CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 gennaio 2017, n. 67
Procedura di licenziamento collettivo – Comunicazione – Lavoratore – Malattia – Efficacia
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 849/2013, depositata l’1 luglio 2013, la Corte di appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Catanzaro, dichiarava inefficace fino alla cessazione dello stato di malattia del lavoratore il recesso comunicato, con lettera del 18/9/2008, da I.S. S.p.A. a F.Q. all’esito di procedura di licenziamento collettivo.
La Corte – escluso che l’omesso invio della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 alla Commissione Regionale Tripartita, istituita con I. regionale n. 6/2001, potesse dar luogo, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, alla inefficacia del licenziamento – osservava, con riferimento alle ulteriori ragioni di impugnazione dichiarate assorbite dal primo giudice, e per quanto di interesse ai fini del presente ricorso, che vi era prova della trasmissione di detta comunicazione sia al Centro per l’impiego della Provincia di Catanzaro e sia alla Direzione regionale del lavoro; che era da ritenersi osservato il requisito della contestualità, previsto dall’art. 4, comma 9, nella versione anteriore alla I. n. 92/2012, posto che il criterio adottato per la individuazione dei dipendenti da licenziare (e cioè il possesso dei requisiti pensionistici al 31/3/2008) era già stato portato a conoscenza delle organizzazioni sindacali e degli organi pubblici in epoca precedente il collocamento in mobilità e che la trasmissione ai medesimi della comunicazione in oggetto era avvenuta a distanza di pochi giorni dall’invio della lettera di recesso al lavoratore; che non poteva ritenersi in contrasto con i principi di obiettività e generalità dei criteri di scelta la presenza nell’accordo sindacale, con il quale era stato definito il criterio di selezione dei dipendenti da licenziare, di una clausola di riserva per dodici unità (poi ridotte a undici) volta a salvaguardare la funzionalità delle strutture operative e organizzati ve, avendo il Q. maturato i requisiti per il trattamento pensionistico, in una situazione che vedeva interessato dai medesimi requisiti un numero di dipendenti notevolmente inferiore a quello dei dipendenti in esubero, e non avendo egli dimostrato di essere stato licenziato al posto di uno dei lavoratori trattenuti in servizio.
La Corte osservava peraltro che non poteva negarsi alla malattia del lavoratore, insorta prima della comunicazione del licenziamento, effetto di sospensione della efficacia dello stesso, non potendo attribuirsi rilievo contrario in tal senso alla ricezione dell’indennità sostitutiva del preavviso, atteso che il Q., impugnando il licenziamento, aveva offerto la propria prestazione, né all’erogazione del trattamento di pensione, in quanto prestazione rispondente a necessità alimentari, così come precisato nella medesima sede ad escludere qualsiasi manifestazione di acquiescenza al recesso datoriale.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il Q. con tre motivi; I.S. S.p.A. ha resistito con controricorso, con il quale ha proposto ricorso incidentale affidato a due motivi, a cui ha resistito il lavoratore con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente principale censura, in primo luogo, la sentenza nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto che l’invio della comunicazione prevista dalla norma richiamata (anche) alla Commissione Regionale Tripartita della Regione Calabria, in aggiunta alla Direzione regionale del lavoro e alle organizzazioni sindacali, non fosse indispensabile ai fini della correttezza formale e sostanziale della procedura e ciò sul rilievo che l’omissione non aveva determinato alcun pregiudizio alla tutela della posizione del lavoratore, sia avuto riguardo ai compiti attribuiti alla predetta Commissione, sia in relazione al fatto che il lavoratore era stato posto nelle condizioni di conoscere le ragioni a giustificazione del licenziamento (e cioè il possesso, alla data del 31/3/2008, dei requisiti per la pensione di anzianità o di vecchiaia). Il ricorrente lamenta poi, con il medesimo motivo, che la Corte di appello abbia reso una motivazione insufficiente su di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dall’avvenuta trasmissione della comunicazione, di cui all’art. 4, comma 9, alla Direzione regionale del lavoro e alle organizzazioni sindacali.
Con il secondo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione dell’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991 nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale escluso la necessità che l’invio della comunicazione di recesso al lavoratore e della comunicazione agli organi pubblici e alle organizzazioni sindacali, indicati nella norma citata, dovesse essere contemporaneo, erroneamente interpretando l’avverbio “contestualmente” (nella formulazione dell’art. 4, comma 9, anteriore alla I. n. 92/2012) come appartenenza ad un medesimo “contesto” temporale.
