CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 dicembre 2017, n. 31070
Tributi – Imposta di registro – Cessione ramo d’azienda – Valore della cessione – Rettifica
Ritenuto
che la GRUPPO F. s.r.I., la quale aveva acquistato dalla GRUPPO I. s.r.I., il ramo di azienda afferente all’attività di pulizie in strutture pubbliche e private, al dichiarato valore di cessione di Euro 250.000,00, impugnava l’avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta di registro con cui l’Agenzia delle Entrate accertava un valore di cessione pari ad Euro 2.088.592,00 (Euro 1.864.399,00 per l’avviamento ed Euro 214.193,00 per il maggior valore del complesso aziendale avente sede in Pomezia), ed il ricorso della contribuente veniva accolto dal giudice di primo grado, decisione che, a seguito di gravame erariale, era parzialmente riformata dal giudice di appello;
che, secondo la Commissione tributaria regionale del Lazio, nel calcolare il valore venale del compendio aziendale ceduto, l’Ufficio aveva fatto esclusivo riferimento al ramo d’azienda oggetto della compravendita, stipulata il 28/12/2005, e non già all’intera azienda, escludendo correttamente beni e rapporti contrattuali rimasti in capo alla società cedente, riportati nell’apposito elenco richiamato nell’atto presentato per la registrazione, e non doveva necessariamente attenersi alle risultanze delle scritture contabili, segnatamente, ai dati di bilancio, se non per le eventuali passività di cui tenere conto, ai sensi dell’art. 51, comma 4, D.P.R. n. 131 del 1986, stante esistenza di ricavi e di redditi non esigui”, per cui il valore accertato ai fini dell’imposta di registro andava congruamente ridotto, “considerato che in capo alla cedente è rimasta una parte del complesso ceduto”, ad Euro 1.540.000,00, importo ‘comprensivo anche della minore passività di Euro 214.193,00 riscontrata e non compresa nel fondo trattamento di fine rapporto”, come già proposto dall’Ufficio medesimo in sede di accertamento con adesione;
che la contribuente ricorre per cassazione della sentenza sulla base di due motivi, cui l’Agenzia delle Entrate resiste mediante controricorso;
che P.G. conclude per l’accoglimento del ricorso;
Considerato
Che con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c, primo comma, n. 3 e n. 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 53, D.Lgs. n. 546 del 1992, omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non aver il Giudice d’appello rilevato l’inammissibilità del gravame, nel quale l’Agenzia delle Entrate si era limitata a riprodurre, in maniera pressoché integrale, quanto riportato nell’atto impositivo e, con il secondo motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 51, D.P.R. n. 131 del 1986, 2 comma 4, D.P.R. n. 460 del 1996, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per l’assoluta genericità dei calcoli presi a riferimento per la determinazione in via giudiziale del valore del ramo d’azienda, e per non aver il Giudice d’appello considerato che l’Ufficio aveva utilizzato per il calcolo dell’avviamento un criterio, quello di cui all’art. 2, comma 4, D.P.R. n. 460 del 1996, non più operante, in quanto non riprodotto nel D.Lgs. n. 218 del 1997, ed aveva operato una stima basata su criteri matematici, la media dei ricavi e la percentuale di redditività, che non tengono conto dei numerosi fattori che influiscono sull’attività economica;
che la prima censura va disattesa per le ragioni di seguito precisate; che il motivo d’impugnazione, per come formulato, presenta profili di inammissibilità (art. 366 n. 6 c.p.c.), in quanto la contestata mancanza di specificità dei motivi di appello risulta affidata a deduzioni generiche, astratte ed apodittiche, formulate mediante un mero rinvio all’atto di gravame dell’Ufficio, che in tesi recherebbe “la riproduzione, pressoché integrale, delle tesi formalizzate nell’atto impositivo”, senza la trascrizione del contenuto del ricorso in appello, nella misura in cui è necessaria a evidenziare la dedotta mancanza di specificità (Cass. n. 12664/2010);
che si tratta di doglianza, comunque, infondata perché dal semplice esame degli atti processuali emerge come l’appello non si limiti ad un pedissequo rinvio alle motivazioni del provvedimento impositivo impugnato, in quanto alle argomentazioni svolte nella sentenza gravata vengono contrapposte quelle della appellante, per incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, sia pure riproponendo la tesi dell’Ufficio circa la correttezza del metodo seguito nell’accertamento del valore venale del ramo d’azienda ceduto, avuto riguardo in particolare all’avviamento, in forza del disposto degli artt. 51 e 52, D.P.R. n. 131 del 1986;
che la seconda censura è infondata e non merita accoglimento;
