CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 gennaio 2017, n. 160
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Possibilità di repechage – Onere probatorio – Accertamento
Svolgimento del processo
A. G. A. adiva il Tribunale di Firenze ed esponeva di aver lavorato, a far tempo dal 15/1/1969, alle dipendenze di diversi soggetti giuridici, da ultimo la I. s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati, della quale la prima società deteneva una quota di partecipazione pari all’80%. Deduceva che il rapporto si era risolto con licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dal Consorzio il 25/6/2009, ritenuto illegittimo sia perché infondato nella motivazione oggettiva, sia perché la parte datoriale non aveva offerto alcuna possibilità di repechage. Allegava, altresì, il carattere ritorsivo del licenziamento, per esser stato intimato a seguito della sua istanza di conseguire il pagamento del TFR maturato dal 1969.
Nel prospettare la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, conveniva in giudizio la I. s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati chiedendo dichiararsi l’illegittimità del provvedimento espulsivo irrogato e condannarsi le società in solido fra loro e comunque, ciascuna per quanto di dovere, alla reintegra nel posto di lavoro ed agli ulteriori effetti risarcitori sanciti dall’art.18 L. 300/70, nonché al pagamento delle differenze retributive spettanti a titolo di lavoro straordinario, di differenze TFR in relazione al periodo 1969-2004, al risarcimento del danno biologico e morale dovuto alla gravosità dell’orario di lavoro svolto nel corso della intera storia lavorativa, e alle modalità con le quali era stato intimato il licenziamento.
Le parti convenute resistevano al ricorso chiedendo fosse respinto.
Con sentenza resa pubblica in data 11/12/2012 il giudice adito rigettava le domande.
A fondamento del decisum, per quanto in questa sede rileva, il Tribunale osservava che il licenziamento era sorretto da una causale oggettiva, integrata dal compimento delle opere edili eseguite dal Consorzio Caserma Donati. Sotto il profilo dell’impossibilità di reimpiego del dipendente in mansioni diverse da quelle in precedenza a lui ascritte, rimarcava il giudicante che il relativo onere probatorio, posto a carico della parte datoriale, non andava inteso in senso rigido, dovendosi esigere dal lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, conseguendo solo a tale allegazione – nella specie mancante – l’onere del datore di lavoro di dimostrare la non utilizzabilità nei posti predetti.
Il Tribunale negava, poi, che potesse configurarsi nella specie un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, non avendo il ricorrente assolto all’onere della prova relativo alla unicità della struttura organizzativa produttiva; alla integrazione fra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo; al coordinamento tecnico amministrativo e finanziario che attribuisse uno scopo comune alla pluralità di attività; alla utilizzazione contemporanea della attività lavorativa da parte delle diverse società. Il giudice di prima istanza rimarcava quindi che, dall’inquadramento nel settimo livello c.c.n.I. edili, impiegati direttivi, per il quale il ricorrente percepiva una indennità volta a compensare proprio il superamento dell’orario ordinario di lavoro, discendeva l’impossibilità di conseguire l’indennità di lavoro straordinario oggetto di rivendicazione, non risultando dimostrato in causa il superamento dei limiti di ragionevolezza del normale orario, a causa della maggiore gravosità dell’impegno lavorativo assolto.
La Corte d’Appello di Firenze con ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. dichiarava inammissibile il ricorso proposto dall’Algeri avverso tale decisione.
La cassazione di dette pronunce è chiesta dall’A. con quattro motivi.
Resistono con controricorso la Salini I. s.p.a. (già I. s.p.a.) ed il Consorzio Caserma Donati in liquidazione, che hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.
Deceduto medio tempore il ricorrente, sono intervenuti in giudizio con ricorso gli eredi S. R., A. G. ed A. M.
Motivi della decisione
Deve in via pregiudiziale, dichiararsi l’inammissibilità dell’intervento nel presente giudizio di legittimità, degli eredi A.
Rinviene infatti applicazione il principio già affermato da questa Corte, che va qui ribadito, in base al quale nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità dominato dall’impulso d’ufficio, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, né consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo (vedi ex plurimis, Cass. 29/1/2016 n. 1757, Cass. 3/12/2015 n. 24635).
Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115-116 c.p.c., nonché dell’art. 5 L. 604/1966 in relazione all’art.360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si critica la sentenza di primo grado per esser pervenuta al diniego di riconoscimento del collegamento funzionale fra I. s.p.a. ed il Consorzio Caserma Donati, tralasciando di considerare due dati essenziali emersi dal materiale istruttorio acquisito: a) la natura di società controllata del Consorzio, di cui I. s.p.a. deteneva la partecipazione nella misura dell’80% ed il potere di nomina del Presidente; b) la chiusura dei lavori edili da parte del Consorzio, non aveva determinato la cessazione delle attività amministrative, proseguite almeno sino al 2010. In ragione del chiaro collegamento fra le società, si deduce che l’individuazione del personale eccedentario avrebbe dovuto estendersi all’intero gruppo societario. In ogni caso si rimarca l’errore di fondo che connotava la pronuncia impugnata, laddove si era espressa in termini di inversione dell’onere probatorio di cui all’art. 5 L. 604/1966 quanto alla possibilità di ricollocazione del lavoratore nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale. Si deduce infatti che, diversamente da quanto argomentato dal giudice di prima istanza, detta disposizione pone integralmente a carico del datore di lavoro, la prova della impossibilità di procedere ad un diverso reimpiego del lavoratore, anche in mansioni diverse da quelle in precedenza espletate.
Il motivo è solo in parte fondato.
Il ricorrente ha, infatti, modulato le proprie censure, in primis, con riferimento alla statuizione di diniego di riconoscimento del collegamento economico-funzionale fra imprese, invocando la violazione dei principi sanciti dalle disposizioni di cui agli artt.115- 116 c.p.c. e lamentando il non corretto governo del materiale istruttorio da parte del giudice di prima istanza il quale avrebbe trascurato taluni dati documentali e testimoniali, che deponevano nel senso patrocinato, di un collegamento funzionale fra le imprese convenute.
Va in proposito considerato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.
Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura attiene al vizio di motivazione, mirando a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, della valutazione dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame che è inibita nella presente sede di legittimità, giacché l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. 16/7/2010 n. 16698, Cass. 18/11/2011 n. 24253, Cass. 16/09/2013 n. 21099 cui adde, da ultimo, Cass. 11/1/2016 n. 195).
E, sempre sulla medesima linea interpretativa, va rimarcato come la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere che “la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ. e, quanto a quest’ultimo, che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito da tale ultima disposizione, “non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità”, con la conseguenza che “risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (v., fra le altre, Cass. 1/9/2011 n.17977, Cass. 16/11/2011 n. 27197).
Anche prima della riformulazione dell’art. 360 comma primo n. 5 c.p.c., di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134, non era, dunque, invocabile in sede di legittimità, un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte.
L’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n.5 (applicabile, ratione temporis, alla fattispecie qui scrutinata), come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha comportato, poi, una ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta (Cass. Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.
Tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nell’ottica descritta, si impone, quindi, l’evidenza della inammissibilità del motivo, laddove tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori oggetto di esegesi da parte della Corte territoriale, non consentita in questa sede di legittimità, trattandosi di doglianza che esula dall’ambito del vizio di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Peraltro, non può sottacersi che, come statuito da questa Corte (vedi ex plurimis, Cass. 11/12/2014 n. 26097) “in ipotesi di cosiddetta, “doppia conforme” in fatto a cognizione sommaria, ex art. 348 ter, quarto comma, cod. proc. civ., è escluso il controllo sulla ricostruzione di fatto operata dai giudici di merito, sicché il sindacato di legittimità del provvedimento di primo grado è possibile soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici o manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, perplessi o obiettivamente incomprensibili”.
Situazione, questa, non ravvisabile nello specifico, posto che il giudice di prima istanza ha proceduto alla disamina del quadro istruttorio, definito in giudizio, pervenendo all’accertamento di una carenza nella allegazione e nella prova in ordine alla unicità del centro di imputazione di interessi, con statuizione congrua e completa che si palesa, altresì, conforme a diritto.
