CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2017, n. 28690
Tributi – IVA ed imposte sui redditi – Spese di sponsorizzazione – Qualificazione come spese di pubblicità – Criteri discretivi – Obiettivi perseguiti – Diretta aspettativa di ritorno commerciale
Ritenuto in fatto
1. L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione impugnando la sentenza n. 79 pronunciata il 24 settembre 2013, depositata il 16 dicembre 2013, con la quale la Commissione Tributaria Regionale ha accolto l’appello del contribuente riformando la sentenza n. 126/01/2010 della Commissione Tributaria Provinciale di Forlì, compensando le spese di giudizio.
La CTR ha premesso come, secondo l’atto accertativo, le voci di costo indicate dal contribuente fossero da considerare, propriamente, quali spese di rappresentanza e non spese di pubblicità, non tanto per la loro natura, ma a causa dell’incapacità delle stesse di conquistare o mantenere la clientela finale, condizionandone le scelte ed i comportamenti commerciali, dato che il volume d’affari di R.A.S.F. spa risultava del tutto svincolato dalla capacità dell’ente di raggiungere i clienti utenti/consumatori finali e che la collettività di riferimento acquistava l’acqua potabile non direttamente dalla società concessionaria, bensì da altro soggetto giuridico (la F. Spa) affidatario e gestore del servizio di distribuzione dell’acqua stessa.
Al cospetto di ciò, il giudice d’appello ha affermato come la società appellante avesse dimostrato che: i clienti finali erano plurime società, solo successivamente confluite in H.; tali società erano partecipate dagli enti locali romagnoli che ne determinavano gli orientamenti e le scelte; le predette società si approvvigionavano anche presso altri fornitori di acqua; solo nel 2009 R.A. S.F. spa era divenuta monopolista e solo da quell’anno non erano più giustificabili spese di pubblicità; fino al 2009 il fatturato della società era stato notevolmente inferiore a quello successivo al 2009 e quindi dipendeva anche dalla concorrenza e dalla situazione di mercato; la notorietà dell’impresa presso il pubblico poteva quindi incidere sulla preferenza di prodotti o servizi di questa rispetto a quelli offerti da altri; era quindi utile e opportuno far conoscere al pubblico i prodotti e i servizi resi.
Sulla base di queste considerazioni e contrariamente a quanto asserito dall’Ufficio finanziario e condiviso dalla Commissione di primo grado, la CTR ha ritenuto accertata la correlazione di tali spese con i ricavi della società, essendo il volume d’affari di quest’ultima, almeno in parte, condizionato dalla capacità di influire sulle scelte di mercato dei consumatori finali/utenti del servizio offerto, con la conseguenza che le fatture contestate potevano essere qualificate quali spese di pubblicità, essendo oggettivamente idonee a determinare, in via diretta ed immediata, o comunque funzionale, l’incremento ed il mantenimento dei ricavi per essere costituite da costi sostenuti per pubblicizzare prodotti, marchi o comunque l’attività svolta dall’impresa.
Le spese per sponsorizzazioni non rientravano perciò nella diversa categoria delle spese di rappresentanza, queste ultime volte solo a valorizzare l’immagine complessiva della società, ma tendevano a incrementare le vendite, attraverso l’acquisizione di nuova clientela, cosicché il principio di inerenza, pur valutato in senso lato, risultava del tutto rispettato.
La Commissione regionale perveniva dunque alla conclusione di considerare le spese interamente deducibili, in quanto le sponsorizzazioni e le fatture per relazioni esterne dovevano ritenersi rivolte alla potenziale clientela finale (i cittadini stessi quali spettatori degli eventi sportivi locali, delle trasmissioni televisive locali o delle manifestazioni organizzate dagli Enti Locali) della società ricorrente, potendo dette spese influire direttamente o indirettamente sulle scelte delle società partecipate dagli Enti locali.
2. Il ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate è affidato a due motivi.
La R.A.S.F. S.p.A. resiste con controricorso.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso rubricato «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 108 e 109 del Tuir (d.p.r. 917/86), nonché dell’art. 19-bis del d.p.r. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.», l’Agenzia delle Entrate osserva che l’errore di diritto nel quale è incorso il giudice di merito sta nell’aver ritenuto le spese in parola come di pubblicità, in una situazione di fatto in cui il criterio di qualificazione da utilizzare era, invece, quello relativo alle spese di rappresentanza, posto che la distinzione tra i due tipi di spese può così sintetizzarsi:
a) costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo;
b) mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi.
Il criterio distintivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, possono farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, esso consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto.