che la contribuente si duole del metodo di calcolo del valore dell’avviamento commerciale del ramo aziendale de quo, in quanto quello utilizzato dall’Ufficio, in larga parte ripreso dal Giudice di appello, si incentra sull’art. 2, D.P.R. n. 460 del 1996, disposizione non più vigente perché non riprodotta nel D.Lgs. n. 218 del 1997, che detta la disciplina del procedimento di accertamento con adesione, ancorché ancora richiamata nel documento di prassi costituito dalla comunicazione di servizio n. 52 del 25 luglio 2003, la quale prevede che il valore di avviamento delle aziende venga determinato, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, “sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata sulla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per tre”, fatti salvi alcuni correttivi che qui non rilevano;
che, ad avviso della società ricorrente, il risultato così ottenuto è del tutto incoerente, e neppure puntualmente riscontrabile, in quanto, da una parte, si richiamano redditi e ricavi relativi agli esercizi nel triennio precedente la cessione non facilmente determinabili, dall’altra, non si tiene conto di tutti i fattori, quali quelli gestionali ed amministrativi, che incidono sul risultato economico dell’azienda, e che difficilmente possono essere valutati con rigidi automatismi;
che le suesposte argomentazioni non tengono conto del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui “Ai fini del calcolo del valore dell’avviamento commerciale quale parte del corrispettivo di cessione d’azienda, per la determinazione della base imponibile dell’imposta di registro secondo il disposto degli artt. 51 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, e 2, comma 4, del D.P.R. 31 luglio 1996, n.460, quest’ultima avente la funzione di fungere da parametro minimo per il relativo calcolo, dovrà applicarsi la percentuale di redditività, nella misura ritenuta congrua dal giudice del merito, parametrata alla media dei ricavi (e non degli utili operativi) accertati, o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, applicando di seguito il moltiplicatore previsto dall’art. 2, comma 4, citato.” (Cass. n. 7324/2014; n. 9115/2012);
che, del resto, i criteri di cui all’art. 2, D.P.R. 460 del 1996, determinano valori minimali d’avviamento, in funzione dell’accertamento con adesione, sicché la loro applicazione integra un indizio a favore dell’Amministrazione (Cass. n. 9089/2017, 27 luglio 2007, che richiama Cass. n. 16705/2007), tanto che questa può impiegare un criterio diverso solo dando conto della maggiore affidabilità specifica (Cass. n. 4931/2012), e l’art. 51, comma 4, D.P.R. n.131 del 1986, secondo il quale il valore dichiarato “è controllato dall’ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda”, “al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie”, non pone deroghe al criterio, dettato in generale al secondo comma dello stesso articolo, dell’accertamento del valore secondo il parametro del “valore venale in comune commercio”, nel senso che non sussiste al riguardo il vincolo delle scritture contabili, se non con riferimento alle eventuali passività di cui l’Ufficio deve tenere conto (Cass. n. 10341/2007);
che, pertanto, non ha alcun fondamento l’affermazione difensiva concernente la irrilevanza, ai fini qui considerati, dei dati extracontabili, soprattutto ove si consideri che il Giudice di appello, con motivazione sotto tale profilo incensurabile, individua tra i fatti concreti, aventi valenza indiziaria, e nella specie utilizzati dall’Ufficio, “i dati dichiarati relativi all’azienda ceduta”, e sottolinea che si è tenuto conto “del valore venale in comune commercio dell’attività oggetto dell’acquisto consistente nella attività di pulizie civili in strutturare pubbliche”, e che si è altresì valorizzata, ai fini della quantificazione del valore dell’avviamento, da intendersi appunto come capacità di profitto di un’attività produttiva, l’esistenza “di ricavi e di redditi non esigui”, circostanza non specificamente confutata dalla contribuente;
che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione e valutazione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, per il suo tramite non è possibile dedurre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attenendo al libero convincimento del giudice e non agli eventuali vizi dell’ iter formativo di esso, rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poiché diversamente opinando, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. n. 3881/2006, n. 1754/2007);
che la doglianza della contribuente, sotto il profilo di un asserito vizio di motivazione, mira in realtà sottoporre a censura le conclusioni cui il Giudice di appello è pervenuto sulla base dell’apprezzamento dei fatti e della valutazione delle risultanze ad esso riservate quale giudice del merito e, pertanto, va disattesa;
che al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre rimborso spese prenotate a debito.
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