Essa è infatti coerente con gli approdi ai quali è pervenuta questa Corte sulla delibata questione, in base ai quali il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare – anche all’eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l’applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato – un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro.
Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico – funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l’esistenza di una serie di requisiti quali l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; l’integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; il coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo; l’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso
che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (cfr. Cass. 12/2/2013 n. 3842).
In definitiva, la statuizione del giudice di prima istanza – con riguardo al collegamento economico funzionale fra le due imprese – per le argomentazioni sinora svolte, resiste alla censura all’esame.
Ciò detto, va rimarcato che la pronuncia impugnata, con riferimento alla affermazione concernente l’attribuzione a carico del lavoratore, dell’onere di dimostrare l’esistenza di collocazioni professionali alternative nel contesto aziendale all’epoca del licenziamento, si espone alle critiche sul punto formulate dal ricorrente.
Per un ordinato iter motivazionale, si impongono talune considerazioni di ordine generale con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con il quale il legislatore ha disciplinato le ipotesi in cui si presenta la necessità di sopprimere determinati posti di lavoro a causa di scelte attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (L. 15 luglio 1966 n. 604 art. 3).
E’ stato al riguardo affermato che compete al giudice – il quale non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale la parte datoriale ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto (cfr. ex plurimis, Cass. 14/5/2012 n. 7474, Cass. 11/7/2011 n. 15157). Sotto il medesimo versante, va considerato che la dimostrazione della effettività delle ragioni sottese al provvedimento espulsivo, non è sufficiente da sola ad integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo, essendo necessaria la prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti, secondo un consolidato principio giurisprudenziale che invera la tesi del licenziamento come extrema ratio.
Con risalente orientamento, questa Corte ha, infatti, avuto modo di affermare il principio in base al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri), la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come “extrema ratio” (v. Cass. 14/6/1999 n. 5893, Cass. 5/12/2000 n. 15451, Cass. 20/5/2009 n. 11720). Ai fini della legittimità dello stesso, sul datore di lavoro incombe, dunque, l’onere probatorio inerente sia alla concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo, sia alla impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professipnale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito (cfr., ex plurimis, in motivazione, Cass. 13/8/2008 n. 21579), potendo l’onere in questione ricondursi al generale principio della buona fede, che impone a ciascun contraente di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte, come sottolineato da avvertita dottrina.
Nello specifico, il giudice di prima istanza, le cui statuizioni risultano oggetto di rituale impugnazione ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., ha espressamente dedotto che le critiche formulate dal ricorrente si appuntavano sulla necessità che, a fronte della motivazione oggettiva inerente al compimento delle opere seguite dal Consorzio ed all’avvio della attività di liquidazione, “il datore di lavoro lo dovesse trattenere in servizio rispetto a dipendenti meno anziani oppure ricollocare altrimenti”.
Il giudicante ha quindi affermato che il lavoratore non aveva “assolto l’onere di allegazione che su di lui incombeva, da un lato sull’esistenza di dipendenti rispetto ai quali essere preferito con riferimento ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare per motivo oggettivo, e dall’altro lato sull’esistenza di collocazioni professionali alternative per mansioni equivalenti o inferiori sulle quali avrebbe potuto essere utilmente ricollocato”.
Ha poi puntualizzato che incombe al lavoratore dimostrare l’illegittimità della scelta con indicazione dei dipendenti in relazione ai quali la stessa sarebbe stata falsamente o illegittimamente realizzata e che, sotto altro versante, il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle in precedenza svolte, con la precisazione che tuttavia, si debba esigere dallo stesso lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente collocato.
Orbene, premesso che è da escludersi il passaggio in giudicato di detta statuizione – prospettato dal Consorzio Caserma Donati in sede di controricorso con riferimento alla impossibilità di utile ricollocazione dell’A. nel contesto aziendale – giacché il ricorrente ha espressamente dedotto nel contesto del presente ricorso, che l’attività amministrativa del Consorzio era proseguita per almeno un anno dopo il licenziamento, come confermato in sede testimoniale, ed ha lamentato la mancata dimostrazione da parte datoriale (Consorzio ovvero società controllante I.) di una possibilità di reimpiego in mansioni equivalenti o anche deteriori rispetto a quelle in precedenza a lui ascritte, deve ritenersi che gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale in tema di obbligo di repechage, non siano condivisibili.
