CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 febbraio 2018, n. 2699
Rapporto di lavoro domestico – Decesso del datore di lavoro – Residuo debito – Differenze retributive per errato inquadramento – Prove testimoniali – Onere di trascrizione nell’atto di impugnazione
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, con sentenza depositata il 28/11/2012, respingeva il gravame interposto da S.O. nei confronti di D.V.P.M., avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede con la quale, in parziale accoglimento del ricorso proposto dalla medesima S., il D.V.P. era stato condannato, quale erede di M.V.P.E., al pagamento di Euro 150,00, oltre accessori, a titolo di compenso per lavoro straordinario in relazione al rapporto di lavoro domestico svolto dalla ricorrente presso l’abitazione di quest’ultima dal 21/7/2003 all’1/1/2004.
Per la cassazione della sentenza ricorre la lavoratrice sulla base di un motivo.
Il D.V.P. è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo articolato S.O. denuncia, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2967, 2733 e segg. c.c, lamentando, in particolare, la violazione e falsa applicazione dei poteri officiosi del giudice del lavoro, l’errata valutazione delle risultanze probatorie e l’errato inquadramento della lavoratrice nel livello A del CCNL per il lavoro domestico, quale collaboratrice domestica, anziché nel livello B super, dato che, secondo quanto dedotto dalla ricorrente, la stessa avrebbe svolto anche le mansioni di badante. A tale ultimo riguardo, la lavoratrice deduce che “la parte resistente non ha semplicemente dedotto che la ricorrente lavorasse come domestica, ma ha anche aggiunto che” la stessa fosse stata assunta “alle dipendenze della P. nel luglio 2003 per svolgere compiti di collaboratrice domestica e di addetta alla datrice di lavoro” ed assume che questa dichiarazione sarebbe la confessione di parte datoriale in ordine alle effettive mansioni svolte dalla S.; pertanto, secondo la ricorrente, la motivazione della sentenza oggetto del presente giudizio sarebbe illegittima perché non avrebbe tenuto conto di tale confessione circa un residuo debito verso la lavoratrice e, soprattutto, non avrebbe considerato che tale dichiarazione confessoria era stata ribadita in sede di gravame, anche se non supportata da alcuna documentazione probatoria ex art. 2697 c.c..
1.1. Il motivo non può essere accolto.
Invero – anche a prescindere dal fatto che la ricorrente ha censurato la dedotta errata valutazione dei mezzi istruttori da parte della Corte di merito, nonché la scelta dei mezzi istruttori utilizzati per l’accertamento dei fatti rilevanti per la decisione, in riferimento al n. 3 del primo comma dell’art. 360 del codice di rito, anziché sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr., al riguardo, tra le molte, Cass. n. 21603/2013) e che, sempre in riferimento al n. 3, anziché in riferimento al n. 4 del predetto articolo 360, ha censurato la pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c. sotto il profilo della “mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato” -, va osservato che la Corte distrettuale, con un iter motivazionale del tutto condivisibile, suffragato dalla valutazione delle prove e scevro da vizi logico-giuridici, ha sottolineato che da un attento esame del tenore della comparsa di costituzione dell’appellato in primo grado, non risulta alcun riconoscimento del debito di Euro 723,48 ed altresì che la lavoratrice, nel domandare la condanna della controparte al pagamento di somme a titolo di differenze retributive, nel ricorso introduttivo del giudizio di prima istanza non ha indicato la qualifica di riferimento o la retribuzione sulla base della quale è stato formulato il conteggio delle proprie spettanze. La Corte di merito ha poi correttamente osservato che il D. ha dedotto che la S. svolgeva mansioni di collaboratrice domestica e non di badante “(tale non potendo intendersi il mero riferimento all’assistenza alla persona della M.”, perché “espressione generica”) e che, pertanto, correttamente, ai fini del corretto calcolo della retribuzione alla stessa spettante, si dovesse fare riferimento al livello A del CCNL di categoria, nel quale rientrano le collaboratrici domestiche, per le quali ultime è prevista la retribuzione mensile minima di Euro 550,00, inferiore, peraltro. a quella concretamente corrisposta dal D., pari ad Euro 620,00, rimasta non contestata e documentata dalle copie delle ricevute in atti.
Per quanto, infine, attiene alla valutazione degli elementi probatori, posto che la stessa è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, qualora il ricorrente denunci, in sede di legittimità, l’omessa o errata valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, ma anche di specificare i punti ritenuti decisivi al fine di consentire il vaglio di decisività che avrebbe eventualmente dovuto condurre il giudice ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa valutazione alle dichiarazioni testimoniali relativamente alle quali si denunzia il vizio (v., tra le molte, Cass. n. 6023 del 2009).
Nel caso di specie, invero, la contestazione, peraltro del tutto generica, sulle dichiarazioni rese da alcuni testimoni, senza che le stesse siano state trascritte, si risolve in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto di deposizioni testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi (cfr. Cass. n. 4056 del 2009), finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014).
Pertanto, le doglianze articolate dalla ricorrente appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza sotto il profilo dell’iter logicogiuridico.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.
Nulla va disposto in ordine alle spese, poiché D.V.P.M. non ha svolto attività difensiva.
Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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