A ciò l’amministrazione ricorrente aggiunge che il contratto di sponsorizzazione, quale contratto atipico con reciprocità di prestazioni a carico di entrambe le parti, sponsor e sponsorizzato, consente la deducibilità dei contributi erogati dallo sponsor solo qualora sia rinvenibile nell’operazione posta in essere uno scopo di incremento delle vendite per il soggetto erogante mentre, nel caso di specie, non ricorrerebbe l’oggettiva caratteristica funzionale ricordata: le spese di sponsorizzazione avevano avuto quale unica funzione quella di valorizzare “socialmente” la denominazione dell’impresa tra cittadini e governanti locali.
Tutto ciò sarebbe confermato dalla constatazione che, all’atto dell’acquisto, i consumatori finali non avevano alcuna possibilità di risalire al marchio o alla denominazione di R.A.S.F. S.p.a. Ne deriva che i destinatari delle sponsorizzazioni in argomento non potevano che rimanere indifferenti al messaggio commerciale: costoro, pur volendo, non avrebbero mai potuto acquistare direttamente dall’azienda sponsorizzante. Ne consegue che, mancando nel caso concreto il legame specifico tra l’attività dell’azienda sponsorizzante e la promozione dedotta, la Commissione Tributaria Regionale avrebbe dovuto certamente applicare la disciplina delle spese di rappresentanza, e non quella delle spese di pubblicità.
I destinatari della sponsorizzazione (spettatori degli eventi sportivi o delle manifestazioni) non erano certo interlocutori interessati ad acquistare il prodotto e, pertanto, il messaggio “pubblicitario” era totalmente incapace di incidere sulle loro abitudini di acquisto, con la conseguenza della inidoneità ad incidere in modo diretto ed apprezzabile sulle vendite del prodotto e quindi sul volume d’affari della società sponsorizzata.
In sostanza, la totale estraneità dell’attività sponsorizzata (eventi sportivi, televisivi e manifestazioni di livello locale) rispetto alla “potenziale clientela” della società contribuente (anche a voler ritenere tali le eventuali società distributrici), non consentiva l’applicazione della disciplina delle spese per pubblicità.
Nell’ipotesi considerata il fine promozionale – ovvero l’obiettivo dell’incremento delle vendite – era di fatto privo di concretezza:
a) per le caratteristiche della potenziale clientela;
b) per il tipo di sponsorizzazione;
c) per il fine perseguito;
d) per le modalità operative della distribuzione dell’acqua.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, le spese di sponsorizzazione in questione, in quanto idonee, al più, ad accrescere il prestigio dell’impresa andavano ritenute come spese di rappresentanza e dunque deducibili nei limiti di legge ed indetraibili ai fini IVA.
A tale ultimo riguardo, precisa la ricorrente che l’art. 19-bis 1, lett. h) D.P.R. n. 633 del 1972, prevede che “non è ammessa in detrazione l’imposta relativa alle spese di rappresentanza, come definite ai fini delle imposte sul reddito, tranne quelle sostenute per l’acquisto di beni di costo unitario non superiore a lire cinquantamila”, oggi Euro 25,82.
La sentenza d’appello, nel discostarsi dagli enunciati principi, sarebbe incorsa, secondo la ricorrente, nel vizio di violazione di legge denunciato.
Il motivo è infondato perché la CTR, nel decidere la controversia, si è pienamente attenuta, contrariamente a quanto afferma la ricorrente, ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo i quali, costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese di pubblicità o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta, con la conseguenza che le spese di sponsorizzazione costituiscono spese di rappresentanza, deducibili nei limiti della norma menzionata, ove il contribuente non provi che all’attività sponsorizzata sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale (Sez. 5, n. 21977 del 28/10/2015, Rv. 637087 – 01).
Cosicché il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità, è stato individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi, ribadendosi il principio di diritto in precedenza richiamato e, con esso, la necessità di una rigorosa verifica in fatto della effettiva finalità delle spese in considerazione degli obiettivi perseguiti (Sez. 5, n. 16596 del 07/08/2015, Rv. 636438 – 01; Sez. 5, n. 3087 del 17/02/2016,Rv. 639043 – 01).
Ciò chiarito, la CTR, attenendosi ai suesposti principi (v. sub 1 del ritenuto in fatto) , ha reso una motivazione corretta in diritto, con conseguente infondatezza del vizio di violazione di legge denunciato.
2. Con il secondo motivo di ricorso, rubricato «insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. o, comunque, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nuova formulazione)», la ricorrente Agenzia delle Entrate deduce che la CTR ha omesso di prendere in considerazione elementi di sicura decisività (evidenziati nella motivazione dell’atto impositivo, nel precedente p.v.c. della Guardia di Finanza e che sono stati posti all’attenzione del giudice di merito negli atti processuali).