Essi si fondano, pervero, su orientamento giurisprudenziale che, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sostanzialmente condiziona l’onere del datore di lavoro di provare l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, a che lo stesso lavoratore-attore collabori con il convenuto nell’accertamento di un possibile reimpiego, indicando gli altri posti in cui potrebbe essere utilmente riallocato. Si tratta di orientamento che è stato oggetto di rimeditazione in recenti arresti di questa Corte (vedi Cass. 13/6/2016 n. 12101, Cass. 22/3/2016 n. 5592, Cass. 4/12/2015 n. 4460), ai quali si intende dare continuità, per le considerazioni di seguito esposte.
Sul piano processuale, si impone l’evidenza che l’opzione adottata dal giudice del merito in tema di repechage con riguardo all’onere di allegazione e collaborazione da parte del lavoratore, si risolve in una sostanziale inversione dell’onere probatorio – che invece l’art. 5 legge n. 604/66 pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro -, divaricando onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, laddove detti oneri non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione (sull’impossibilità di disgiungere fra loro onere di allegazione e relativo onere probatorio gravante sulla medesima parte v., ex aliis, Cass. cit. n. 12101/2016, Cass. 15/10/2014 n. 21847).
Nell’ottica descritta, va quindi rimarcato come l’opzione ermeneutica che configura a carico del lavoratore l’onere di segnalare una sua possibilità di riallocazione nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale, non appare coerente con la lettera e la ratio che sorregge l’art. 5 legge n. 604/66, secondo cui l’onere della prova circa l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a carico della parte datoriale, con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore (cfr. in tal senso Cass. n. 8254/92, richiamata più di recente da Cass. n. 4460/2015).
Non può sottacersi, del resto, che il descritto orientamento non si palesa coerente con quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema dì onere della prova, qui condivisa, che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla (vedi ex plurimis, Cass. 9/11/2006 n. 23918, Cass. 4/5/2012 n. 6799, Cass. 29/1/2016 n. 1665, Cass. 31/3/2016 n. 6209).
Invero, mentre il lavoratore non ha accesso (o non ne ha di completo) al quadro complessivo della situazione aziendale per verificare dove e come potrebbe essere riallocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione e prova.
Dalle superiori argomentazioni discende quindi che la pronuncia impugnata, in quanto non coerente con gli enunciati principi in tema di repechage, deve essere cassata, in accoglimento – entro gli esposti limiti – del primo motivo di ricorso.
Con il secondo mezzo di impugnazione il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697c.c., 115-116 c.p.c. ex all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Lamenta che il giudice di prima istanza abbia proceduto ad una non corretta valutazione del compendio istruttorio di natura documentale e testimoniale raccolto, in relazione alla richiesta di pagamento integrale del T.F.R. Rimarca in proposito che dalla lettera in data 15/11/89 inviata dalla datrice di lavoro Cogefar si riconosce una anzianità di servizio ventennale, comprensiva, dunque, dell’iniziale periodo di lavoro espletato in Libia presso la CSC Cogefar, periodo che non risulta computato in sede di liquidazione del TFR da parte del Consorzio Caserma Donati.
La censura va disattesa sulla scorta delle medesime argomentazioni esposte in relazione al primo motivo.
Il Tribunale ha infatti modulato il proprio iter motivazionale, del pari, sulla carenza di allegazione e di prova in ordine alla successione, ai sensi del disposto di cui all’art. 2112 c.c. fra i soggetti giuridici dei quali il ricorrente era stato dipendente a far tempo dal 1969 e, comunque, sulla sostanziale unicità del centro di imputazione di interessi, evidenziando come la obiettivata carenza di allegazione e di prova al riguardo, ostava all’accoglimento della domanda attinente alle differenze di T.F.R.
Si tratta di argomentazioni congrue e conformi a diritto, insuscettibili di emendamento nella presente sede, anche alla stregua del disposto di cui all’art.348 ter comma 4 c.p.c.
