CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 gennaio 2018, n. 2021
Affitto di ramo di azienda – Diritto alla conservazione del posto di lavoro – Ripristino del rapporto di lavoro – Risarcimento del danno – Retribuzioni globali di fatto maturate, detratto l’aliunde perceptum – Violazione del principio di autosufficienza del ricorso
Rilevato
che, con la sentenza n. 497/2012 depositata il 23.10.2012, la Corte di Appello di Brescia, in riforma della pronuncia del Tribunale di Bergamo n. 216/2012, ha condannato la V. srl a ripristinare il rapporto di lavoro con D.P. nonché a risarcire il danno pari alle retribuzioni globali di fatto maturate fino al ripristino del rapporto stesso, detratto l’aliunde perceptum, oltre al versamento dei contributi previdenziali;
che a fondamento della decisione i giudici di secondo grado hanno rilevato che, dal testuale contenuto del contratto, era ricavabile che tra la E.W. srl e la V. srl si era verificato un affitto di ramo di azienda, con conseguente diritto alla conservazione del posto di lavoro del dipendente, già occupato presso la società dante causa, a nulla rilevando che dalla citata azienda E. ne fosse sorta un’altra (E.R.) che avrebbe operato nello stesso campo, atteso che la prova testimoniale aveva confermato che la produzione era rimasta uguale, in conformità alle previsioni contrattuali;
che avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la V. srl affidato ad un solo motivo;
che D.P. ha resistito con controricorso illustrato con memoria;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 cc perché, nella fattispecie in esame, al di là del nomen iuris adoperato, non era transitata alcuna attività dalla E.W. srl (fallita nel 2010) e la V. srl, in quanto non vi erano attività sopravvissute in capo alla primo società; né si poteva interpretare l’operatività di cui alla citata norma come ipotesi di una irragionevole ed immotivata responsabilità oggettiva del nuovo datore di lavoro;
che, come già rilevato da precedenti specifici di questa Corte in fattispecie analoghe (cfr. Cass. n. 8926/2015), il motivo presenta, da un lato, evidenti profili di inammissibilità, per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stato ivi riportato, se non in forma meramente riassuntiva e valutativa, il contenuto delle risultanze istruttorie, nonché, dall’altro, aspetti di infondatezza, perché la doglianza della ricorrente si sostanzia nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del gravame e nella richiesta di un riesame di merito delle emergenze istruttorie, non deferibile in sede di legittimità: invero, la sentenza impugnata ha esaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, coerente con le emergenze istruttorie acquisite ed immune da contraddizioni e vizi logici;
che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato;
che le spese, liquidate come da dispositivo e da distrarsi a favore dell’Avv. A.C., seguono la soccombenza.
che, in considerazione della data di notifica e di iscrizione a ruolo del ricorso per cassazione (anteriore al 31.1.2013), non si applica il disposto di cui all’art. 13 comma 1 quater DPR n. 115/2002 nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. A.C. dichiaratosi antistatario.
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