CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2017, n. 28709
Accertamento fiscale – Avvisi di rettifica IVA – Cessione di beni
Rilevato
– che la E. W. s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, variamente articolati, cui l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe indicata con la quale la Commissione tributaria regionale dell’Umbria, in controversia concernente l’impugnazione di due avvisi di rettifica IVA per gli anni d’imposta 1996 e 1997, emessi dall’amministrazione finanziaria sul presupposto che la predetta società contribuente aveva qualificato come cessioni all’esportazione ex art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972 e, quindi, come vendite con trasferimento di proprietà (di calzature e tomaie), quelle che invece dovevano considerarsi cessioni di beni in conto lavorazione a società estere (nella specie, R. e W. I.), con conseguente irregolare utilizzo delle fatture emesse a quel titolo ai fini della costituzione del plafond per l’effettuazione di acquisti in sospensione di imposta, accoglieva l’appello dell’Agenzia riformando la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della contribuente;
– che i giudici di appello rilevavano che a sostegno della pretesa fiscale esisteva prova documentale consistente in due contratti stipulati tra la società contribuente e le aziende estere per la lavorazione di calzature e tomaie, mentre la contribuente non aveva fornito alcuna prova contraria, limitandosi ad affermare di aver annullato verbalmente il contratto stipulato con la ditta R. sostituendolo con un contratto di vendita delle materie prime e riacquisto del prodotto lavorato;
– che la ricorrente ha depositato memoria richiamando la sentenza di questa Corte n. 861 del 2010 pronunciata in analogo giudizio, avente ad oggetto l’anno di imposta 1995;
Considerato
– che con il primo motivo la ricorrente deduce l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata sostenendo che i giudici d’appello, ricalcando nella motivazione il contenuto della sentenza resa in analogo contenzioso relativo all’anno di imposta 1995, la cui sentenza era stata cassata da questa Corte con la sentenza n. 861 del 2010, si sono limitati “a far propria la diversa interpretazione di un contratto, intervenuto con uno dei clienti della società, senza spiegare le ragioni di siffatta interpretazione e senza motivare il proprio convincimento in ordine alla diversa interpretazione dello stesso rapporto commerciale che risulta dalla relativa documentazione fiscale (documenti di trasporto, fatture, dichiarazioni doganali) non contestata dall’Amministrazione finanziaria”, senza nulla dire in ordine alle conseguenze (giuridiche e fiscali) che derivano dalla dedotta interpretazione”, con conseguente impossibilità di ricostruire le ragioni che hanno indotto i suddetti giudici ad escludere l’applicabilità nella specie della disciplina fiscale delle cessioni all’esportazione di cui al d.P.R. n. 633 del 1972, art. 8;
– che la censura è inammissibile per le medesime ragioni espresse da questa Corte nella sentenza richiamata dalla stessa parte ricorrente, la quale non individua (tantomeno in maniera autosufficiente, omettendo anche di trascrivere il contenuto della documentazione fiscale – documenti di trasporto, fatture, dichiarazioni doganali – che consentirebbe di pervenire ad una diversa interpretazione dei contratti stipulati con le società estere), “fatti decisivi in ipotesi trascurati dai giudici d’appello, ma lamenta la mancata esplicitazione delle conseguenze giuridiche del fatto preso in esame dai predetti giudici, e a tale proposito è sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è inammissibile la censura quando abbia ad oggetto un difetto di motivazione non riguardante un accertamento in fatto, bensì un’astratta questione di diritto, posto che il giudice di legittimità – investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione (manchevole o inesatta) della sentenza impugnata – è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza o erroneità di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. tra le altre Cass. n. 15764 del 2004 e n. 12753 del 1999), laddove, in caso di decisione non conforme a diritto, la sentenza andrebbe censurata per violazione di legge e non per vizio di motivazione” (così nella citata sentenza di questa Corte n. 961 del 2010);
– con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1470 cod. civ., 53 e 54 d.P.R. n. 633 del 1972 in relazione agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., nonché dell’art. 1418 cod. civ. oltre che l’omessa ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata;
– che la ricorrente, sotto un primo profilo, sostiene che i giudici d’appello hanno interpretato il contratto in atti solo sulla base del tenore letterale senza considerare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipula del contratto (come emergente dalla documentazione fiscale, contabile e amministrativa), che dimostra l’intenzione delle parti di porre in essere una vendita effettiva e che tale interpretazione del contratto risulta contraddetta dallo stesso modus operandi dei verificatori e dell’Ufficio;
