsi ai quali, come nella specie, è ancora applicabile la disciplina del vizio di motivazione anteriore alla l. n. 134 del 2012, occorre considerare che, per effetto della modifica dell’art. 360 c.p.c., introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, il vizio di omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., deve essere dedotto mediante esposizione chiara, precisa e sintetica dello specifico e circostanziato fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo del o dei fatti specificamente dedotti, che non devono attenere a generiche questioni o punti, dovendo il “fatto” configurarsi in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c. (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale).
E’ inoltre da precisare che, secondo reiterata giurisprudenza di questo giudice di legittimità (v. per tutte cass. n. 12052 del 2007) il ricorso per cassazione col quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 n. 5 c.p.c., deve contenere la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Risulta pertanto inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n.5 c.p.c. si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito, al quale, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo.
Quanto al richiamo della sentenza n. 50/01/2008 -sentenza tributaria di merito in cui mancherebbe l’indicazione della sezione emittente- è sufficiente anche in questo caso evidenziare la genericità del rilievo, meglio, la mancata evidenziazione della decisività della questione nell’ambito del vizio dedotto. Solo per completezza è appena il caso di rilevare che: l’art. 118 disp. att. c.p.c., dopo le modifiche introdotte dalla I. n. 69 del 2009, prevede al primo comma che la motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione anche con riferimento a precedenti conformi. E sempre soltanto per completezza si precisa che quando per indicare una sentenza tributaria di merito si riportano tre numeri (nella specie, come sopra, 50/01/2008), il primo si riferisce al numero della sentenza, il secondo alla sezione che l’ha emessa ed il terzo all’anno.
E’ infine da precisare che recentemente le sezioni unite di questa Corte, con sentenza n. 642 del 2015, alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene, hanno affermato che nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, dovendo peraltro rilevarsi che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato. Deve essere pertanto disposto il rigetto dei due ricorsi riuniti.
L’evolversi della vicenda processuale giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Riunisce al presente il ricorso n.7007/13. Rigetta i ricorsi riuniti. Compensa le spese.
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