CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2018, n. 4228
Espletamento dei servizi di verifica esterna degli impianti elettrici di terra – Provvedimento Inail di sospensione dalle attività – Demansionamento – Situazione di totale inattività, protrattasi lungamente – Ricorso inammissibile – Vizio di motivazione – Necessità di indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso
Rilevato che
1. L’ing. R.G.R., tecnologo di III livello in servizio presso il Dipartimento di Potenza dell’INAIL, con ordine di servizio n. 2477 del 4 ottobre 2005, a seguito di alcune segnalazioni degli utenti, veniva sospeso dall’espletamento dei servizi di verifica esterna degli impianti elettrici di terra, cui era precedentemente adibito.
Faceva seguito un’ispezione amministrativa che si concludeva con relazione del 23.3.2006, la quale evidenziava l’opportunità che il R. venisse adibito ad altre mansioni. In data 23.2.2007 l’ing. R. veniva assegnato all’attività di studio e di ricerca nel settore degli impianti elettrici. Il provvedimento di sospensione dalle attività di verifica esterna veniva impugnato dal dipendente, in quanto asseritamente implicante un demansionamento.
1.1. La Corte territoriale, premesso che nei confronti dell’appellante non era stato avviato alcun procedimento disciplinare, ha osservato:
– che le contestazioni tecniche mosse all’operato del ricorrente “sicuramente imponevano al superiore gerarchico del R. la necessità di sospendere in via cautelativa l’attività di verifica degli impianti elettrici in attesa della definizione della vicenda in tutte le sue estrinsecazioni, attraverso la verifica ispettiva richiesta dallo stesso Direttore generale e successivamente posta in essere”;
– che la successiva adibizione dell’ing. R. a compiti di ricerca era compatibile con i fini istituzionali dell’ente e con la qualifica di tecnologo di terzo livello;
– che, dunque, nessuna condotta illecita del datore di lavoro era configurabile nella previa sospensione dall’attività di verifica esterna e nella successiva assegnazione a compiti di ricerca e di studio.
2. Avverso tale sentenza l’ing. R. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito l’INAIL con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 52 D. Lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 2103 cod. civ. e degli artt. 35 e 37 CCNL di comparto, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale omesso di motivare in ordine al “mantenimento (del ricorrente) per ben diciotto mesi in uno stato di totale inattività indotto dal resistente, tale da configurare anch’esso, palese ed innegabile violazione della normativa in materia di mansioni…”.
2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 214 e 215 cod. proc. civ. e dell’art. 2719 cod. civ., in relazione all’art. 360 n 3 cod. proc. civ., e per vizio di motivazione. Si deduce che la Corte territoriale aveva trascurato di motivare in ordine alle difese di parte ricorrente, che sin dalla prima udienza aveva disconosciuto ad ogni effetto di legge ex art. 2719 cod. civ. tutta la documentazione avversaria allegata in copia al fascicolo di parte e mai prodotta in originale.
3. Il terzo motivo denuncia vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per avere la sentenza trascurato di considerare le eccezioni svolte dal ricorrente in merito: a) al carattere definitivo e non meramente provvisorio del provvedimento di sospensione dalle mansioni di verifica degli impianti elettrici; b) all’espletamento dell’ispezione in assenza della sua partecipazione, con difetto di contraddittorio sulle presunte manchevolezze a lui addebitate; c) all’assenza di prova di qualsiasi errore tecnico commesso dal ricorrente e alla illegittimità del provvedimento adottato sulla base di mere lamentele provenienti dai soggetti controllati.
4. Il ricorso è inammissibile.
5. Con il primo motivo il ricorrente assume che la Corte di appello avrebbe omesso di considerare un fatto decisivo per il giudizio, consistente nella situazione di totale inattività, protrattasi lungamente, alla quale era stato costretto in conseguenza della privazione delle funzioni di verifica esterna. Tuttavia, dal ricorso per cassazione non è dato comprendere se e in quali termini la questione ora prospettata, concernente il totale svuotamento delle mansioni, sarebbe stata introdotta in giudizio, atteso che la sentenza di appello ha trattato espressamente (in tal senso interpretando il tenore dell’appello) la sola questione della sospensione dalle funzioni di verifica esterna, rivendicate dal ricorrente in quanto ritenute specificamente qualificanti della sua professionalità.
5.1. In tema di ricorso per cassazione, ove venga dedotto vizio di motivazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente è tenuto ad indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (cfr. tra le più recenti, Cass. 19987 del 2017; Cass. S.U. n. 8053 del 2014).
5.2. Né la dequalificazione professionale è da ritenere insita nel fatto in sé della privazione delle mansioni cui il dipendente pubblico è stato a lungo adibito, ove le mansioni assegnate in sostituzione siano comunque riconducibili nella declaratoria contrattuale di riferimento. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740 del 2008, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, non si applica l’art. 2103 cod. civ., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396 del 2011; Cass. n. 18283 del 2010; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016). Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l’equivalenti, sono esigibili; resta comunque salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, vietato anche nell’ambito del pubblico impiego (cfr. Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014). 6. Le censure per vizi di motivazione di cui al terzo motivo non vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logicoformale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).
6.1. Anche nella vigenza del nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5, cod. proc. civ., come sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. Cass. S.U. sent. 8053/14).
6.2. La sentenza ha dato conto, puntualmente, delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori.
La censura di omesso esame di un fatto decisivo si risolve, invece, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito della causa.
7. La questione processuale di cui al secondo motivo, di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, è da considerare nuova e come tale inammissibile. Secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, invero, qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. n. 6542 del 2004, Cass. n.3664 del 2006 e Cass. n. 20518 del 2008).
8. Per tali assorbenti profili, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
9. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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