– che, sotto un secondo profilo e con riferimento alla violazione dell’art. 1470 cod. civ., la ricorrente sostiene che la presunzione di cessione del materiale in conto lavorazione discende, nella specie, dall’esame di soli due contratti e “che gli elementi giuridici idonei e sufficienti a qualificare formalmente e sostanzialmente (sotto il profilo civilistico e, quindi, fiscale) le cessioni della materia prime esportata, da un lato, e l’acquisto di prodotti finiti importati, dall’altro, come “vendite” sono costituite dal consenso e dalla consegna del possesso della cosa e, quindi, dal potere giuridico e di fatto e non dalla semplice detenzione, nonché dalla volontà di trasferire il bene, e dal pagamento del corrispettivo dovuto ex art. 1498 cod. civ.; circostanze queste tutte emergenti dalla documentazione fiscale e doganale in atti come sopra richiamata giustificativa del reale rapporto intercorso tra le parti”;
– che, sotto un terzo profilo, la ricorrente sostiene che i giudici di appello avrebbero ignorato la regolare tenuta della contabilità e si sarebbero basati su di una preaesumptio de praesumpto, posto che dal contratto in atti, relativo ad un solo cliente, avevano dedotto la simulazione di tutti i rapporti commerciali intercorsi anche con altri clienti senza considerare, sotto un quarto ed ultimo profilo, che il contratto de quo doveva ritenersi nullo per illiceità dell’oggetto, posto che la E. W. era iscritta al settore commercio e non poteva pertanto svolgere attività di produzione di beni neppure avvalendosi di terzi;
– che il Collegio, condividendo la conclusione cui è pervenuta questa Corte nella citata sentenza n. 861 del 2010, ritiene che anche con riferimento agli anni di imposta 1996 e 1997 la censura di omessa e insufficiente motivazione proposta col motivo in esame è fondata, nei limiti e nei termini che seguono;
– che, invero, i giudici di appello con riferimento al contratto stipulato con al ditta R. affermano che “è specifico, dettagliato e razionale” e pertanto “il reale rapporto civile (e quindi fiscale)” tra le due società “è avvenuto in base al suddetto contratto, mentre la diversa considerazione della documentazione fiscale – segnatamente fatture e documenti doganali – non va ad incidere sul rapporto effettivo intervenuto tra l’appellata e la ditta R.”, ma non spiegano “perché la documentazione “fiscale” non Incida sul rapporto effettivo intercorso tra le parti, trattandosi comunque di prova documentale proveniente anche dalle parti contraenti ed espressione della loro volontà né perché, in presenza di una simile documentazione successiva al contratto, si sia affermato che non risultavano elementi probatori contrari alla prova documentale costituita dal contratto” (così in Cass. n. 861/2010);
– che anche laddove i giudici di appello affermano che, “per quanto riguarda il contratto con la R., l’appellante pretende di aver annullato questo ultimo verbalmente, ma non chiede prove o produce prove volte a far ritenere attendibile un siffatto accadimento dei fatti”, la motivazione della sentenza impugnata non si sottrae al vizio in esame, posto che l’accertamento di tale circostanza passava attraverso l’esame di quella documentazione fiscale, della cui rilevanza probatoria si è detto sopra;
– che, invero, l’accertamento di quali fossero stati i reali rapporti intercorsi tra le parti andava effettuato sulla base non solo dei contratti dai medesimi stipulati, ma anche della documentazione fiscale e di ogni altro elemento addotto o prospettato dalle parti, con onere del giudice di adeguatamente esporre nella sentenza l’esito della loro complessiva valutazione;
– che, in sintesi, il profilo di censura in esame è fondato e va accolto con conseguente assorbimento degli altri profili posti nel motivo;
– che con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 d.P.R. n. 633 del 1972, anche in relazione ai criteri legali di interpretazione ermeneutica contenuti nella circolare ministeriale n. 156/E del 15/07/1999 e della risoluzione dell’11/02/1998, nonché omessa ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che il pagamento del corrispettivo, anche mediante compensazione, “in uno con la consegna (a titolo di vendita) delle merci” alle società estere, nonché gli adempimenti doganali di assoggettamento delle merci stesse all’ordinario regime dell’esportazione, avrebbe dovuto indurre i giudici di appello a ritenere configurabile nel caso di specie una cessione all’esportazione;
– che, esclusa l’inammissibilità del motivo per contemporanea deduzione di più vizi tra quelli tassativamente indicati nell’art. 360 cod. proc. civ., posto che la ricorrente si limita a sviluppare nel ricorso soltanto il profilo relativo alla violazione di legge, limitandosi ad affermare, con riferimento al vizio motivazionale, che la CTR era “giunta ad una decisione […] immotivata” (così a pag. 19 del ricorso) senz’altro aggiungere, la censura è comunque infondata e va rigettata;
