CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 luglio 2017, n. 16395
Licenziamento per giusta causa – Sottrazione di denaro dalla cassa – Mobbing – Prova
Fatti di causa
Con decreto 14 febbraio 2012 il Tribunale di Bologna ammetteva R.G., quale impiegata alle dipendenze di M.S.S. s.r.l. dal 15 gennaio 1986 all’aprile 2002 (quando era stata licenziata per giusta causa), allo stato passivo del suo fallimento, dal quale era stata esclusa per difetto di prova dal giudice delegato in sede di accertamento a norma dell’art. 96 I. fall., in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis n. 1 c.c., per il credito complessivo di € 42.700,80 (di cui € 8.925,20, pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, a titolo di risarcimento da licenziamento illegittimo, € 26.775,60, pari a quindici mensilità per indennità sostitutiva della reintegrazione e € 7.000,00, a titolo di danno morale per demansionamento e mobbing), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione del credito (24 aprile 2002) al deposito della stato passivo.
In via preliminare, il Tribunale riteneva l’applicabilità del rito fallimentare anche per la cognizione, in via incidentale, degli accertamenti di illegittimità del licenziamento impugnato, del demansionamento e del mobbing denunciati dalla lavoratrice, in funzione della verifica dei relativi crediti per la sua partecipazione al concorso, con efficacia endofallimentare del provvedimento, ai sensi dell’art. 96, ult. comma I. fall.
Nel merito, negato ogni diverso credito risarcitorio insinuato, esso accertava, sulla base delle scrutinate risultanze istruttorie: l’illegittimità del licenziamento, in quanto privo di giusta causa (in mancanza di prova della contestata sottrazione di denaro dalla cassa), con i conseguenti effetti risarcitori liquidati nelle misure suindicate, anche in applicazione del principio di concorso del fatto colposo del creditore ai sensi dell’art. 1227, secondo comma c.c., per inerzia nella ricerca di altro posto di lavoro; la ricorrenza tanto del demansionamento che del mobbing, per i quali determinava il danno morale (escluso quello patrimoniale da perdita di professionalità, in assenza di specifica allegazione) in misura equitativa prossima al 30% della retribuzione per il periodo da aprile 2001 ad aprile 2002.
Con atto notificato il 15 marzo 2012, R.G. ricorre per cassazione con unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.; la curatela fallimentare intimata non ha svolto difese.
Ragioni della decisione
1. Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1227 e 2697 c.c., per erronea applicazione, nella limitazione del credito risarcitorio da licenziamento illegittimo a sole cinque mensilità, dell’onere probatorio, in capo al datore di lavoro (e per esso al suo fallimento), dell’aliunde perceptum ovvero percipiendum: il proprio consistendo nella deduzione del titolo contrattuale (rapporto di lavoro), con la maturazione in proprio favore di un credito risarcitorio pari a tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento alla dichiarazione di fallimento e pertanto nella richiesta misura di € 151.728,40 (pari a 85 mensilità nella misura unitaria incontestata di 1.785,04), oltre accessori.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1. Ed infatti, non sussiste la violazione delle norme di diritto denunciata, in difetto dei requisiti suoi propri: non avendo la ricorrente proceduto, come pure avrebbe dovuto, ad una verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, né alla sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa (Cass. 28 novembre 2007, n. 24756), neppure avendo specificato le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina: così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla corte regolatrice di adempiere al proprio compito istituzionale di verifica del fondamento della violazione denunziata (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
2.2. Il motivo è poi assolutamente generico, posto che non coglie la ratio decidendi del profilo di condanna risarcitola impugnata, in violazione del requisito di specificità prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del motivo, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202).
Esso infatti non confuta le argomentazioni del Tribunale, riguardanti il difetto di prova in ordine all’ordinaria diligenza e ai generali principi di correttezza e buona fede, che impongono al creditore di evitare condotte attive di aggravamento, ma anche di inerzia e passività, che contribuiscano ad accrescere il danno, avendo la lavoratrice un concreto dovere di attivarsi per reperire un posto di lavoro: secondo il principio generale contenuto nell’art. 1227 c.c., per il quale “il risarcimento non è dovuto” per i danni che il creditore avrebbe evitato usando l’ordinaria diligenza (così al secondo e terzo capoverso di pg. 5 del decreto).
2.3. E proprio questa ratio decidendi di concorso del fatto colposo del creditore che elide la responsabilità del debitore, nonostante la formale enunciazione della norma nella rubrica del motivo, non è stata confutata: essendo il motivo concentrato sul tema della violazione del regime probatorio (indubbiamente a carico del debitore danneggiante, qui parte datoriale, anche in riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 1227, secondo comma c.c.: Cass. 16 aprile 2013, n. 9137), ma non in riferimento all’ipotesi rilevante, di esclusione del risarcimento del danno, che il creditore avrebbe potuto evitare con l’uso dell’ordinaria diligenza, non limitata alla mera inerzia, di fronte all’altrui comportamento dannoso, o alla semplice astensione dall’aggravare, con fatto proprio, il pregiudizio già verificatosi, piuttosto imponendogli, secondo i principi generali di correttezza e buona fede previsti dall’art. 1175 c.c., una condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose di detto comportamento, in virtù di quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (Cass. 25 settembre 2009, n. 20684; Cass. 9 febbraio 2004, n. 2422).
2.4. Il mezzo ha piuttosto investito la violazione del regime probatorio, a carico di parte datoriale, sotto il diverso profilo di limitazione della responsabilità risarcitoria sulla base della deduzione, in funzione della contestazione della richiesta risarcitoria (e pertanto all’interno del medesimo effetto dell’accertata responsabilità contrattuale da inadempimento) dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum (Cass. 12 maggio 2015, n. 9616; Cass. 17 novembre 2010, n. 23226).
Tuttavia, un tale profilo neppure è stato trattato dal provvedimento impugnato e risulta così non pertinente e determina l’inammissibilità, per genericità, della censura.
3. Dalle superiori argomentazioni discende coerente l’inammissibilità del ricorso, senza alcun provvedimento sulle spese, non avendo la parte intimata vittoriosa svolto difese nell’odierno giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso; nulla sulle spese.
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