Con il terzo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, comma 1, I. n. 223/1991, con connessa violazione dell’art. 4, co. 9, stessa legge, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente escluso che potesse contrastare con i parametri di ragionevolezza e di non discriminazione la clausola n. 6 dell’accordo sindacale in data 22 luglio 2008, relativa alla riserva di dodici unità (poi ridotte a undici) che, pur avendo maturato il diritto a pensione, il datore di lavoro avrebbe potuto “mantenere in servizio allo scopo di salvaguardare la funzionalità delle strutture operative ed organizzative”: clausola che invece, introducendo un criterio privo dei caratteri di obiettività e di generalità, era tale da ripercuotersi inevitabilmente nella fase di attuazione dell’accordo e, quindi, nella scelta dei lavoratori da licenziare.
Il primo motivo è infondato laddove denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 4, comma 9, I. n. 223/1991.
Come, infatti, statuito, in fattispecie analoga, da Cass. n. 12122/2015, “in materia di licenziamento collettivo, in applicazione del generale principio della ‘strumentalità delle forme’ valido anche per il procedimento amministrativo, non può essere dichiarata l’inefficacia del licenziamento laddove, nell’ambito di una procedura svoltasi in modo corretto e adeguato alle finalità cui è preordinata per legge, risulti omessa esclusivamente la comunicazione alla Commissione regionale indicata dall’art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223 – che, in base all’art. 6 della stessa legge, svolge il compito di approvare le liste di mobilità – ed il licenziamento collettivo sia stato disposto, per riduzione del personale, da parte di una impresa non rientrante nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale, i cui dipendenti, quindi, non possono beneficiare dell’indennità di mobilità” (conformi, fra le altre: Cass. n. 13788/2015; n. 14429/2015; n. 17103/2016).
Il motivo è, invece, inammissibile laddove denuncia il vizio di cui all’art. 360 n. 5, posto che esso non si conforma, dolendosi il ricorrente di una motivazione “insufficiente” del giudice di merito su di un fatto decisivo per il giudizio, allo schema normativo del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134, pura fronte di sentenza depositata in data 1 luglio 2013 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa.
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 c.p.c., come riformulato a seguito dei recenti interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l ‘omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
Nella specie, risulta che la Corte abbia preso in esame il fatto della trasmissione della comunicazione, di cui all’art. 4, co. 9, I. n. 223/1991, alla Direzione regionale del lavoro della Calabria e alle organizzazioni sindacali (cfr. sentenza, p. 14) e ne abbia accertato l’avvenuto compimento, nella specifica considerazione del motivo di doglianza proposto al riguardo dal lavoratore (p. 17).
Il secondo motivo è infondato.
E’ invero da escludere che l’art. 4 I. n. 223/1991, prevedendo al co. 9 (nella versione anteriore alla modifica introdotta con la I. 28 giugno 2012, n. 92) che la comunicazione agli organi pubblici e alle organizzazioni sindacali debba avvenire “contestualmente” alla comunicazione dei recessi, abbia inteso richiamare il datore di lavoro all’attuazione di un’esigenza di simultaneità ovvero di assoluta coincidenza temporale, potendo ritenersi osservato il parametro della “contestualità” anche nell’ipotesi in cui la comunicazione agli organi pubblici e alle organizzazioni sindacali risulti successiva a quella di recesso, purché l’intervallo temporale così realizzatosi tra di esse risulti contenuto e comunque tale da consentire al lavoratore di disporre, nella sua sostanziale interezza, del termine assegnato a pena di decadenza per l’impugnazione del licenziamento.
Si deve, infatti, osservare come il presidio normativo di una indispensabile correlazione temporale tra le due comunicazioni, quale ribadito anche dalla I. n. 92/2012, esprima, con tutta chiarezza, la necessità di una pronta conoscenza e verifica da parte dei soggetti indicati come destinatari della comunicazione ex art. 4, comma 9, e in particolare da parte delle organizzazioni sindacali, delle modalità applicative dei criteri di scelta posti a base dei provvedimenti di recesso, così da garantire al lavoratore licenziato, che voglia determinarsi all’impugnazione, la possibilità di un’adeguata informazione e assistenza. In tal senso, tra le pronunce più recenti, Cass. n. 8680/2015, per la quale “in tema di licenziamento collettivo (secondo la disciplina antecedente alle modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92), la contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell’elenco dei dipendenti licenziati e dei criteri di scelta, richiesta, a pena di inefficacia del licenziamento, dall’art. 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, si giustifica al fine di consentire alle OO.SS. (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo sulla correttezza nell’applicazione dei menzionati criteri da parte del datore di lavoro, anche al fine di sollecitare, prima dell’impugnazione del recesso in sede giudiziaria, la revoca del licenziamento eseguito in loro violazione”; con la conseguenza di ritenere esclusa una nozione tanto “elastica” di contestualità da imporre al lavoratore di impugnare il proprio licenziamento senza la previa conoscenza dei criteri di scelta che lo hanno determinato.
