CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 novembre 2016, n. 22436
Avviso di accertamento – Credito IVA – Operazioni non fatturate o fatturate erroneamente
Ritenuto in fatto
1.1 L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione avverso la sentenza con la quale la CTR Marche, respingendone l’appello, ha confermato la decisione pronunciata in primo grado di annullamento di un avviso di accertamento notificato alla A. s.r.l. in liquidazione ed avente ad oggetto, pur in presenza dell’adesione della parte al condono previsto dall’art. 15 L. 289/02, il parziale disconoscimento di un credito IVA in quanto derivante da operazioni non fatturate o fatturate erroneamente.
La CTR ha ritenuto che “la definizione dell’atto comporti unicamente la rinuncia dell’erario a far valere quella specifica pretesa fiscale” nello stesso spirito del “patto fiscale” che governa l’analoga misura dell’art. 9 L. cit., di modo che non è “legittimo che l’amministrazione finanziaria, dopo aver accertato il pagamento di una somma aggiuntiva rispetto a quanto a suo tempo pagato sul dichiarato, possa pretendere ulteriori imposte sulla base di quegli stessi componenti positivi o negativi del reddito contestati con l’atto che il contribuente aveva inteso definire”.
1.2. Il ricorso erariale, a cui aveva fatto seguito il deposito di memoria ex art. 378 c.p.c., basato su un unico motivo era notificato ai soci in quanto come si evince dalla relata, la società era cessata.
Poiché uno dei soci (B.V.) era deceduto, il collegio, chiamata la causa all’udienza del 21.12.2015, aveva ordinato l’integrazione del contraddittorio a mente dell’art. 331 c.p.c. ed aveva rinviato la trattazione a nuovo ruolo.
In esito all’incombente e alle formalità previste dall’art. 371-bis c.p.c. la causa era nuovamente chiamata all’odierna udienza di discussione.
Non ha svolto attività difensiva la parte.
Il collegio ha autorizzato l’adozione della motivazione semplificata.
Considerato in diritto
2.1. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente deduce ex art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 L. 289/02, poiché la CTR, pronunciandosi nei riferiti termini, ha mostrato di non avere evidentemente compreso “che l’ufficio non richiedeva nuovamente importi già oggetto della definizione ex art. 15 né richiedeva maggiori imposte, ma legittimamente disconosceva i crediti d’imposta esposti nella dichiarazione del contribuente”, e ciò perché “la ratio” del condono, che lega l’effetto di definizione del rapporto tributario alla realizzazione di un’entrata alla chiusura di una pendenza tributaria, “esclude infatti che la stabilizzazione del rapporto possa dar luogo ad una forma di consolidamento di un credito d’imposta”.
2.2. Il motivo è fondato.
Questa Corte ha già avuto reiterata occasione di affermare che in tema di condono fiscale “non è inibito all’Erario l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto a conseguirlo, atteso che il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti – sia nell’ipotesi di cui all’art. 9, che in quella minore di cui all’art. 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, in cui l’oggetto di definizione non è il tributo, ma la lite potenziale – all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio” (6982/15). Nessuna preclusione è invero in tal senso argomentabile, come ha chiarito Corte Cost. 340/05, dall’art. 9, commi 9 e 10, L. 289/02 ove si afferma, rispettivamente, che la definizione automatica delle imposte “non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonché dell’imposta regionale sulle attività produttive” e determina “la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario”, vero che la prima “va intesa nel senso che il condono non influisce di per sé sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorché la pretesa di rimborso sia riscontrata fondata” e la seconda “preclude bensì l’accertamento dei debiti tributari dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti”.
E’ dunque palese l’errore di diritto in cui è incorso il giudicante d’appello ritenendo che gli effettivi definitori del condono si comunichino anche ai crediti esposti in dichiarazione, “cristallizzando” la relativa pretesa ed impedendo l’esercizio di ogni azione accertatrice da parte del fisco.
3. Cassata perciò l’impugnata sentenza, la causa non abbisognando di ulteriori accertamenti di fatto, può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c. mediante il rigetto del proposto ricorso introduttivo.
Le spese seguono la soccombenza nel presente giudizio, mentre possono essere compensate per i gradi di merito attesa la stabilizzazione del quadro interpretativo successivamente al ricorso.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e decidendo nel merito respinge il ricorso introduttivo; condanna parte intimata al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 2600,00= oltre eventuali spese prenotate a debito ed eventuali accessori e compensa le spese dei giudizi di merito.
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