CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 agosto 2017, n. 20632
Tributi – Accertamento induttivo – Scostamento pluriennale dagli studi di settore – Contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente
Rilevato che
Con sentenza in data 6 luglio 2015 la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, respingeva l’appello proposto da G.R. ed invece accoglieva l’appello incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 433/8/12 della Commissione tributaria provinciale di Salerno che aveva parzialmente accolto il ricorso del contribuente contro gli avvisi di accertamento IRPEE ed altro, IVA ed altro 2006-2007.
La CTR osservava in particolare che gli atti impositivi impugnati si fondavano non soltanto sul riscontrato scostamento pluriennale dagli studi di settore, ma anche su di una mole indiziaria complessiva tale da indurre ad un giudizio di sussistenza effettiva dei fatti costitutivi delle maggiori pretese fiscali vantate dall’Ente impositore.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il contribuente deducendo un motivo unico.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
Con l’unico motivo dedotto – ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – il ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione degli artt. 38, 39, primo comma, lett. d), d.P.R. 600/1973, 62 sexies, d.l. 331/1993, 2697, 2729, cod. civ., poiché la CTR ha affermato la sussistenza di prove indiziarie legittimanti gli avvisi di accertamento impugnati e fondanti i crediti tributari con gli stessi fatti valere.
La censura è infondata.
Va ribadito che:
– «In materia di IVA, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni» (Sez. 6-5, Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015, Rv. 638203 – 01);
– «In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura é possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione» (ex multis Sez. 5, n. 26110 del 2015); -«Con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Sez. 6-5, Ordinanza n. 7921 del 2011);
– «In tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento» (Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012, Rv. 622995 – 01).
La sentenza impugnata applica esemplarmente il primo ed il quarto principio di diritto citato, mentre la censura collide radicalmente con il secondo ed il terzo.
La Commissione tributaria regionale infatti, con puntualità ed esaustività argomentativa davvero notevoli, ha esaminato il complesso delle prove indiziarie basanti gli atti impositivi impugnati, partendo dai reiterati scostamenti dagli studi di settore passando alla analisi dell’inattendibilità delle scritturazioni contabili, anche per la riscontrata pluralità delle violazioni in materia di emissione dello scontrino fiscale, della anormale costante bassa redditività dell’impresa e quindi della sua evidente antieconomicità, a fronte di possidenze patrimoniali del contribuente non altrimenti giustificate.
Sulla base di tutti tali elementi valutativi fattuali il giudice tributario di appello ha ritenuto di convalidare la percentuale di ricarico utilizzata per la determinazione dell’entità delle riprese a tassazione, peraltro in aderenza al principio di diritto che «In tema di accertamento analitico induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, le percentuali di ricarico, accertate con riferimento ad un determinato anno fiscale, costituiscono validi elementi indiziari, da utilizzare secondo i criteri di razionalità e prudenza, per ricostruire i dati corrispondenti relativi ad anni precedenti o successivi, atteso che, in base all’esperienza, non si tratta di una variabile occasionale, per cui incombe sul contribuente, anche in virtù del principio di vicinanza della prova, l’onere di dimostrare i mutamenti del mercato o della propria attività che possano giustificare in altri periodi l’applicazione di percentuali diverse» (Sez. 5 – , Sentenza n. 27330 del 29/12/2016, Rv. 642387 – 01); ha poi anche rilevato l’inconsistenza delle allegazioni difensive del G. ed in conclusione ha affermato la gravità, precisione e concordanza delle prove indiziarie basanti gli avvisi di accertamento de quibus, conseguentemente, in accoglimento del gravame incidentale dell’Agenzia delle entrate, ufficio locale, riformando parzialmente la sentenza appellata in punto rideterminazione in minus del quantum delle pretese fiscali in oggetto. Inoltre quanto alla questione – riproposta con il ricorso – del reddito personale/familiare del contribuente va detto che la stessa non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, ma soltanto un mero obiter dictum della medesima, peraltro riferito alla questione meritale effettivamente oggetto della decisione ossia la riscontrata, sul piano amministrativo e giudiziale, incongruità del reddito d’impresa dichiarato in rapporto al reddito complessivo del contribuente stesso.
A fronte di una decisione così ben argomentata e pienamente conforme alle norme tributarie e codicistiche civili in oggetto, come costantemente interpretate nella giurisprudenza di legittimità, la censura proposta chiede quindi a questa Corte una revisione del giudizio meritale che pacificamente non le compete.
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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