CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 agosto 2017, n. 20495
Cartella esattoriale – Contributi previdenziali – Associati in partecipazione – Riconducibilità a rapporti di lavoro subordinato – Rinucia al ricorso per Cassazione – Dichiarazione sottoscritta dalle parte o dal difensore – Declaratoria di cessazione della materia del contendere – Dichiarazione concernente l’avvenuto fallimento della ricorrente – Non rileva
Rilevato in fatto
Che, con sentenza depositata il 18.2.2011, la Corte d’appello di Genova ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da O. s.r.l. avverso la cartella esattoriale con cui le era stato ingiunto di pagare all’INPS somme per contributi omessi in danno di due suoi associati in partecipazione, ritenuti in realtà lavoratori subordinati;
che avverso tale statuizione ha proposto ricorso O., s.r.l., deducendo due motivi di censura;
che l’INPS ha resistito con controricorso;
che, con nota depositata il 29.3.2017, il difensore di parte ricorrente ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere per essere stata nelle more la ricorrente dichiarata fallita e non avere ulteriore interesse alla prosecuzione del giudizio;
Considerato in diritto
che solo una dichiarazione di rinuncia al ricorso per cassazione, ancorché non sottoscritta dalla parte di persona ma dal solo difensore, pur senza mandato speciale a rinunziare, può rivelare il sopravvenuto difetto di interesse del ricorrente a proseguire il giudizio, in specie quando la controparte non si sia neppure costituita, ed è dunque idonea a determinare la declaratoria di cessazione della materia del contendere; Cass. nn. 23161 del 2013, 693 del 2014);
che, nella specie, la nota dep. il 29.3.2017 non contiene detta rinuncia, sibbene soltanto la dichiarazione concernente l’avvenuto fallimento della ricorrente;
che il fallimento di una delle parti non determina l’interruzione del giudizio di cassazione, il quale, instauratosi con la notificazione e il deposito del ricorso, è governato dall’impulso di ufficio e resta insensibile agli eventi di cui agli artt. 299 e 301 c.p.c., senza che tale regola si ponga in contrasto con l’art. 24 Cost., perché la piena tutela del diritto di difesa della parte su cui si riflette l’evento, che per altri giudizi sarebbe interruttivo, è assicurata dalla sopravvivenza della procura speciale rilasciata al difensore (Cass. n. 5012 del 1992 e numerose successive conformi);
che appare pertanto necessario esaminare il merito dell’impugnazione proposta dalla società ricorrente;
che, con il primo motivo, essa ha lamentato violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 2549, 2552 e 2554 c.c., nonché vizio di motivazione, per avere la Corte di merito ritenuto che la valutazione complessiva degli elementi che avevano caratterizzato il rapporto di collaborazione intercorso con i due associati in partecipazione ne consentisse piuttosto la riconducibilità nell’alveo dell’art. 2094 c.c.; che, con il secondo motivo, la società ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2125 c.c. nonché vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto che la transazione medio tempore intercorsa tra l’azienda e uno dei due associati in partecipazione non potesse pregiudicare l’obbligo di versare all’INPS i contributi dovuti sulle somme dovute a titolo di retribuzione, piuttosto che sulle minori somme pattuite a titolo di risarcimento del danno; che, con riguardo alle censure di violazione di legge di cui al primo e al secondo motivo, questa Corte ha più volte chiarito che il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione della norma recata da una disposizione di legge da parte del provvedimento impugnato, riconducibile o ad un’erronea interpretazione della medesima ovvero nell’erronea sussunzione del fatto così come accertato entro di essa, e non va confuso con l’allegazione di un’erronea ricognizione della Fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura in sede di legittimità era ratione temporis possibile sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. fra le più recenti Cass. nn. 15499 del 2004, 18782 del 2005, 5076 e 22348 del 2007, 7394 del 2010, 8315 del 2013);
che, nella specie, le censure proposte da parte ricorrente incorrono precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulate con riferimento a una presunta violazione o falsa applicazione della disposizione indicate nella rubrica di ciascun motivo, hanno in realtà di mira il giudizio (di fatto) compiuto dalla Corte di merito circa la sussistenza dei presupposti per la loro applicazione; che, con riguardo alle censure di vizio di motivazione di cui al primo motivo, è orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui in tanto si può censurare una sentenza di merito di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. (nel testo risultante dalla modifica apportata dall’art. 2, d.lgs. n. 40/2006, e anteriore alla novella di cui all’art. 54, d.l. n. 83/2012, conv. con I. n. 134/2012) in quanto il fatto su cui la motivazione è stata omessa o è stata resa in modo insufficiente o contraddittorio sia autonomamente decisivo, ossia potenzialmente tale da portare la controversia ad una soluzione diversa, l’indagine di questa Corte dovendo spingersi fino a stabilire se in concreto sussista codesta sua efficacia potenziale (cfr. da ult. Cass. n. 7916 del 2017); che nella specie parte ricorrente non ha addotto alcun fatto la cui considerazione da parte del giudice avrebbe di per sé condotto ad un diverso e a sé favorevole giudizio, limitandosi a evidenziare talune circostanze (e precisamente il fatto che gli associati si alternavano nella gestione del punto vendita secondo orari e giorni da loro stessi stabiliti, tenevano autonomamente i rapporti con i fornitori e decidevano liberamente degli acquisti) che non potrebbero non essere valutate comparativamente con le altre che la Corte territoriale ha valorizzato ai fini del decidere (ciò che peraltro la Corte medesima ha puntualmente fatto, ancorché pervenendo a conclusioni non condivise da parte ricorrente);
che, anche prima della modifica apportata all’art. 360 n. 5 c.p.c. dall’art. 54, d.l. n. 83/2012, cit., la censura di vizio di motivazione non può essere volta a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, né per suo tramite si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento (cfr. da ult. ancora Cass. n. 7916 del 2017, cit.);
che, con riguardo alle censure di vizio di motivazione di cui al secondo motivo, la costante giurisprudenza di questa Corte ha insegnato che la parte ricorrente, che in sede di legittimità denunci il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento, ha l’onere di indicare specificamente, ex art. 366 nn. 4 e 6 c.p.c., il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito ovvero il contenuto, provvedendo alla trascrizione delle sue parti rilevanti, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare (così, fra le tante, Cass. n. 17915 del 2010);
che nella specie il contenuto del documento decisivo per valutare la fondatezza delle censure (vale a dire la transazione stipulata con uno dei due associati) non è stato trascritto nel corpo del ricorso per cassazione, né risulta indicato in quale luogo del fascicolo processuale e/o di parte si troverebbe;
che, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 2.600,00, di cui € 2.500,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
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