Ancor più recentemente Cass. n. 22024/2015, relativa anch’essa ad una fattispecie soggetta al regime dell’art. 4, comma 9, anteriore alle modifiche apportate dalla I. n. 92/2012, pur riaffermando il principio di indispensabile “contemporaneità”, ha cassato la decisione di merito che aveva escluso che cinquantasei giorni di ritardo (e cioè un intervallo di tempo idoneo a consumare nella quasi totalità il termine stabilito per l’impugnazione dagli artt. 6 I. n. 604/1966 e 5 I. n. 223/1991) compromettessero il requisito della contestualità tra il licenziamento e le comunicazioni alle OO.SS. e agli uffici competenti.
La valutazione della sussistenza del requisito della “contestualità”, da condursi alla luce del criterio dell’attitudine dell’intervallo di tempo (tra la comunicazione di recesso e quelle agli organi pubblici e alle organizzazioni sindacali) a pregiudicare le opportunità di informazione e assistenza del lavoratore nell’esercizio del suo diritto all’impugnazione, costituisce una questione di fatto, che è rimessa, come tale, alla cognizione del giudice di merito e che si sottrae al controllo di legittimità, ove – come nella specie – essa risulti sorretta da una motivazione adeguata.
La sentenza impugnata ha, infatti, accertato che la comunicazione alle organizzazioni sindacali e agli organi pubblici è avvenuta “a distanza di soli pochi giorni dall’invio della comunicazione di recesso al lavoratore”, esattamente computando il decorso del periodo dalla ricezione di quest’ultima, posto che solo la conoscenza del licenziamento determina l’insorgere delle esigenze cui è volto il requisito in esame, e rilevando di conseguenza l’inclusione di tutte le attività, poste dall’art. 4, comma 9, a carico del datore di lavoro, entro un medesimo contesto temporale (cfr. sentenza, p. 20).
L’intervallo di tempo così accertato nel caso concreto si presenta, d’altra parte, in linea con il periodo di “sette giorni dalla comunicazione dei recessi” introdotto dalla I. n. 92/2012, il quale può considerarsi, in relazione alle fattispecie venute ad esistenza nel regime anteriore, come utile (e peraltro non vincolante) parametro nella valutazione della sussistenza in concreto del requisito di “contestualità”.
Il terzo motivo è inammissibile nella parte in cui lamenta che il giudice di merito avrebbe “omesso completamente ogni e qualsiasi argomentazione sulle questioni sollevate” con specifico motivo di gravame, trattandosi di vizio deducibile ai sensi dell’art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c. e non ai sensi dell’art. 360 n. 5; ed è comunque, nella parte in esame, palesemente infondato, avendo la Corte territoriale, lungi dall’incorrere in “omessa motivazione”, ampiamente dato conto del percorso logico-argomentativo che l’ha condotta a respingere le ragioni di doglianza già svolte con il ricorso introduttivo e riproposte in appello, a seguito di assorbimento nella pronuncia di primo grado (cfr. sentenza impugnata, pp. 20-23).
Il motivo risulta altresì infondato laddove denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto.
La sentenza impugnata ha, infatti, escluso che la scelta del datore di lavoro di trattenere in servizio un numero esiguo di dipendenti in rapporto al numero complessivo di quelli in esubero, interessati dalla procedura di riduzione del personale, potesse integrare una violazione dell’art. 5 I. n. 223/1991 e ciò, in primo luogo, sul rilievo, di per sé idoneo a sorreggere la conclusione raggiunta, che l’appellato aveva maturato i requisiti per il trattamento pensionistico, rientrando in tal modo nell’area di applicazione del criterio fissato dalle parti (con l’accordo del 22 luglio 2008) per l’individuazione dei lavoratori eccedenti, e che tale condizione (e cioè il possesso dei requisiti pensionistici) riguardava un numero di dipendenti notevolmente inferiore all’entità delle eccedenze.
Su tale premessa la sentenza si sottrae alla censura che le viene rivolta.