Assume l’amministrazione ricorrente come la sentenza impugnata sia, innanzitutto, frutto di una intrinseca ed insanabile contraddizione (anche logica), posto che la decisione, nella prima parte, sembra soffermarsi sul fatto che i “clienti” fossero una serie di altre società (solo successivamente confluite in H. s.p.a.), società partecipate da enti locali che si approvvigionavano anche presso altri fornitori di acqua (mentre solo nel 2009 la società sarebbe divenuta monopolista del settore, e da tale momento avrebbe aumentato il fatturato), cosicché la notorietà dell’impresa presso il pubblico poteva incidere sulla preferenza di prodotti o servizi di questa rispetto a quelli offerti da altri, risultando perciò utile e opportuno far conoscere al pubblico i prodotti e i servizi resi.
Obietta a tal proposito la ricorrente come la considerazione svolta nella sentenza impugnata si ponga in antitesi con la successiva parte della motivazione ove la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto che le prestazioni sponsorizzate si rivolgessero ad un pubblico (i cittadini stessi) che rappresenterebbero la potenziale clientela finale della società, mentre in precedenza era stato assunto che la “potenziale clientela” fosse rinvenibile nelle “società veicolo” (gli intermediari nella distribuzione).
Ed allora la decisione andrebbe cassata perché il giudice di merito non si sarebbe fatto carico alcuno di verificare se ed in che misura la specifica attività promozionale fosse stata o fosse potenzialmente idonea ad incidere sulle scelte non dei consumatori finali, bensì delle società intermediare asseritamente in condizione di rivolgersi ad un altro distributore.
Né il giudice di merito ha preso in considerazione le numerose circostanze di fatto e di ordine logico dalle quali appariva evidente che il fine “pubblicitario” (l’obiettivo dell’incremento delle vendite) fosse di fatto privo di concretezza, costituite:
a) dalle caratteristiche della potenziale clientela;
b) dalla tipologia degli eventi sponsorizzati (eventi sportivi, trasmissioni e manifestazioni) avulsi del tutto dall’attività della società (captazione, depurazione e distribuzione di acqua potabile) e privi di qualsivoglia diretta aspettativa al ritorno commerciale;
c) per il fine perseguito (valorizzazione dell’immagine);
d) per le modalità operative della distribuzione dell’acqua (indirettamente tramite altre società), essendo del tutto pacifico che, all’atto dell’acquisto, i consumatori finali non avessero alcuna possibilità di risalire al marchio o alla denominazione di R.A.S.F. S.p.A e, pur volendo, non avrebbero mai potuto acquistare direttamente dall’azienda sponsorizzante.
In estrema sintesi, la sentenza impugnata, qualora si ritenesse il frutto di un accertamento in fatto, andrebbe cassata perché:
a) il giudice di merito non si è fatto carico alcuno di verificare se ed in che misura la specifica attività promozionale fosse stata o fosse potenzialmente idonea ad incidere sulle scelte non dei consumatori finali, bensì delle società intermediare asseritamente in condizione di rivolgersi ad un altro distributore;
b) per non aver specificamente indicato le ragioni per le quali una “società pubblica”, svolgente, in un’area geografica definita e limitata, l’attività di captazione e potabilizzazione delle acque ma non anche quella di commercializzazione delle stesse ai consumatori finali (ed alla quale tutti i soggetti parimenti pubblici che, viceversa, svolgono detta attività di commercializzazione, nella medesima area, si rivolgono per l’approvvigionamento) possa, ciononostante, sostenere dei costi di pubblicità;
c) per non aver specificamente preso in considerazione tutte le circostanze sopra descritte che, se valutate, correttamente, avrebbero condotto ad una diversa decisione.
Tutto ciò integra, secondo la ricorrente, il vizio di motivazione della sentenza nella formulazione originaria dell’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. (la disposizione di cui all’art. 54, comma 1, del D.L. n. 83/2012, che ha modificato l’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., si ritiene non applicabile al ricorso per Cassazione proposto avverso le sentenze emesse dagli organi della giurisdizione tributaria) ed, in ogni caso, rileva anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c.
La sentenza, andrebbe pertanto cassata in relazione al vizio denunciato.
Il motivo è inammissibile.
Va infatti precisato che la sentenza impugnata è stata pubblicata successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione (del 7 agosto 2012, n. 134) del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 con la conseguenza che, anche nel processo tributario, trova applicazione l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. così come riformulato ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, limitatamente ai ricorsi proposti a decorrere dall’Il settembre 2012 (articolo 54, comma s, del decretolegge n. 83 del 2012).
Sul punto, le Sezioni Unite civili hanno affermato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), derivando da ciò che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831 – 01).
Da ciò le Sezioni Unite hanno tratto argomento per sostenere che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si traduce in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali e tale anomalia, secondo le Sezioni Unite, si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. U, cit,. Rv. 629830 – 01). In alcuna delle segnalate anomalie è, con tutta evidenza, incorsa la sentenza impugnata, con la conseguenza che il motivo di ricorso, non tenendo in alcun conto le modifiche apportate all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve ritenersi inammissibile.
3. Sussistono motivi di equità per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio, in quanto il presente ricorso è stato depositato in epoca antecedente all’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite civili.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Spese compensate.
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