– che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, che trova il conforto di unanime dottrina, per potersi configurare una cessione all’esportazione non imponibile ai fini IVA ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. n. 633 del 1972, devono necessariamente concorrere due distinti ma indefettibili requisiti: a) il trasporto o la spedizione dei beni fuori del territorio dell’Unione europea, comprovati da apposita documentazione doganale (trattasi di requisito che interseca la normativa doganale); b) la cessione di beni, che ai sensi dell’art. 2 medesimo d.P.R., si realizza mediante atti a titolo oneroso che importano il trasferimento della proprietà ovvero la costituzione o il trasferimento di un altro diritto reale sui beni medesimi; quindi, la cessione all’esportazione implica “la necessaria ricorrenza di un vincolo finalistico tra trasferimento della proprietà e esportazione, ma non anche quella di un’obbligata successione temporale tra i due termini dell’operazione. Sul piano sistematico, poi, l’osservanza del richiamato principio della tassazione dei beni nel luogo di consumazione richiede solo il carattere definitivo dell’operazione, sicché ciò che risulta essenziale, e che la norma persegue al fine di evitare iniziative fraudolente, è la prova (il cui onere grava sul contribuente) che l’operazione, fin dalla sua origine e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero” (Cass. n. 23588 del 2012);
– che la norma di esenzione in esame trovano fonte diretta, a livello unionale, “nel combinato disposto dell’art. 15, comma 1 e art. 3, comma 1 della 6 Direttiva 77/388/CEE del 17.5.77 (applicabile al caso di specie ratione temporis), a norma del quali gli Stati membri esentano dall’IVA le cessioni di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto fuori del territorio della Comunità Europea (ora Unione Europea). E l’obiettivo dell’esenzione in parola risiede nella volontà comunitaria – di cui è applicazione il suindicato sistema italiano di detassazione dei beni in uscita – di non assoggettare ad IVA i consumatori degli Stati terzi, essendo detta imposta destinata a gravare esclusivamente sui consumatori della Comunità Europea (cfr. C. Giust. CE 2.8.93, Lange, C- 111/92)” (Cass. n. 5894 del 2013; conf. Cass. n. 5168 del 2016);
– che, secondo una giurisprudenza costante della Corte di giustizia la nozione di “cessione di beni” di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE (che con formula identica a quella dell’art. 5, par. 1, della Sesta direttiva n. 388/77/CEE del Consiglio in data 17/05/1977, applicabile ratione temporis, prevede che < costituisce “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario>>), “non si riferisce al trasferimento di proprietà nelle forme previste dal diritto nazionale vigente, bensì comprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l’altra parte a
disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario (v. sentenze dell’8 febbraio 1990, Shipping and Forwarding Enterprise Safe, C-320/88, Racc. pag. 1-285, punti 7 e 8; del 14 luglio 2005, British American Tobacco e Newman Shipping, C-435/03, Racc. pag. 1-7077, punto 35, nonché del 3 giugno 2010, De Fruytier, C-237/09, Racc. pag. 1-4985, punto 24)” (Corte di giustizia, sent. 18 luglio 2013 nella causa C-78/12, “Evita-K” EOOD, punto 33) e che “spetta quindi al giudice nazionale determinare, caso per caso, in relazione alla singola fattispecie, se venga trasferito il potere di disporre del bene in questione come proprietario (v. sentenza Shipping and Forwarding Enterprise Safe, cit., punto 13)” (Corte di giustizia, punto 34 sent. cit.);
– che deve, quindi, concludersi che la cessione all’esportazione di un bene non assorbe la previsione legale di non imponibilità ex art. 8 d.P.R. n. 633 del 1972 laddove non si realizzi, con essa, il trasferimento della titolarità giuridica del medesimo bene, dovendosi ritenere che è la sola “operazione di cessione del bene” ad un soggetto intra o extracomunitario che viene considerata dalle norme esonerativa ai fini IVA, perché mancando quel trasferimento si realizza soltanto un’operazione di esportazione ai fini doganali, rimanendo esclusa la configurabilità di una cessione all’esportazione ai sensi delle disposizioni sull’IVA (Cass. n. 2214 del 2014);
– che, alla stregua di tali considerazioni, va ribadito il principio che nella sfera di applicabilità dell’art. 8, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 non rientrano le esportazioni effettuate in conto lavorazione (neppure se effettuate attraverso la procedura dell’esportazione temporanea – c.d. perfezionamento passivo -, di cui agli artt. 147 e segg. del codice doganale comunitario, stante l’assoggettabilità ad IVA della “reimportazione a scarico di esportazione temporanea” come previsto dall’art. 67, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973), in quanto normalmente effettuate senza trasferimento alla società estera della titolarità, di fatto e giuridica, dei beni ceduti per la lavorazione, salvo che il contribuente, su cui grava il relativo onere probatorio (essendo inapplicabile all’esportazione la presunzione di cessione di cui all’art. 1 d.P.R. n. 441 del 1997, riferita ai soli “beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti), non dimostri il definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero dietro pagamento di corrispettivo;