E’ consolidato l’orientamento di legittimità, per il quale “in materia di licenziamenti collettivi – come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 – la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in un accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che la rappresentano, senza la necessità dell’approvazione dell’unanimità) poiché adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dall’art. 15 della legge n. 300 del 1970, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità e devono essere coerenti col fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori. Deve, conseguentemente, considerarsi razionalmente giustificato il criterio della prossimità a trattamento pensionistico con fruizione di ‘mobilità lunga’, oltretutto esemplificativamente menzionato nella citata sentenza costituzionale” (Cass. n. 1760/1999). Conformi: Cass. n. 13691/1999; n. 9866/2007.
Ora, il giudice del merito, ritenendo la legittimità dell’accordo sindacale, si è uniformato a tale risalente e consolidato principio, non potendosi configurare un vulnus ai criteri di obiettività e di generalità in presenza del duplice (e non contestato) accertamento compiuto nella sentenza impugnata e cioè del possesso in capo al Q. del requisito stabilito con accordo sindacale (intervenuta maturazione dei presupposti per il trattamento pensionistico) e della esistenza di un divario “notevole” tra il numero dei lavoratori risultanti nella medesima condizione e la complessiva entità numerica delle eccedenze, essendo chiaro che l’esiguo numero delle risorse oggetto di salvaguardia (dodici, poi ridotte a undici), ove pure in possesso dei titoli per l’accesso a pensione e, pertanto, suscettibili di entrare in comparazione con il ricorrente, non avrebbe potuto in nessun caso determinarne l’esclusione dal novero dei lavoratori da licenziare.
Il ricorso principale deve, pertanto, essere respinto.
Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale la società controricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362 e segg., 2110 e 2118 c.c., censura la sentenza impugnata per non avere la Corte di appello considerato che la (pacifica) accettazione, da parte del Q., dell’indennità sostitutiva del preavviso valeva ad interrompere con effetto immediato il rapporto di lavoro e comportava l’impossibilità per il lavoratore di pretendere la protrazione dello stesso sino alla scadenza del relativo periodo e/o sino alla protrazione della malattia.
Con il secondo motivo, deducendo omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, la società si duole che il giudice di merito abbia del tutto omesso di considerare che la lettera di impugnazione del licenziamento aveva preceduto l’accettazione senza riserve dell’indennità sostitutiva del preavviso e che il ricorrente, dopo avere ricevuto tale indennità, non aveva formulato alcuna eccezione al riguardo.
Si deve preliminarmente osservare che il secondo motivo è inammissibile, nella parte in cui viene denunciato il mancato esame dell’anteriorità della lettera di impugnazione del licenziamento rispetto all’accettazione dell’indennità sostituiva del preavviso, avendo la Corte, diversamente da quanto dedotto, preso in considerazione il fatto in questione là dove (cfr. sentenza, p. 24) ha rilevato che “la ricezione della somma deve essere sempre posta in correlazione con la precedente offerta della prestazione da parte del lavoratore”, offerta che era stata formulata, come precisato, nell’atto di impugnazione del recesso datoriale.
Ciò posto, il primo e il secondo motivo, nella parte in cui involge la ricostruzione della condotta del lavoratore e del suo significato, possono essere congiuntamente trattati.
I motivi sono infondati.
La Corte di appello ha, infatti, posto a fondamento della propria statuizione di inefficacia del recesso fino alla cessazione dello stato di malattia (a) la circostanza che il lavoratore, in relazione al periodo di preavviso, avesse offerto (con l’atto di impugnazione) la propria prestazione e (b) la circostanza che, con il medesimo atto, egli avesse precisato come l’accettazione del trattamento di fine rapporto, nonché la richiesta di liquidazione della pensione INPS e dell’importo dovuto dal Fondo Pensioni Integrativo, rispondendo a necessità alimentari, non potessero assurgere a elemento significativo di rinuncia alla protrazione del rapporto.
Si tratta di accertamento di fatto rientrante nella cognizione del giudice di merito e, in quanto sostenuto da idonea motivazione, non soggetto a scrutinio in sede di legittimità; né può ritenersi che la Corte di appello sia incorsa nella violazione delle norme di diritto richiamate, posto che la giurisprudenza di questa Corte, pur ammettendo la possibilità di un accordo delle parti (derogativo della prosecuzione del rapporto) anche manifestato per fa età concludentia, pone la necessità di un’indagine volta ad escludere l’esistenza di “riserve” da parte del lavoratore (cfr., fra le molte, Cass. n. 8797/2004).
Ne consegue che anche il ricorso incidentale deve essere respinto.
La soccombenza reciproca giustifica la compensazione per intero delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Respinge il ricorso principale; respinge altresì il ricorso incidentale; dichiara interamente compensate fra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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