Con la terza censura si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2099 – 2103 2697 c.c., 115 – 116 c.p.c. nonché dell’art.l r.d. 15/3/23 n. 692, dell’art. 3 n. 2 r.d. 10/9/23 n. 1955 e dell’art. 17 d.lgs. n.66/2003 oltre alla violazione e falsa applicazione dell’art. 48 c.c.n.I. dipendenti imprese edili, ex all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si stigmatizza la sentenza impugnata per non aver rettamente interpretato le dichiarazioni rese dai testimoni escussi in merito agli orari di lavoro osservati – che superavano le otto ore giornaliere dal lunedì al venerdì nel periodo 2004-2009 – cosi come in relazione alle mansioni ascritte al dipendente, il quale non risultava preposto ad alcun reparto o ramo d’azienda con diretta responsabilità dell’andamento dei servizi, di guisa che non poteva ritenersi svincolato dai limiti di orario, come prescritto dalle disposizioni normative richiamate. Si argomenta, in ogni caso che, pur ove si intendesse aderire alla ricostruzione offerta dal primo giudice in ordine allo svolgimento di funzioni direttive da parte del ricorrente, doveva ritenersi dimostrato lo svolgimento di un monte ore di lavoro superiore al limite annuo di 250 ore stabilito dall’art. 5, L. 66/2003, con conseguente retribuibilità del lavoro straordinario prestato in eccedenza rispetto a tale misura.
Il motivo, che risulta essenzialmente articolato sulla errata interpretazione delle disposizioni contrattuali collettive dipendenti imprese edili che definiscono il personale direttivo per il quale è esclusa la limitazione dell’orario di lavoro, è improcedibile.
Non può prescindersi, sul punto, dal richiamo all’orientamento espresso da questa Corte, e che va qui ribadito, in base al quale, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dalla disposizione di cui all’art.366 c.p.c. comma primo n. 6 c.p.c., è necessario indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (vedi Cass. 6/3/2012 n. 4220, Cass. 9/4/2013 n. 8569, cui adde Cass. 24/10/2014 n. 22607).
Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento, un contratto o un accordo collettivo prodotto in giudizio, postula quindi, che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.
E’ stato altresì precisato che “l’onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali – nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli – anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto d’impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio onde verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito (vedi Cass. 7/7/2014 n. 15437).
Può quindi affermarsi che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi, come nella specie, della erronea valutazione di un contratto collettivo da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo integralmente agli atti e di indicarne il contenuto.
Nello specifico, il contratto collettivo applicabile ratione temporis, non risulta prodotto integralmente, sicché il motivo svolto non si sottrae ad un giudizio di improcedibilita alla stregua dei dettami sanciti dall’art. 369 comma 2 n. 4 c.p.c.
Con la quarta censura il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1226- 2697c.c., 115-116 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. Lamenta che la corte distrettuale, nello scrutinio della domanda di risarcimento del danno biologico formulata, abbia omesso di valutare o mal valutato il compendio probatorio acquisito, che deponeva in guisa univoca nel senso di definire l’intimazione di licenziamento secondo modalità irriguardose, tali da menomare la propria integrità psicofisica. Si duole altresì del mancato ricorso a principi di equità quanto al danno biologico risentito per effetto delle ore di lavoro straordinario rese oltre i normali limiti di tollerabilità negli anni 2004- 2009.
La doglianza va disattesa, mirando a pervenire, inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione della valutazione dei fatti di causa elaborata dal giudice di primo grado e confermata dalla Corte distrettuale, inibita nella presente sede di legittimità, avendo la Corte anzidetta, ancora una volta argomentato la reiezione della domanda inerente al danno biologico, sul rilievo della carenza di allegazione e di prova il cui onere incombeva a carico del ricorrente, con motivazione congrua e completa.
In definitiva, alla stregua delle sinora esposte argomentazioni, va accolto esclusivamente il primo motivo di ricorso, nei sensi innanzi descritti, respinti gli altri; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte designata in dispositivo che, statuendo anche sulle spese del presente giudizio di cassazione, applicherà i principi affermati da questa Corte con le citate sentente nn. Cass. 13/6/2016 n. 12101, Cass. 22/3/2016 n. 5592, Cass. 4/12/2015 n. 4460.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Bologna.
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