CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 maggio 2017, n. 10847
Licenziamento – Riassorbimento di tutti i lavoratori sospesi in CIGS – Accordo sindacale sulla mobilità
Fatti di causa
Il Tribunale di Milano accoglieva le domande proposte da A.D.F. e V.A. intese a conseguire la declaratoria di illegittimità dei licenziamenti loro intimati in data 1/10/2007 dalla F.P.T. s.p.a. all’esito della instaurata procedura di mobilità, e la reintegra nel posto di lavoro con gli ulteriori effetti risarcitori sanciti dall’art. 18 l. 300/70. A fondamento del decisum il giudice adito, rilevata la carenza di specificità della comunicazione formulata ai sensi dell’art. 4 comma 9 l. 223/91, osservava – in estrema sintesi – che l’accordo sindacale sulla mobilità costituiva violazione di un precedente accordo in data 27/9/2006 con cui era stato pattuito il riassorbimento di tutti i lavoratori sospesi in CIGS, ivi compresi i ricorrenti, come accertato in precedente decisione resa dal medesimo Tribunale all’esito di procedimento promosso dal sindacato S.C. ex art. 28 l. 300/70.
Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte distrettuale con sentenza pubblicata in data 17/6/2014 con la quale venivano integralmente respinte le domande proposte dai ricorrenti.
Nel pervenire a tali conclusioni il giudice del gravame osservava, per quanto qui rileva, che l’accordo sindacale del 27/9/2006 non recava alcun impegno della società alla ricollocazione di tutti gli addetti allo stabilimento meccanica di Arese; che l’unico criterio di scelta previsto dall’accordo – integrato dalla prossimità al pensionamento – non consentiva margini di discrezionalità nell’individuazione del personale da collocare in mobilità e, da ultimo, che le comunicazioni inviate dalla società in data 4/10/2007 erano pienamente rispettose dei dettami di cui all’art. 4 comma 9 l. 223/91.
La cassazione di tale decisione è domandata dai lavoratori sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362-1363-1366 e 1367 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si deduce l’erroneità della pronuncia con la quale i giudici del gravame si erano discostati dagli accertamenti compiuti in prime cure, secondo i quali l’accordo perfezionato sulla mobilità del personale relativo alla sede di Arese, vulnerava il precedente accordo sindacale che, secondo un’interpretazione condotta in base al criterio letterale e della comune intenzione delle parti, era inequivocabilmente inteso a riallocare tutto il personale in esubero.
2. Il motivo va disatteso.
Deve rammentarsi in via di premessa che secondo la giurisprudenza di legittimità, vertendosi in tema di esegesi di un accordo aziendale, non può procedersi ad una interpretazione diretta dello stesso, non rientrando fra quelli richiamati dall’art. 360 n. 3 c.p.c. così come riformulato dall’art. 2 del D.Lgs n. 40 del 2006 (ex plurimis, vedi Cass. 4/2/2010 n. 2625).
Sulla questione delibata, questa Corte ha affermato il principio, che va qui ribadito, secondo cui ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici di un tale disciplina pattizia, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato. La denuncia del vizio, inoltre, dev’essere formulata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero “delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza.
Né, per sottrarsi al sindacato di legittimità, è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra.
All’uopo, non è, in definitiva, sufficiente, una semplice critica della decisione sfavorevole formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante (per tutte vedi, Cass. 4/2/2010 n. 2625, Cass. 8/2/2010 n. 2742, Cass. 10/2/2015 n. 2465 ed in motivazione, Cass. 18/3/2016 n. 5461).
Nello specifico la critica mossa all’interpretazione della declaratoria contrattuale per come articolata appare generica, difettando la allegazione, con riferimento alla violazione dei canoni interpretativi, del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato. Una censura siffatta si palesa, dunque, inammissibile, alla stregua della funzione del giudizio di legittimità, limitata per quanto sinora detto e quanto agli accordi del tipo in esame, al controllo della motivazione e alla verifica dell’impiego corretto dei canoni ermeneutici secondo le censure proposte dal ricorrente (cfr. Cass. cit. n. 2625 del 2010).
3. Con il secondo mezzo di impugnazione è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 e 1375 c.c., nonché dell’art. 28 l. 300/70 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. Si deduce che, diversamente da quanto argomentato dalla Corte distrettuale, il comportamento posto in essere dalla società convenuta rivestiva carattere plurioffensivo, avendo gravemente inciso non solo sui diritti sindacali ma anche su quelli individuali dei lavoratori.