– che, pertanto, la CTR non è incorsa nella dedotta violazione di legge, avendo correttamente applicato il principio appena sopra enunciato ritenendo, ancorché con la carente motivazione di cui si è detto esaminando il secondo motivo di ricorso, che le cessioni all’esportazione erano state effettuate dalla società ricorrente non in vendita ma in conto lavorazione;
– che con il quarto motivo, articolato in quattro submotivi, la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sostenendo che la CTR aveva omesso di pronunciarsi in ordine a quattro diverse eccezioni sollevate in appello; in particolare, sull’eccezione di nullità dell’appello per difetto di notifica ex art. 17 d.lgs. n. 546 del 1992, per essere stato l’atto di appello dell’Agenzia delle entrate notificato in un domicilio diverso da quello eletto – nella specie presso lo studio del dr. Franco Fiandra, codifensore, e non presso lo studio dell’avv. Guglielmo Castaldo (primo submotivo); sull’eccezione di carenza di motivazione dell’atto impositivo impugnato (secondo submotivo); sull’eccezione di insussistenza di imponibilità delle operazioni e, in buona sostanza, di danno erariale (terzo submotivo); sulla domanda di inapplicabilità delle sanzioni amministrative pecuniarie per la sussistenza del requisito soggettivo della colpevolezza della ricorrente, ex art. 5 d.lgs. n. 472 del 1997, della causa di non punibilità di cui all’art. 6 del medesimo decreto, nonché di circostanze che evidenzino la necessità di tutela dell’affidamento e della buona fede della società contribuente;
– che il motivo è infondato in relazione a tutti i suddetti submotivi; Invero, l’esame nel merito del ricorso in appello dell’Agenzia delle entrate costituisce implicito rigetto di dette eccezioni (cfr., in tema di infondatezza del vizio di omessa pronuncia in ipotesi di sussistenza di una statuizione implicita di rigetto, Cass. n. n. 16788 del 2006, n. 20311 del 2011, n. 3417 del 2015, n. 1360 del 2016);
– che, al riguardo, va osservato che il primo submotivo è anche palesemente infondato in quanto la costituzione della società appellata nel giudizio di appello ha valore sanante ex nunc dei vizi che ineriscano alla notificazione nulla (e non inesistente, come invece sostiene la ricorrente) in quanto effettuata in un domicilio diverso fa quello eletto dalla parte (ex multis, Cass. n. 15190 del 2005 e, con riferimento al processo tributario, v. anche Cass. n. 1446 del 2006);
– che il secondo submotivo è infondato anche perché la parte sostiene la mancata allegazione agli atti impositivi del p.v.c. della G.d.F. che, invece, dalla motivazione dei predetti atti trascritto dalla controricorrente risulta precedentemente consegnato alla contribuente;
– che in relazione al terzo submotivo deve osservarsi che la decisione di rigetto (implicito) è, in ogni caso, conforme all’orientamento giurisprudenziale in materia (cfr. Cass. n. 14435 del 2005, n. 22430 del 2014, secondo cui “in tema di IVA, l’inadempimento degli obblighi di versamento dell’imposta dovuta, in conseguenza dell’erronea registrazione di fatture per operazioni effettuate in esenzione di imposta relative all’anno precedente, eccedente i limiti del “plafond” di cui all’art. 8, primo comma, lett. c), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, non costituisce violazione meramente formale, in quanto non rispondente ai due concorrenti requisiti di non arrecare pregiudizio all’esercizio delle operazioni di controllo e, al contempo, di non incidere sulla determinazione della base imponibile dell’imposta e sul versamento del tributo);
– che, infine, con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie, lo ius superveniens costituito dal d.lgs. n. 158 del 2016 che, in materia tributaria, ha introdotto un trattamento sanzionatorio più favorevole, impone che il giudice del rinvio ne verifichi in concreto il rispetto;
– che, in estrema sintesi, va dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso ed infondati il terzo e quarto, va accolto, per quanto di ragione, il secondo motivo e, quindi, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per l’applicazione dello ius superveniens in materia di sanzioni amministrative pecuniarie e per le spese del presente giudizio di legittimità, alla CTR umbra, in diversa composizione;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso ed infondati il terzo e quarto, accoglie, per quanto di ragione, il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale dell’Umbria, in diversa composizione.
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