4. Anche tale motivo non si palesa meritevole di accoglimento.
La doglianza formulata presuppone quale antecedente logico-giuridico, la erronea interpretazione dell’accordo sindacale sottoscritto in data 27/9/2006 anche dallo S.C., da parte dei giudici del gravame.
I ricorrenti hanno infatti rimarcato che “la mancata riallocazione dei lavoratori, sostituita – in corso di validità dell’accordo e a pochi mesi di distanza dalla sua conclusione – dalla apertura di una procedura per licenziamento collettivo, addivenendo ad altro diverso accordo raggiunto con soggetti diversi (e con esclusione di una parte degli originari contraenti…) a distanza di pochi mesi e a condizioni immutate,…evidenzia un chiaro inadempimento, peraltro posto in essere in violazione, anche dei principi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1375 c.c.”. Di qui, la denuncia della sussistenza di un comportamento antisindacale della società datoriale idoneo a vulnerare altresì, per la valenza plurioffensiva che lo connota, anche il diritto individuale dei singoli lavoratori alla tutela del posto di lavoro.
Orbene, al di là di ogni considerazione in ordine alla circostanza – rimarcata anche dalla controricorrente in sede di memoria illustrativa – del sopravvenuto accertamento con effetto di giudicato, della insussistenza di ogni profilo di antisindacalità in ordine al comportamento tenuto dalla società nella vicenda scrutinata (vedi Cass. 7/7/2015 n. 14105), ancora una volta, va rilevato che per il tramite della denuncia di un vizio di violazione di legge, la censura tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale nello scrutinio della vicenda sottoposta al suo esame – peraltro condotta secondo criteri di congruità e completezza motivazionale – inammissibile nella presente sede di legittimità.
5. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 4 comma 9 l. 223/91 e dell’art. 28 l. 300/70 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si ribadisce che la mera trasmissione di un elenco di lavoratori non poteva ritenersi satisfattiva dei precetti sanciti dal richiamato art. 4.
6. La critica non è condivisibile.
Va richiamato al riguardo il principio ripetutamente affermato da questa Corte secondo cui in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. ex plurimis, Cass. 11/1/2016 n. 195, Cass. 16/7/2010 / V n. 16698). Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, che qui non viene denunciato, ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge.
La Corte territoriale ha peraltro argomentato, sulla questione delibata, come il criterio di scelta dei lavoratori coinvolti nel procedimento di mobilità stabilito nell’accordo 25/5/2007 fosse unico ed oggettivo, in quanto riferito al possesso dei requisiti di pensionamento al momento della comunicazione della risoluzione del rapporto di lavoro e non comportasse alcun margine di discrezionalità nella scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, i quali risultavano indicati nominativamente, con specificazione della anzianità posseduta, nelle comunicazioni ex art. 4 comma 9 l. 223/91.
La statuizione, congrua e completa per quanto sinora detto, non rispondendo ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità, resiste, dunque, alla censura all’esame.
7. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c.
Si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto inammissibili, in quanto tardivamente formulate solo nelle memorie difensive depositate in grado di appello, le deduzioni inerenti alla mancanza del nulla osta al licenziamento dell’A., quale componente della R.S.U..
Si argomenta per contro, che tali deduzioni erano contenute sin dal ricorso introduttivo del giudizio, in tal senso palesandosi la carenza della pronuncia impugnata.
8. Il motivo è privo di pregio.
Non può, invero, tralasciarsi di considerare che la distinzione fra l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. consiste nel fatto che, nel primo caso, I’ omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre nel secondo, l’omessa trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione (cfr. Cass. 4/12/2014 n. 25714).
Va quindi rimarcato che l’omessa pronuncia, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, consentendo alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di procedere all’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello.
Nella specie, tuttavia, la critica formulata da parte ricorrente non appare correttamente veicolata mediante il canone di cui al n. 4 del comma primo art. 360 c.p.c., avendo il giudice dell’impugnazione proceduto ad una esegesi dell’atto di appello sorretta da congrua motivazione, così pervenendo alla conclusione della novità delle questioni sollevate dagli appellanti con statuizione che, per quanto sinora detto, si sottrae alla censura all’esame. In tal caso, il dedotto errore del giudice non si configura come “error in procedendo”, ma attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte, e non a quello inerente a principi processuali, sicché detto errore può concretizzare solo una carenza nell’ interpretazione di un atto processuale, ossia un vizio sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione che nella specie non viene prospettato (argomenta da Cass. 5/2/2014 n. 2630).
In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
Consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità nella misura in dispositivo liquidata.
Occorre, infine dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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